Barry Lyndon

Barry Lyndon, (GB 1975) di Stanley Kubrick: film di straordinaria complessità tematica e stilistica; elemento dominante è la luce, vista come fonte di conoscenza del mondo sensibile (frequenti rimandi alle teorie ottiche sulla percezione dei colori) e come fulcro di un dramma basato sui concetti di ascesa e caduta delle ambizioni umane, di progetto e di scacco della volontà a opera di circostanze incontrollabili. Tutte le azioni cruciali si svolgono infatti in ambienti nei quali il riverbero delle candele – mirabilmente riprodotto da una pellicola ad altissima sensibilità della Carl Zeiss – avvolge i personaggi in un’atmosfera rarefatta, di impalpabile trasparenza, che misura la distanza temporale degli avvenimenti ed esprime il clima emotivo di ciascuna sequenza. Gli eventi sono inevitabili e la coscienza può comprenderli ma non modificarli. Da qui l’insistenza sul motivo del gioco, estrema risposta dell’uomo alle leggi del caso (la guerra, i duelli, le partite a carte, le manovre per la conquista del potere sociale da parte di Barry). Lo scomparso regista amava a tal punto Napoleone, o meglio ciò che egli ancora rappresenta per coloro che lo amano (giustizia, uguaglianza, capacità, merito, senso della patria), al di là dei suoi errori, da volere realizzare una trilogia sul grande Corso; non trovando i finanziamenti occorrenti (purtroppo i produttori si spaventarono all’idea di finanziargli la ricostruzione delle battaglie di Austerliz, Eylau e Waterloo), girò Barry Lyndon, storia ambientata ancora al tempo dell’Antico Regime, durante la guerra dei Sette anni. Film gelido e sontuoso, esprime al massimo livello, per quanto ci è dato supporre, il clima della ipocrita razionalità settecentesca: magistrali e di raro effetto le scene di battaglia del Settecento, dove anche lo scambio di fucilate, scandite dalle musiche originali di Federico di Prussia, segue criteri di assoluta, implacabile, presunta razionalità. Non comprendere che Barry anticipa di cinquant’anni la carriera del grande Corso, con tutto il carico di amarezze che l’uomo riceve dalla Storia, come, per altro, negli altri film dello scomparso regista, errore tollerabile per un giovane o per lo spettatore sprovveduto, costituisce un grave incidente di percorso per qualsiasi critico di mestiere: eppure non furono pochi gli specialisti che, sul finire degli anni Ottanta, parlarono a proposito del film più amato da Kubrick, addirittura di “morte del cinema”.

J.V.



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