BREVI NOTE DI ECONOMIA POLITICA
BREVI NOTE DI ECONOMIA POLITICA
Dal momento che oggi la confusione tra i non addetti ai lavori regna sovrana visto il livello di talk show et similia tentiamo di riassumere succintamente cosa si intende per economia politica.
A quanti mi dicono che Facebook non è la sede adatta per parlare di questioni serie, insisto nel rispondere che probabilmente hanno ragione loro… e quindi, avendo torto io, continuo con umiltà e senza pretese esaustive. Se anche ad una singola persona potrà essere di qualche utilità ciò che scrivo mi riterrò soddisfatto.
Una tecnica per affrontare situazioni di scarsezza. Le regole di tale tecnica definiscono il comportamento razionale dell’uomo. Questo comportamento è oggetto dell’economia politica.
Nasce nel mondo moderno, nel XVIII secolo, quando, con i Fisiocratici, si riconosce l’esistenza di un ordine naturale nei fenomeni economici. Dupont de Nemours è il primo a definirla “scienza dell’ordine naturale”. La dottrina di quest’ordine viene illustrata da Quesnay nel Tableau Économique (1758) e da Turgot nelle Refléxion sur la formation et la distribution des richesses (1776). In linea col giusnaturalismo, l’ordine naturale è un ordine razionale che prevede di raggiungere il massimo risultato col minimo sforzo. Da qui il non intervento del Laissez faire, laissez passer. Adam Smith accetta tutto ciò in An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776). Libertà illimitata dei soggetti economici. Occorre favorire l’umana tendenza egoistica e tutto andrà a posto. Realizzando il proprio bene privato, gli uomini realizzano anche il bene collettivo. Liberalismo classico: negazione di ogni intervento statale, concorrenza come forza regolatrice. Iniziano i guai e il primo a farli notare sarà Malthus con An Essay on the Principles of Population (1798). Mette in luce lo squilibrio tra l’entità della popolazione e l’entità dei mezzi di sussistenza. Conseguenze: epidemie, guerre, flagelli sociali. Poi Ricardo in Principles of Political Economy (1817) illustra i contrasti tra interesse generale e privato. Antagonismo tra salario e profitto. Così anche Sismondi e Saint-Simon. Poi socialisti come Owen, Fourier, Blanc preconizzano gruppi sociali che conservino una certa indipendenza e non perdano lo spirito di iniziativa (associazionismo, falansteri, officine sociali). Il primo vero attacco contro la proprietà privata viene condotto da Proudhon Qu’est-ce que la propriété? (1840). Risposta: un furto, nel senso che il proprietario dispone del frutto del lavoro altrui.
A metà Ottocento Bastiat e Stuart Mill teorizzano nuovamente il liberalismo classico di Smith. I prodotti umani saranno limitati dalla somma dei prodotti accumulati anteriormente (il capitale) e saranno proporzionali all’energia umana e alla perfezione delle macchine. Così si giunge alle leggi del capitale e dei compensi decrescenti. Occorre dire che Stuart Mill, parlando di distribuzione della ricchezza scalfisce il principio dell’ordine meccanico. Comunque nella seconda metà dell’Ottocento partono gli attacchi marxisti (Das Kapital, 1867). Sostanzialmente comunque tanto i liberali quanto i marxisti abbracciano la teoria del valore-lavoro.
Verso il 1870, con Jevons, Menger e Walras nasce la dottrina dell’utilità marginale per cui il valore è “l’importanza che noi attribuiamo a determinati beni concreti o quantità di beni per il fatto che sappiamo che la soddisfazione dei nostri bisogni dipende dalla possibilità di disporre di quei beni” (Menger, Grundsärze der Volkswirtschaftslehere, 1871). Quindi il valore nasce dalla limitazione dei beni rispetto ai bisogni. Più il bene è raro e più vale. Si giunge al grado finale di utilità. Secondo Walras in termini matematici l’utilità marginale è “la derivata dell’utilità effettiva in rapporto alla quantità posseduta”. Beni e bisogni sono determinati dalla situazione economica. Non esiste un cammino a priori. Lo stato di equilibrio diviene l’oggetto della scienza economica, rivolta a cercare l’optimum. Si distinguono due metodi della teoria economica dell’equilibrio: geometrico, o di Marshall, e algebrico, o metodo di Losanna. Il primo detto dell’equilibrio parziale e il secondo generale. Sono evidenti i parallelismi con la concezione della meccanica classica anteriore alla fisica einsteniana. L’Economia dell’equilibrio presuppone leggi necessarie ed un soggetto economico infallibile ed onnisciente. Lo scontro con l’empirico sarà violentissimo. In un’epoca come la nostra la teoria dell’equilibrio è insufficiente come dimostrerà Keynes in The General Theory of Employement, Interest and Money del 1936. Oltre Keynes abbiamo oggi la teoria dei giochi che si fonda sul presupposto che l’individuo non controlli tutte le variabili da cui dipende il risultato. Non è Robinson Crusoè. Il mondo contemporaneo è assai più complesso e la parola “razionale” assume significati diversi. Pertanto la teoria dei giochi rigetta l’analogia con i sistemi fisici perché fisica ed economia rispondono a situazioni assai differenti. L’Economia politica si avvale così del modello dei giochi di strategia dove la vincita del singolo dipende non soltanto dalle sue mosse ma dal caso e da quelle degli altri giocatori. Il comportamento razionale diviene la scelta migliore, ottima. “Un gioco può essere descritto in termini di strategie, che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l’equilibrio c’è, quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme.” (John Nash)
Per poter scegliere occorre conoscere a fondo matematica, statistica, possedere grandi doti intuitive e capacità analitico-sintetiche. La teoria dei giochi è finalmente antidogmatica e consente di affrontare gli enormi problemi posti dal mondo contemporaneo. Morgenstern ritiene che sia impensabile una scelta razionale nel senso classico. L’economista può al massimo fornire documentazione di cui gli operatori pubblici possono tener conto. Gli sviluppi informatici condizionano in ogni senso il capitale-lavoro ed offrono nuovi orizzonti da un lato ma aprono immensi problemi occupazionali dall’altro. Tutti i modelli classici vanno ripensati.
La crisi del 2008 ne è un segno inequivocabile. Occorre essere pragmatici, saggi e abbandonare sterili ideologie. Le incertezze oggi sono amplificate dalla pandemia. Impensabile abbandonare l’Europa ma è indispensabile comprendere il nuovo ordine mondiale che va costruendosi con tremenda sofferenza. Senza abbandonare i giganti come Keynes dobbiamo affrontare una realtà in divenire continuo. La mia timida proposta è un massiccio investimento sui giovani, sulla scuola di qualità, sulla ricerca scientifica. Non investimento dissennato a pioggia per soddisfare appetiti elettorali, ma investimento mirato alla crescita e sul lungo periodo. Deve cessare l’egoismo individuale per ritorno elettorale oggi non più accettabile. Non possiamo privare i giovani del loro futuro.
Tautologico aggiungere che un buon politico dovrebbe conoscere, almeno per grandi linee, quanto si è succintamente riportato in queste righe ed avere poi l’umiltà di ascoltare economisti di chiara fama.
J.V.