DANIELE BIELLO, IL PUZZLE

DANIELE BIELLO, IL PUZZLE

Qual è l’essenza della guerra? Questa è la domanda che l’autore si pone e ci pone in questo lavoro complesso, profondo e frutto di numerose letture. Non fornisce risposte esaustive (non è il suo compito) ma formula dubbi, interrogativi, pone sul tappeto questioni spinose e lontane dalle ovvietà del senso comune e del facile quanto ingenuo pacifismo di maniera. Il puzzle-guerra è il δαίμον dell’umanità, a metà strada tra l’umano e il divino, tra il reale e l’ideale. È probabilmente un rompicapo insolubile. L’autore cita infatti con intelligenza le parole che Umberto Eco utilizzò per chiudere “Il nome della rosa” “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (La rosa primigenia esiste soltanto nel nome, possediamo soltanto nudi momi).

La “pace perpetua” di kantiana memoria si è spezzata come la balzana idea della fine della Storia. La guerra è uno strumento politico come scritto da Tucidide (La guerra è padre di tutte le cose) ed è pura illusione pensare ad una condizione umana vissuta in un’eterna pace. Il senso comune percepisce la guerra come peccato originale e tutto ciò che il civile sa sui soldati e sulla guerra gli viene trasmesso dei media. In realtà il tentativo di cogliere l’essenza della guerra ha visto impegnati dopo Tucidide, e per citare soltanto i più importanti, Sun Zi, i padri della chiesa, gli umanisti, gli scrittori politici del seicento come Hobbes, Grozio, Bodin, gli illuministi e gli autori della restaurazione quali de Maistre, i romantici da Clausewitz a Hegel passando da Dostoevskij sino ad arrivare ai politologi del secolo scorso. Occorre intanto precisare che non tutti i conflitti armati sono guerre ed è errato pensare che dove vi sia uno scontro armato vi sia una guerra. Il fenomeno guerra si definisce come status giuridico che riconosce un eguale diritto a due o più gruppi di sostenere un conflitto che richieda l’uso delle armi. Il tema cruciale dello studio del fenomeno bellico è quello che porta all’identificazione dell’attore che produce la guerra: l’uomo e/o lo Stato. Secondo l’autore il soggetto producente la guerra è la politity cioè lo stadio di sviluppo dell’agglomerato politico istituzionale che precede il momento statale, pertanto la guerra non è un hobbesiano stato di natura ma una stortura derivata non dalla natura umana ma dall’architettura del sistema internazionale. La scuola marxista ha enfatizzato l’importanza delle cause economiche ma in realtà la guerra è creatrice di suggestioni. La guerra dei trent’anni del 900 scoppiò per molti motivi, anche economici, ma soprattutto perché esisteva la volontà di entrare in guerra. Gli esseri umani nei confronti della guerra e delle sue tragedie provano un senso di attrazione-repulsione che viene definito vertigine. La presenza dell’arma nucleare, accompagnata dall’idea che non possa esistere un suo uso non massivo, ha generato la convinzione che la guerra abbia perso la sua identità di strumento politico per restare solo uno strumento di morte talmente potente da provocare l’estinzione del genere umano. Nell’ambito delle teorie pacifiste, soprattutto con quelle utopiche, i sostenitori di queste sembrano maggiormente interessati a deprecare la guerra piuttosto che a spiegare cos’è la pace. La risposta più intuitiva e non banale è che la pace non ha mai avuto una valenza politica. Ed è soltanto con Kant che la pace inizia ad avere dignità di fenomeno sociale. Lucido e decisivo come sempre Max Weber rileva che la pace altro non è che un cambio del carattere del conflitto. Questa definizione, che ovviamente dispiace a chi si sente distante dal pensiero realista, ha il pregio di attribuire una valenza politica alla pace. In realtà la guerra è il fallimento al più alto grado della “suasione”. Iniziare una guerra è comunque una manifestazione di debolezza perché i mutamenti dovuti al divenire a volte modificano gli obiettivi iniziali. Ad esempio Francia e Gran Bretagna sconfiggono Hitler nella seconda guerra mondiale ma il vecchio ordine non verrà più restaurato e l’Europa perderà il ruolo egemone che durava da secoli.

Altro tema forte affrontato nel libro è la distinzione tra jus ad bellum e jus in bello. Jus ad bellum (diritto di guerra) è una serie di criteri che devono essere consultati prima di entrare in guerra in modo da determinare se sia possibile l’entrata in guerra e se sia una guerra giusta. Lo jus ad bellum si riferisce alle legittime ragioni di uno Stato per intraprendere una guerra. Queste regole indicano comunque i criteri per cui una guerra debba ritenersi giusta, mentre nel caso del ius in bello (diritto in guerra) vengono indicati i requisiti per i quali essa è correttamente condotta. Gli accordi che definiscono i limiti di una guerra sono considerati “regole di guerra” e sono definiti unicamente come jus in bello. La Convenzione di Ginevra elenca una serie di regole di jus in bello: protezione dei civili in tempo di guerra, necessità di una proporzionalità tra le forze in uso, stile di condotta nella guerra. Da tutto questo si evince ciò che è lecito o illecito in tempo di guerra, o meglio se una guerra venga condotta giustamente o meno. Il principio di jus ad bellum o di giusta autorità suggerisce che una guerra sia tale solo se dichiarata da una legittima autorità. Questa autorità è contenuta nella nozione di stato sovrano. Così nella Summa Theologica, Tommaso d’Aquino scrive che per essere giusta una guerra, non deve soltanto essere dichiarata pubblicamente, ma deve essere indetta da un’autorità propria.

L’autorità propria è ciò che differenzia la guerra dall’assassinio: “Sono le regole di guerra che ne danno il significato pratico e la distinguono dall’assassinio, così come il soldato dal criminale”. Un soldato può essere trattato come un prigioniero di guerra ma non come un criminale perché sta operando per conto di una autorità propria di uno stato e non può essere ritenuto individualmente responsabile delle azioni che egli ha commesso per ordine della sua leadership militare. Inoltre la dichiarazione di guerra non deve essere fatta per interessi nazionali, ma per ristabilire una giusta pace. Questo stato di pace deve essere preferibile alle condizioni di guerra. Le guerre non possono essere combattute semplicemente per annettere dei territori o instaurare un nuovo regime. Oggi esistono dottrine di “autodifesa anticipatoria” o attacco preventivo, note comunemente come Dottrina Bush. Esse hanno mutato il concetto di giusta causa e legittima intenzione. La giusta causa include anche l’intervento umanitario, in particolare quando le azioni “scioccano le coscienze”.

Biello ribadisce come principio cardine del suo lavoro che “può essere guerra solo il conflitto combattuto nel rispetto dello jus in bello. Ogni altro genere di conflitto, indipendentemente dalla sua legittimità, deve essere considerato solo un warfare” (p. 129).

Altri temi interessanti affrontati nel libro sono la propaganda e la demonizzazione del nemico. Sia sufficiente pensare a quante volte viene impropriamente usato il termine “fascista” per delegittimare il nemico. Esempio classico è il giudizio critico di molti comunisti sul premier israeliano Benjamin Netanyahu definito fascista. Si può esprimere una critica severa e senza appello contro di lui ma definirlo fascista significa delegittimarlo e disumanizzarlo. Allo stesso modo Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina usa il termine “nazista”. Il nemico diviene così il Male assoluto e qualsiasi mezzo per contrastarlo è buono.

Infine una nota critica viene riservata dall’autore al pacifismo ipocrita e sostanzialmente finto delle sinistre marxiste “Il pacifismo delle sinistre marxiste… si riduce a una scelta tattica tra l’appoggio alle guerre in sintonia con le linee ideologiche e i fini della lotta di classe e l’ostilità nei confronti delle operazioni militari proposte e attuate dalle cosiddette istituzioni imperialiste“ (p. 231). Insomma per la sinistra il solito Occidente è responsabile di ogni nefandezza. Questa posizione viene da lontano, da Togliatti e Thorez in primis e oggi viene corroborata dalla grottesca subcultura woke. Del resto i partigiani della pace, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, aspettavano ancora in massa l’ora X della rivoluzione, con i fucili della Resistenza nascosti in cantina. Contro questa forma di pacifismo si era scagliato anche Marco Pannella, per il quale – non violento e non pacifista – questa dottrina era la peste del 900. Disse Pannella, con buone ragioni, che “se il nazismo e il comunismo sono stati messi al bando, ebbene il pacifismo merita di accompagnarli. Niente altro nella storia del 900 ha prodotto così tanti morti“. In quest’ottica il pacifismo ha tutti i crismi dell’ideologia forte che – seguendo la lucida lezione di Hannah Arendt – deve essere vista come uso indebito della facoltà razionale umana e perciò crogiolo potenziale di ogni dinamica totalitaria. Il meccanismo è semplice, lucido e accomuna tutte le ideologie che aspirano a cambiare l’uomo (fortunatamente eterno legno storto): la mente gioca con se stessa. L’atteggiamento ideologico, privo di un vero ideale, assolutizza la facoltà logica facendola esorbitare dai suoi limiti costitutivi, in modo tale da costruire una pseudo realtà, impermeabile all’esperienza della realtà autentica, al cui interno vige la pretesa di spiegazione totale che nega, di fatto, la vocazione della natura umana la libertà di iniziativa”. (p. 232)

Il pacifismo nasce e si irrobustisce dove ve ne sarebbe meno bisogno, dove c’è libertà, sovrabbondanza di democrazia, informazione, tolleranza. Invece nei paesi dittatoriali autocratici non esiste possibilità di discussione.

Impressionante la mole di letture e di autori importanti letti e citati da Biello. Per elencare soltanto i più famosi: Caillois, Caracciolo, Arendt, Aron, Céline, Walzer, Severino, Toqueville, e tutti i grandi classici della filosofia. Ovviamente Clausewitz e il suo Vom Kriege su tutti.

Lavoro complesso, articolato e, come Biello stesso scrive, non rivolto a chi cerca facili soluzioni.

Però mi permetto di dire che forse una possibile soluzione si può trovare nella citazione iniziale da Ezra Pound:

What thou lovest well remains, the rest is dross

What thou lov’st well shall not be reft from thee

What thou lov’st well is thy true heritage

(Quello che veramente ami rimani, il resto è scoria

Quello che veramente ami non ti sarà strappato

Quello che veramente ami è la tua vera eredità)

Concludendo, per Daniele Biello, come per me, valgono le parole di Spinoza “Sedulo curavi, humanas actiones non ridere, non lugere, nequizia detestari, sed intelligere (Ho fatto molta attenzione a non ridere, a non piangere, né a detestare le azioni umane, ma a comprenderle)

Daniele Biello (Genova, 1960), si occupa da 35 anni di gestione di politiche culturali. Autore di saggi di storia americana, militare e relazioni internazionali. Collabora con diversi giornali nazionali.

J.V.

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