GIAMBATTISTA VICO

GIAMBATTISTA VICO

Giambattista Vico nasce a Napoli il 23 giugno 1668. Filosofo tanto importante quanto sottovalutato per molto tempo. Dobbiamo riconoscere a Benedetto Croce il merito di averlo “scoperto” e reso celebre. Ostile al razionalismo cartesiano allora di moda, Vico esalta l’ antichità classica e scrive una vera e propria filosofia della storia. Un grande storico delle idee come Isaiah Berlin apprezza il suo capolavoro Scienza nuova del 1725. La sua Autobiografia, scritta tra il 1725 e il 28 è condotta sul modello delle Confessioni di Agostino. Sappiamo che era di famiglia modesta, figlio di un libraio. Viene ammesso al collegio Massimo dei Gesuiti di Napoli dove vive e studia in modo tormentato, a causa di un carattere malinconico e spigoloso, poi si laurea in giurisprudenza a Salerno. Dopo diviene precettore privato dei figli del marchese Domenico Rocca presso il castello di Vatolla, nel Cilento, potendo così usufruire della biblioteca padronale. Legge i filosofi, gli storici e i giuristi al punto che possiamo ritenere Platone, Tacito, Bacone e Grozio i suoi maestri. Ammalato di tisi, torna a Napoli nel 1695 in gravi difficoltà economiche. Quattro anni dopo ottiene la cattedra di eloquenza e retorica presso l’Università di Napoli. Si sposa con Teresa Caterina Destito che gli darà otto figli. Da queste brevi note di può comprendere la mancanza di tranquillità che gli impedisce di studiare come vorrebbe. Matura l’idea di un’umanità ferina e primitiva, dominata solamente dal senso e dalla fantasia nella quale si producono gli «ordini civili». Questa sarà l’idea-forza della sua riflessione giuridico-filosofica. Grazie alla fama acquisita con la pubblicazione della Scienza Nuova, nel 1735 il re Carlo III lo nomina storiografo regio. Nella sostanza Vico resta comunque tagliato fuori dalla grande cultura ufficiale e i suoi meriti vengono misconosciuti. La difficoltà della lettura del libro, scritto con prosa ardua e complessa, non lo aiuta. Inoltre deve affrontare difficoltà e disgrazie familiari. Alla sua opera magistrale lavora tutta la vita pubblicando una seconda edizione nel 1730 e una terza nel 1744. Gravemente ammalato muore il 23 gennaio dello stesso anno.

In Vico esiste la convinzione che “verum et factum reciprocantur, seu, ut scholarum vulgus loquitur, convertuntur” (il vero e il fatto sono reciproci, ossia, come afferma il volgo delle scuole, si scambiano di posto) e cioè il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto. Ad esempio possiamo dire di conoscere le proposizioni matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati e definizioni ma non possiamo dire di conoscere ugualmente la natura perché non siamo noi ad averla creata. Conoscere significa rintracciare i principi primi, le cause, poiché, secondo l’insegnamento aristotelico, la scienza è «scire per causas» ma questi elementi primi li possiede realmente solo chi li produce, “provare per cause una cosa equivale a farla”. Il principio del verum ipsum factum era già presente nell’occasionalismo e nel pensiero di Francesco Bacone dove era necessario l’esperimento come verifica della verità. Questo principio ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano, ritenuto insufficiente da Vico come metodo per la conoscenza della storia umana e delle scienze sociali, le quali non possono essere analizzate soltanto in astratto dal momento che presentano un alto margine di imprevedibilità. Il cogito cartesiano potrà darmi certezza della mia esistenza ma ciò non significa che io abbia conoscenza del mio essere. Conoscenza non coincide con coscienza. La mente umana procede per astrazione come accade per la matematica e crea una realtà che le appartiene, perché è il risultato del suo operare, giungendo così a una verità sicura. Ma la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l’oggetto come accade per la fisica o ancor di più per la morale.

“Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare.” È Dio il garante di ogni nostra conoscenza “Dio mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l’aspetto del vero e i mali sotto l’apparenza dei beni; vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l’infinito.” In Vico gioca un ruolo decisivo l’innatismo platonico. Per lui “nella nostra mente sono certe eterne verità che non possiamo sconoscere riniegare, e in conseguenza che non sono da noi… del rimanente sentiamo in noi una libertà di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la fantasia; le reminescenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni, i tatti co’ sensi: e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi. […] Ma per le verità eterne che non sono da noi e non hanno dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere Principio delle cose tutte come una idea eterna tutta scevera da corpo, che nella sua cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro sé…”

L’uomo è il creatore, attraverso la Storia, della civiltà umana. Nella storia l’uomo verifica il principio del verum ipsum factum, creando così una scienza nuova che avrà un valore di verità come la matematica. Una scienza che ha per oggetto la realtà prodotta dall’uomo e quindi più vera e concreta rispetto alle astrazioni matematiche. La ragione umana è un prodotto del divenire storico; non è come pensa Cartesio, una realtà assoluta. Da qui il connubio tra filosofia e filologia “La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità dell’umano arbitrio onde viene la coscienza del certo… Questa medesima degnità (assioma) dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare la loro autorità con la ragion dei filosofi.”

Compito della “scienza nuova” sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi costanti che fanno presupporre nell’azione storica l’esistenza di leggi che ne siano a fondamento, com’è per tutte le altre scienze. Si giunge così all’eterogenesi dei fini e alla Provvidenza che guida l’uomo nel suo divenire storico. Questo divenire viene contraddistinto dal linguaggio e si può riassumere in tre età: l’età degli dei, “nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli”; l’età degli eroi, “dove si costituiscono repubbliche aristocratiche”; l’età degli uomini, “nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana”. La storia umana inizia col diluvio universale, quando gli uomini, giganti simili a primitivi “bestioni”, vivevano vagando nelle foreste in uno stato di completa anarchia. La condizione bestiale era conseguenza del peccato originale attenuata però dall’intervento della Provvidenza divina che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle genti che “scosse e destate da un terribile spavento d’una da essi stessi finta e creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore dell’appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra”. Poi vi è l’uscita dallo stato primitivo grazie alla religione nata dalla paura e sulla base della quale vengono elaborate le prime leggi del vivere ordinato; poi vi è l’istituzione delle nozze che danno stabilità al vivere umano con la formazione della famiglia; infine l’uso della sepoltura dei morti, segno della fede nell’ immortalità dell’anima che distingue l’uomo dalle bestie.

Della prima età non si può dire molto perché mancano documenti dal momento che i bestioni non conoscevano la scrittura e si esprimevano con suoni disarticolati. Nell’età degli eroi nascono le città guidate dai signori che comandano sui servi e danno vita agli stati aristocratici. In quest’epoca predomina la fantasia e nasce il linguaggio mitico e poetico. Infine la conquista dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degli uomini e alla formazione di stati popolari basati sul “diritto umano dettato dalla ragione umana tutta spiegata”.

La legge delle tre età costituisce la “storia ideale eterna sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni” per cui gli uomini “prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.” In sostanza Vico è un precursore dello storicismo hegeliano. Come scrive Guido Fassò “Vico è ben più di un semplice filosofo […] tanto che in certi momenti della sua travagliatissima fama fu apprezzato prevalentemente per la sua filosofia del diritto, così come in altri momenti fu celebrato precursore della sociologia, della psicologia dei popoli, o come campione fra i maggiori della filosofia della storia, mentre veniva ignorata la sua pur genialissima metafisica, che è ad un tempo il punto d’arrivo e il presupposto logico di tutte le ricerche da lui condotte nei più vari campi dell’operare umano”. (G. Fassò, Storia della filosofia del diritto. II: L’età moderna, pp. 213-216, Editori Laterza, 2001).

Quella di Vico è una teologia razionale che supera Riforma e Controriforma, si oppone alla prima e supera la seconda. Da qui il suo isolamento malgrado il suo pensiero e la sua idea di religione abbiano fortemente influenzato Manzoni. A mio parere Vico è uno dei più importanti filosofi italiani, un genio solitario ed infelice.

J.V.

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