GIOVANNI VERGA

GIOVANNI VERGA

“Di tanto in tanto il tifo, il colera, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel bulicame che si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che non essere spazzato e scomparire.”

Scrittore schivo e riservato, nasce a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di proprietari terrieri. Influenzato dal materialismo della tradizione catanese di Domenico Castorina e Antonino Abate. La sua è una formazione romantico-risorgimentale. Compone romanzi storici ispirati a Dumas e Guerrazzi e ritiene che l’esercizio della scrittura non debba essere disgiunto dalla passione politica. Gli entusiasmi politici vengono presto smorzati dal clima di adesione alla monarchia sabauda. Rinuncia a laurearsi e utilizza i denari che dovevano servire per la tesi per la pubblicazione de I carbonari della montagna. Sì trasferisce a Firenze, allora capitale, nel 1869 per superare il provincialismo giovanile. Tre anni dopo va a Milano, dove risiederà, con alcune interruzioni, sino al 1893. Respira la cultura europea, legge Flaubert, Balzac, Daudet, Zola e i Goncourt. Inizia la sua polemica anti borghese e matura un profondo pessimismo mitigato soltanto dall’ideale della società arcaica-rurale. Detesta il mondo frivolo e sciocco della grande città. Il suo è il punto di vista del proprietario terriero che vede con ostilità il processo di industrializzazione e modernizzazione. Pietas e malinconia dovute alla consapevolezza della ineluttabilità del mondo industriale e finanziario. Aderisce al Verismo e dopo I Malavoglia cade anche l’ultimo spiraglio di speranza. La sua visione del mondo è decisamente pessimistica, atea e antispiritualista. Le azioni umane sono frutto della brama della “roba”. Un incupimento che porta all’approfondimento del verismo, alla demistificazione dell’ideologia ottimistico progressista della borghesia, tanto è vero che il pubblico preferisce i miti estetizzanti di Fogazzaro e D’Annunzio. La fama giunge a Verga non tanto per i suoi capolavori quanto per l’opera giovanile Storia di una capinera o per il trionfo teatrale della Cavalleria rusticana, dovuto in parte al fascino dell’interpretazione di Eleonora Duse. Tra il 1881 e il 1889 si reca a Parigi e Londra e stringe rapporti con Maupassant, Edmond de Goncourt e soprattutto Zola. Studia le fisionomie dei vari strati sociali, dai più umili ai più elevati, secondo un piano che non sarà completato (dei cinque romanzi del ciclo dei vinti – I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, La duchessa di Leyra, l’Onorevole Scipioni, L’ uomo di lusso – usciranno solo i primi due). Dopo il 1893 e il definitivo ritorno a Catania emergono gli elementi provinciali chiusi e talora gretti della sua personalità: le liti con Mascagni, l’attaccamento alla roba, la mancanza di generosità anche nella relazione d’amore con Dina di Sordevolo. Una chiusura cinica e scettica che lo porta verso l’aridità narrativa. Ormai Verga non riesce più a costruire un grande romanzo, l’impotenza narrativa lo accompagnerà sino alla morte. È un critico feroce del sistema parlamentare e dei partiti, un grande reazionario che ammira Crispi e la repressione operaia del generale Bava Beccaris. Per lui il mondo è caratterizzato da egoismo e alienazione, non crede che esistano alternative alla società che ha di fronte agli occhi e per questo si limita a descriverla con disperata rassegnazione, mostrando i risvolti amari del progresso tanto esaltato dall’ideologia dominante. Il motivo tragico è quello dell’esclusione “chi si stacca dal proprio ambiente è perduto“, il tono di fondo dei suoi romanzi è quello di una malinconia soffocante. La scelta tecnica dell’impersonalità della narrazione è motivata dalla rinuncia ad una difesa dei valori della società patriarcale. I temi fondamentali sono due.

Uno è l’estraneità, l’altro l’impossibilità di mutare stato. Il materialismo verghiano resta sempre prigioniero di un’ottica borghese per cui l’assetto sociale dell’epoca viene vissuto come qualcosa di immutabile e non come un prodotto storico. Il positivismo verghiano è quindi spogliato da ogni riforma sociale ma è vero però che i suoi temi anticipano i temi dell’estraneità e dell’impotenza dell’arte nel mondo della mercificazione e dell’alienazione capitalistica. Il mito dell’accumulazione capitalistica si ha pure in mastro Don Gesualdo e viene semplificato con la roba… Anche questo personaggio è un vinto ed inutile è stato il suo tentativo di scalata sociale. In quest’opera Verga individua bene le diverse posizioni che la borghesia assume nei diversi momenti dello sviluppo risorgimentale: alleata inizialmente il popolo per fiaccare e rompere la resistenza dei baroni feudali, alleata con i baroni per reprimere i contadini nel 1848.

Trattiamo adesso ai Malavoglia, cioè i vinti in una società arcaico-rurale. E negli anni tra il 1876 e il 1881 il mondo arcaico rurale è sentito da Verga in contrapposizione polemica col mondo cittadino e rappresenta un’alternativa capace di conservare valori elementari che la società capitalistica distrugge. In definitiva della sua visione della vita materialisticamente fondata su questo ideale restano soltanto il rimpianto e la nostalgia. I Malavoglia sono dei vinti perché sono onesti, pretendono di raggiungere il successo economico restando fedeli ad un ideale di onestà e di purezza di vita che li condanna alla sconfitta e perdono la casa del nespolo nel confronto con lo spregiudicato Don Silvestro. In un mondo di disonesti e di matricolati essi non possono che essere dei vinti e sentirsi degli isolati, estraniarsi dal consorzio sociale e il risultato sarà il loro ulteriore declassamento sociale. Questo è il tema fondamentale del romanzo: storia di una famiglia decaduta che cerca di riportarsi alla originaria condizioni di proprietari di una casa e di una barca entrambe perdute nel corso della vicenda narrata. La legge del più forte prende qui l’aspetto del gusto del dispetto dell’inganno e del pettegolezzo cattivo e gratuito. Il destino che li colpisce non è un aspetto metafisico ma il volto degli altri paesani i quali obbediscono alla legge naturale insita nell’ordine oggettivo e materiale delle cose e che esclude tutti coloro che sono caduti in disgrazia. E così i bambini che giocano per strada dicono ad Alessi “tu vattene perché ora vi pigliano la casa…” A volte può bastare un accenno di ripresa economica e sociale come il fidanzamento di Mena con Brasi Cipolla perché la situazione possa cambiare e l’isolamento venga meno: “oramai come padron ‘Ntoni maritava la nipote, e la Provvidenza s’era rimessa in gambe, tutti tornavano a far buon viso ai Malavoglia”. Ma appena la sorte muta di nuovo e Don Silvestro riesce a convincere Piedipapera e zio Crocifisso a togliere la casa del nespolo ai Malavoglia, il declassamento appare definitivo e assoluto, di conseguenza, l’esclusione sociale: “D’allora in poi i Malavoglia non osarono mostrarsi per le strade né in chiesa la domenica, e andavano sino ad Acicastello per la messa, e nessuno li salutava più, nemmeno padron Cipolla, il quale andava dicendo: “questa partaccia a me non lo doveva fare padron ‘Ntoni. Questo si chiama gabbare il prossimo, se ci aveva fatto mettere la mano di sua nuora nel debito di lupini!“. Come si vede la coscienza introiettata della propria inferiorità sociale diviene vergogna e senso di colpa. Non c’è soltanto pudore romantico dei propri sentimenti ma dramma sociale di una famiglia di padroni ormai decaduti. Oltre al declassamento sociale vi è anche quello morale in seguito alla condotta del giovane ‘Ntoni. I Malavoglia sono gli unici a nutrire sentimenti disinteressati ad Acitrezza e a loro va la trepida ma mai esplicitata adesione sentimentale dello scrittore Verga. Ma lo scrittore non aderisce esplicitamente al mondo dei Malavoglia ed anzi preferisce rappresentarlo attraverso il punto di vista del mondo di Trezza. L’intera narrazione è condotta attraverso l’ottica cinica ed egoista dei paesani. Verga si è fatto piccino e si è calato nella società arcaico rurale e per far questo dovuto guardarlo al microscopio ricostruendo le strutture economiche, culturali, sociologiche, riportandoli nell’ambito di un sistema spietatamente organico e coerente, il cui fondamento è il puro interesse materiale. In questo sistema emergono soltanto le figure che hanno più contatto col denaro, con gli affari, con gli intrighi, coloro che sono più avari avidi e furbi: l’usuraio, il sensale, il segretario comunale. Esiste una particolarità verghiana rispetto ai modelli classici e consiste in un singolare rovesciamento: lo straniamento si realizza nel rappresentare ciò che è normale come se fosse strano e Verga presenta ciò che è strano come se fosse normale. Inoltre raggiunge questo effetto non in un singolo episodio di un romanzo o nel giro breve di un racconto ma per tutta la durata de I Malavoglia attraverso l’adozione del punto di vista della collettività di Trezza. Mentre in Tolstoj o Cechov si esprime un punto di vista effettivamente estraniato, il punto di vista di Verga esprime il giudizio della normalità, della comune degli uomini, e quindi una dimensione totalitaria. Il fatto strano, per cui puntiglio personale e quattro fave valgono per Don Silvestro di più della casa del nespolo e del destino dell’intera famiglia, è per il mondo di Trezza un fatto normale, mentre estraniato sia socialmente ma anche moralmente è proprio il mondo dei Malavoglia. Tutto ciò che essi fanno diventa immediatamente altro per l’ottica paesana dominante. Il tutto filtrato attraverso l’indiretto libero o le dirette battute dei paesani e il loro mondo appare assurdo o addirittura immorale. Ad esempio se I Malavoglia non vogliono mandare all’ospedale il nonno benché ormai inabile al lavoro, e dunque contraddicono alla regola dell’utile, si comportano così per puntigliosa ambizione e per superbia… “volevano fare i superbi senza aver pane da mangiare“ a tutto danno dello stesso padron ‘Ntoni. Ma la divergenza tra il punto di vista del narratore (qui l’intera comunità paesana) e quello dell’autore produce quello scarto ironico su cui si fonda, col procedimento di straniamento, la possibilità sempre latente e pure mai esplicitamente espressa di un diverso giudizio. Così il punto di vista della collettività serve ad illuminare tutto il racconto di una luce obliqua, distorta, che però coglie oggettivamente uno stravolgimento profondo, reale, dei rapporti umani, sottoposti all’alienazione della legge dell’utile e della violenza. Assumere il punto di vista della società arcaico-rurale significa per Verga non adottare un punto di vista mitico e idealizzato ma il punto di vista economico di questa società: la cosiddetta coralità e l’impersonalità dei Malavoglia non sono solo un espediente tecnico ma un modo per rendere un’intera visione del mondo. La teorizzazione dell’ideale dell’ostrica, della vita come ripetizione, come rassegnazione paziente operosa ad una condizione che resta immobile di generazione in generazione, non potrebbe essere più definitiva. ‘Ntoni si ribella perché ritiene tale condizione propria del mondo animale naturale non di quell’umano. In lui appare il primo germe di coscienza sociale ma neanche ‘Ntoni sfugge alla regola dell’interesse privato. Dietro le sue teorie egualitarie Verga si preoccupa sempre di mostrare la sua poca voglia di lavorare con i sottoposti e quindi indirettamente il suo desiderio di essere anche lui un padrone, la sua bramosia di diventare come quei ricchi a parole tanto criticati, di mutar stato. Mentre il desiderio di promozione sociale e di successo economico che ha spinto padron ‘Ntoni al negozio di lupini è rivolto ad ottenere un miglioramento nell’ambito del sistema sociale economico di Trezza, ‘Ntoni è appunto questo sistema che non riconosce; egli vuole andarsene dal paese proprio perché da militare, ha avuto la possibilità di conoscere una diversa civiltà, il mondo della città e della ricchezza, dove pulsa il ritmo della vita moderna, quel mondo che Verga aveva ripudiato. Rosso Malpelo accetta, ‘Ntoni rifiuta. Sono entrambi esclusi ma il primo accettando scopre la legittimità materiale della propria vita di escluso, il secondo vive la nostalgia di un’integrazione fallita. In fin dei conti da gran reazionario qual è Verga resta un idealista nostalgico. Gli uomini non cambieranno mai, essi sono puro istinto ed egoisti per natura. Mastro Don Gesualdo in punto di morte intuisce tutto il dramma dell’impossibilità di promozione sociale e di vita felice, comprende che conoscere significa condannare. Pessimismo cupo e totale. L’antipatico quanto intelligente Asor Rosa nel suo “Scrittori e popolo” descrive Verga come uno dei pochissimi intellettuali italiani non populisti. Verga è lucidissimo e spietato: il mondo è un guazzabuglio neppure più illuminato dalla timida luce manzoniana. La barca dei Malavoglia si chiama… Provvidenza.

Dopo quanto scritto mi pare pleonastico aggiungere che mi sento, anche per esperienze personali, molto vicino a Verga. La maggioranza del genere umano è composta da mostri, predatori, egoisti irrecuperabili. Quando un mondo è al tramonto ed è infestato dallo squallore politicamente corretto, da una scuola fallimentare e da altre irreparabili storture, quando gli asini prendono a calci i leoni, i disonesti si atteggiano ad onesti e gli onesti vengono perseguitati, non resta altro che diventare lucidi reazionari e nostalgici di un mondo arcaico-rurale che anch’io ho conosciuto e che non tornerà più.

“quid est quod fuit ipsum quod futurum est quid est quod factum est ipsum quod fiendum est” (Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.)

(Ecclesiaste, 1, 9)

J.V.

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