Giudice e pm son la stessa cosa. Sembra Carroll e invece è realtà.
Giudice e pm son la stessa cosa. Sembra Carroll e invece è realtà.
Rileggete “Alice nel paese delle meraviglie” e “La caccia allo Snark”: tra accusatori che fanno pure da giurati, imputazioni assurde e difesa violata, avrete lo specchio dei nostri tempi
Giudicare è compito necessario, non potendo una società lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza; ma anche impossibile, non potendosi mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità, là dove è proprio su questa che si fonda la rettitudine della convivenza civile. È da tale contraddizione che nasce l’esigenza del «processo», quale metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta che si sia pronti ad accettare pro veritate. Varcata la soglia del tribunale, tuttavia, si entra in un mondo di apparenze che spesso coprono l’inganno o, anche, l’autoinganno: le leggi, i magistrati e i burocrati possono simulare e far prevalere la menzogna. Gli sfondi culturali sono ormai jeux de mode: il pubblico chiede del feuilleton, biascicamenti gergali, filosofemi da Luna Park, effusioni umide et similia; tutto beve, purché sia nero, stupido, sanguinolento.Sembrerà magari audace che ricordi, dunque, due situazioni esulanti dal repertorio consueto delle immagini distorte o delle satire dell’amministrazione della giustizia, dove il processo è guardato «dal basso», con gli occhi delle vittime impaurite, o «dall’alto», con quelli dello spettatore divertito o sdegnato. Vale a dire, i comportamenti di Alice e di Josef K., i quali esprimono la superiorità e il disprezzo di chi, indipendentemente dal ruolo provvisoriamente assunto, la prima come avvocato difensore e il secondo quale imputato, credendo si trattasse di processi veri, constatando, tuttavia, ben presto, la sgangherata sovversione di ogni regola processuale e logica, ha il potere di annientarli. Josef K. abbandona sdegnato la strana udienza nella quale si è fatto coinvolgere, una domenica mattina, in un quartiere proletario della città: «Pezzenti (Lumpen). Teneteveli i vostri verbali!». Gesto teatrale che sembra consapevolmente ricalcato su quello di Alice, quando questa tronca l’assurdo processo al Fante di Cuori gettando in aria le carte da gioco che popolano Wonderland ed esclamando: «Chi vi bada? … Non siete altro che un mazzo di carte!». Poco importa se quest’ultimo episodio costituisca o meno, in termini narrativi, il modello, se non certo dell’intero romanzo kafkiano, almeno di qualche suo episodio. Esso offre, infatti, il destro per proporre un istruttivo giro nell’universo letterario di Lewis Carroll, dove ci s’imbatte in alcuni processi che si prestano a essere considerati, oggi più che mai, quando la crisi senza fine dell’amministrazione della giustizia cade sotto gli occhi di tutti, in una prospettiva assai meno superficiale di semplici manifestazioni letterarie dello stupore, dell’ilarità e della diffidenza che il funzionamento delle istituzioni giudiziarie ha sempre e dovunque suscitato tra i profani, nella consapevolezza, estratta da Friedrich Nietzsche, che al mondo si può solo alludere indirettamente tramite simboli e metafore.Il primo lo troviamo in Alice in Wonderland, nel «racconto in forma di coda» che il Topo fa ad Alice, per giustificare la propria avversione per i cani, ma anche per i gatti. Un cane di nome Fury incontra per caso un topo e, «non avendo niente da fare», lo invita a partecipare con lui ad un processo, precisando che egli vi assumerà il ruolo di accusatore e il topo quello dell’accusato. Quest’ultimo obietta impaurito: che processo potrà mai essere senza giudice né giuria? «“Son giudice e giuria!” fu del can la follia: “son io tutta la legge e ti condanno a morte”», risponde il cane.
Il secondo, che si celebra presso la «corte» dei reali di Cuori, lo si trova nell’undicesimo e nel dodicesimo capitolo dello stesso libro. Imputato è il Fante, accusato di aver rubato dei dolci preparati dalla Regina, la quale è a un tempo parte lesa, coadiutrice del giudice e componente, con il Re stesso, dell’ufficio della pubblica accusa. La giuria è composta da dodici animaletti di varia specie, disorientati e ottusi. Araldo, usciere, cancelliere e in genere maestro di cerimonie è il Coniglio Bianco. Di avvocati difensori, nel testo non vi è traccia. Dopo la solenne lettura del capo d’imputazione, il re invita subito la giuria a pronunciare il verdetto, ma il Coniglio Bianco gli fa presente la necessità di assumere prima di tutto le prove. Vengono allora sentiti, in veste di testimoni, il Cappellaio Matto, la cuoca della Duchessa e, finalmente, Alice. Esaurita, senza alcun esito apprezzabile, l’escussione dei testimoni, il Re torna a sollecitare il verdetto della giuria; ma è ancora una volta il Coniglio Bianco a impedirlo, segnalando al Re un documento decisivo, che si suppone provenga dall’imputato, quantunque non rechi traccia della sua calligrafia. Il documento, letto con la consueta solennità dal Coniglio Bianco, risulta contenere una poesia nonsense, come tale incomprensibile; ma ciò non impedisce al Re di esultare, fregandosi le mani. È a questo punto che si accende una vivace disputa ermeneutica fra il Re e la Regina da una parte e dall’altra Alice, erettasi a tutrice del senso comune e indirettamente a difensore del Fante, la quale ribadisce la futilità della prova raccolta, mentre gli altri insistono nel ravvisare nel documento un’inconfutabile dimostrazione di colpevolezza dell’imputato. Il Re tronca la discussione, invitando per la terza volta la giuria a pronunciare il verdetto. Questo ennesimo sovvertimento delle regole processuali eccede la sopportazione di Alice, che, contestando drammaticamente la serietà e la realtà stessa della corte, pone fine repentinamente sia al processo sia al sogno in cui esso s’inserisce. Anche il terzo processo carrolliano si colloca in una dimensione onirica, nel sesto «sussulto» di The Hunting of the Snark: un Barrister, facente parte di un equipaggio salpato per dare la caccia allo Snark, mostro la cui identità e il cui aspetto non saranno mai rivelati, a un certo punto si addormenta e sogna di trovarsi «in una corte ombrosa», dove proprio lo Snark (in toga e parrucca) è apparentemente impegnato nella difesa di un maiale. Nessuno enuncia chiaramente il capo d’imputazione: si arguisce l’accusa mossa all’imputato solo dopo che il mostro «inimmaginabile» e perciò non ritraibile parla già da tre ore. Eloquente e puntiglioso, lo Snark indica la legge su cui si fonda l’accusa; allega la marginale partecipazione del suo assistito al delitto; ne sostiene la perfetta solvibilità; si richiama alla prova di un alibi, tanto più ridicola in quanto al maiale parrebbe contestarsi il reato di allontanamento dalla stiva; si rimette alla clemenza della giuria indicando al giudice come riferirsi alle sue annotazioni «per sintetizzare il caso». Poiché, tuttavia, il giudice ammette candidamente di non aver mai sintetizzato prima le risultanze di una causa, a ciò provvede ancora lo Snark, che opera una sintesi così perfetta da ricomprendere anche quanto mai detto dai testimoni. Quando tocca ai giurati pronunciare il verdetto, anch’essi declinano il compito, essendosi imbrogliati, a loro dire, nel sillabare le parole; tuttavia, osano sperare che sia sempre lo Snark ad assolvere quel dovere. Sebbene esausto per la fatica, il mostro provvede all’incombente e quando pronuncia «Colpevole!», dalla giuria si leva un lungo gemito e qualcuno cade addirittura svenuto. Essendo il giudice troppo emozionato per pronunciare la sentenza, è necessario provveda anche a questo lo Snark e se quando commina la pena i giurati non nascondono la loro gioia il giudice resta invece dubbioso. Ma ecco che compare il carceriere, per comunicare, in lacrime, che il maiale è ormai morto da alcuni anni, sicché la sentenza non potrà essere eseguita. Alla notizia, il giudice s’allontana disgustato, mentre lo Snark, riassunto l’originario ruolo di difensore, riprende imperterrito la sua arringa, sui cui echi roboanti il Barrister si sveglia.Nei tre processi carrolliani, le caratteristiche del due process of law, del «giusto processo», sono ignorate, calpestate e derise quanto lo sono la logica, il senso comune, le regole del linguaggio, sicché, all’esito della lettura, si è più angosciati che divertiti: il Topo è tratto a giudizio senza nessun’altra giustificazione che la noia e il capriccio del suo accusatore, che in più si arroga la funzione di giudice e di giuria e gli preannuncia una condanna a morte; il Fante di Cuori, accusato di furto, si ritrova a dover fronteggiare, senza avvocato difensore, un giudice prevenuto e subordinato alla parte lesa, una giuria di animali stupidi e ignoranti e una serie di elementi probatori tanto più temibili e schiaccianti quanto meno sono razionali; il maiale patrocinato dallo Snark, se la morte non lo avesse già sottratto a ogni problema, subirebbe una condanna durissima, per un reato incerto e risibile, ad opera del suo stesso avvocato inopinatamente investito di funzioni giudicanti. Nihil sub sole novi.
Otello Lupacchini (Magistrato), Il Riformista, sabato 8 gennaio 2022