Il Mito di Edipo

Nel Novecento, grazie ad antropologi e psicanalisti, il mito viene rivalutato come mezzo di conoscenza del mondo, facendo giustizia delle esagerate e malevole critiche settecentesche. Del resto gli illuministi, che tanti meriti hanno avuto, a causa della loro impostazione culturale, non potevano comprendere la profondità del mito proprio a causa del loro pre-giudizio.
Per i greci Mhytos è un racconto fatto di parole e a trasmetterlo non sono i sacerdoti o i sapienti, ma i padroni della parola, i poeti. Per Mircea Eliade, che utilizza i concetti della psicoanalisi junghiana, i miti hanno la finalità di resuscitare qualcosa del potere creativo primigenio.

Ritengo il mito fondamentale per intuire la realtà e quindi inizio con uno dei più famosi:
Edipo.

Il re di Tebe Laio viene avvertito dall’oracolo che suo figlio lo avrebbe ucciso provocando la rovina dei suoi discendenti. Quando la moglie Giocasta partorì, il re trafisse i piedi del neonato e lo abbandonò sul monte Citerone. Un pastore lo raccolse e lo portò a Polibo, il re di Corinto, che non aveva figli. Assieme alla moglie Merope allevò il bambino e lo chiamò Edipo (piedi gonfi). Passarono gli anni e un giorno, a causa delle chiacchiere di un ubriaco che dileggiava Edipo, sostenendo che non fosse figlio dei sovrani di Corinto, il giovane chiese risposte all’oracolo di Delfi. La sentenza dell’oracolo fu terribile: “ucciderai tuo padre e sposerai tua madre”. Credendo di essere figlio di Polibo e Merope, Edipo decise di non tornare a Corinto. Nei pressi di Tebe incontra Laio e per futili motivi lo uccide assieme agli uomini che lo scortavano, tranne uno che, tornato a Tebe disse che il re era stato ucciso. Intanto sempre nelle vicinanze di Tebe Edipo si imbattè nella Sfinge, una mostruosa creatura alata, con la testa di donna è il corpo di leone. La Sfinge divorava tutti coloro che non riuscivano a rispondere alla sua domanda: “Qual è la creatura che, al mattino, cammina con quattro zampe, al pomeriggio con due e alla sera con tre, ed è tanto più vulnerabile quanto più numerose sono le zampe?. Edipo rispose”l’uomo” e poi uccise la Sfinge. Giunto a Tebe sposò la vedova di Laio e generò Polinice, Eteocle e le figlie Antigone e Ismene. Su Tebe si abbattè una terribile pestilenza e Creonte, fratello di Giocasta, andò ad interrogare l’oracolo di Delfi. La risposta fu che l’assassino di Laio era ancora in libertà.
Edipo stesso interrogò l’indovino Tiresia e scoperta finalmente l’orribile verità, si cavò gli occhi e si ritirò in esilio e vagò per la Grecia, fino a giungere in Attica; con le figlie arrivò a Colono nelle cui vicinanze si estendeva un bosco dedicato alle Erinni (le tre terribili dee alate che punivano con il rimorso chi turbava l’ordine morale, ma che si trasformavano nelle tre benevole Eumenidi se il colpevole si pentiva, come nel caso di Edipo), nel quale si addentrò per attendere la morte. Mentre vagava nelle vicinanze l’eroe trovò Teseo, re di Atene che lo confortò e lo accolse ospitalmente nella sua reggia. Poiché aveva saputo che la fine gli sarebbe stata annunciata da tuoni e da fulmini, al primo tuono fece chiamare Teseo, che lo raggiunse nel pieno del temporale scatenato da Zeus. Sotto la pioggia, Edipo giunse nei pressi di un abisso; qui alcuni gradini di bronzo conducevano agli Inferi. Edipo si sedette, si tolse gli abiti sporchi, si fece lavare e vestire dalle figlie e con loro intonò il lamento funebre. Appena terminato il canto, si sentì la voce di un dio che chiamava Edipo; subito dopo risuonò un altro tuono, così forte che Teseo si coprì la faccia col mantello. Quando tolse le mani dagli occhi, Edipo non c’era più, scomparso per sempre.
Esistono varie interpretazioni, da Freud a Jung, per citare soltanto i mostri sacri. Riporto un articolo del Dottor Quirino Zangrilli per confermare il mio assunto iniziale: l’importanza del mito nella cultura occidentale (e non solo). Ho sempre trovato debole la lettura hegeliana impostata sulla sottovalutazione del mito mentre trovo convincente la lettura di Heidegger per il quale è proprio il mito la chiave ermeneutica per intuire l’Essere.
“Il mito di Edipo, pur in versioni e forme diverse, è un mito comune ai popoli del mondo e per tale universalità ha acquisito un’importanza capitale presso gli studiosi che si occupano di scienze umane. Cerchiamo di seguirne lo svolgimento.
Il re Laio, esule alla corte di re Pelope a Pisa, si innamorò del figlio del re, Crisippo, e lo rapì: per questo gesto tutta la sua stirpe fu maledetta

La prima osservazione che è possibile fare è che Edipo sconta un avvenimento che non compete la sua storia, ma quella della sua famiglia: Il mito, infatti, comincia prima della sua esistenza ontogenetica. Egli appartiene ad una stirpe maledetta; ma cos’è una “maledizione”? Oggigiorno potrebbe debitamente essere intesa come una informazione (traccia energetica) patogena ereditaria: si pensi solo che per secoli dovevano essere sembrate maledizioni sindromi organiche ereditarie come l’emofilia o la talassemia maior o affezioni metaboliche che determinassero mostruosità tipicamente evidenti. Come pure maledizioni dovevano sembrare affezioni, che oggi definiremmo di interesse psichiatrico, caratterizzate da condotte ripetitive distruttive e/o autodistruttive. Dunque l’esistenza di quest’uomo chiamato Edipo è influenzata dalla presenza di un condizionamento ancestrale.
Tornato a Tebe Laio sposò la figlia di Meneceo, Giocasta, ma poco dopo le nozze un oracolo lo avvertì che un figlio nato da Giocasta lo avrebbe ucciso

L’azione dell’oracolo è propriamente quella di una voce misteriosa, (etimologicamente il vocabolo oracolo deriva dal latino orare) di origine divina che fornisce responsi su accadimenti sconosciuti: al giorno d’oggi verrebbe più prosaicamente definito un insight, cioè la capacità o l’atto di apprendere, spesso sotto forma di un improvviso flash di riconoscimento, la natura di una situazione inconscia.
Quando Giocasta mise alla luce un figlio, Laio praticò due fori nei piedi dell’infante (forse per esporlo, appendendolo alle intemperie, o per farlo morire dissanguato o per evitare che dopo la sua morte il suo spirito potesse camminare) e lo consegnò ad un pastore tebano con l’incarico di abbandonarlo sul monte Citerone. Edipo significa “piede gonfio”. Al riguardo sono molte le osservazioni da fare. Innanzitutto il rilievo che il padre compie l’azione violenta di ledere una parte del corpo del figlio. Non è difficile ravvisare in questa azione la rappresentazione mascherata dell’atto della castrazione. E non bisognerebbe pensare di trovarsi semplicemente di fronte ad un vissuto psichico totalmente svincolato da reali accadimenti. Nel 1874 Darwin ipotizzò l’esistenza, in tempi antichissimi, di un tipo di organizzazione sociale, denominata “Orda primordiale”, in cui gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi sui quali dominava un uomo forte, violento e geloso che si appropriava di tutte le donne, con le quali giaceva, tenendole lontane dai propri figli e dagli altri giovani maschi, che sovente, quando minacciavano la sua dominanza, evirava. Lo stesso Freud ipotizzò che il ripetersi lungo il cammino evolutivo dell’essere umano di tali avvenimenti traumatici lasciasse nell’individuo una traccia mnesica in cui l’originario avvenimento, realmente consumato, fosse sostituito da rappresentazioni e fantasie inconsce (Psicologia delle masse e analisi dell’io 1921 – L’uomo Mosè e la religione monoteistica, 1934-38). Il particolare del piede (per altro presente in molti miti ed opere letterarie, si pensi solo al celeberrimo “tallone di Achille”) tornerà ancora nel mito di Edipo. Non solo; il nome Edipo (“piede gonfio”) esprime anche una certa caratteristica genealogico-familiare: Edipo è figlio di Laio, “il mancino”, figlio minore di Labdaco, “lo zoppo” , discendente di Efisto ,”lo zoppo” (Veronique Caillat: “Mito ed inconscio”, Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi, n° 17, 1994). Dunque il padre Laio ferisce e allontana da se, cioè tenta di eliminare, il proprio figlio.
Il pastore di Tebe incaricato dal re Laio di sbarazzarsi di Edipo disubbidì e lo affidò ad un pastore di Corinto. Questi lo portò al re Polibo che, essendo senza prole, lo adottò imponendogli il nome di Edipo

La salvezza di Edipo è dunque dovuta all’incontro casuale con un uomo senza prole, Polibo, re di Corinto. Viene in questo passo rappresentata l’unica soluzione al dramma edipico: allontanarsi dai consanguinei per indirizzare le proprie spinte pulsionali verso l’esterno del sistema familiare.
Un giorno, durante un banchetto, un giovane dileggiò Edipo perché non assomigliava ai genitori, insinuando che fosse un bastardo, e per questo Edipo si recò presso l’Oracolo di Delfi per interrogarlo circa le sue vere origini

Viene qui raffigurata una situazione abbastanza comune nell’infanzia di ciascuno di noi. Non sarà difficile ricordare come le offese più brucianti che usano scambiarsi i bambini sono quelle relative ai sospetti sulla autenticità della paternità. Di pari grado si fa strada quel vissuto, altrettanto diffuso da potersi definire universale, di essere un trovatello casualmente ospite della famiglia. Questo complesso di fantasie, definito Romanzo familiare dallo stesso Freud, esprime la revisione che il bambino fa dell’identità della parentela. In una delle più diffuse versioni della fantasia il bambino crede di essere stato in realtà generato da un’altra coppia, in genere persone di rango nobile o socialmente elevato, da cui il bambino è stato separato nella prima infanzia ed alla quale un giorno potrà riunirsi. Il romanzo familiare assolve varie funzioni nell’economia psichica del confronto con il mistero delle origini. Per ora ci limiteremo a dire che tale complesso di fantasie permette di mitigare l’intenso senso di colpa nutrito dal desiderio di possesso sessuale dei genitori escludendone la natura incestuosa (“Se sono un trovatello, loro, che io desidero, non sono i miei genitori”).
Edipo fu informato dall’Oracolo di essere destinato ad uccidere il proprio padre e a sposare la madre ed i Sacerdoti dell’Oracolo lo allontanarono frementi di disgusto

In questo passo viene letterariamente rappresentata la percezione inconscia delle spinte aggressivo-sessuali dirette verso i propri genitori: nella versione più conosciuta dell’Edipo (Edipo positivo) il bambino di sesso maschile desidera inconsciamente congiungersi carnalmente con la madre. Parimenti la realizzazione di tale desiderio incestuoso lo spinge ad indirizzare le sue spinte aggressivo-distruttive verso il rivale: il padre. Il disgusto espresso dai Sacerdoti è la rappresentazione della ripulsa che tali desideri inconsci incontrano nell’affiorare alla coscienza e dell’attività di giudizio morale svolta da quel compartimento ultra specializzato dell’Io denominato Super-io.
Convinto di essere il figlio di Polibo e della regina Merope, Edipo, nel tentativo di sfuggire al suo destino, decise di allontanarsi da Corinto e di non farvi mai più ritorno e si diresse verso la Beozia. Durante il suo viaggio, però, in corrispondenza di un incrocio, incontrò uno straniero (Il Re Laio, suo padre) che viaggiava su un cocchio. L’auriga di Laio ordinò ad Edipo di cedere il passo, ma egli rifiutò. L’auriga allora gli ferì un piede con una ruota e lo percosse con un bastone. Edipo allora, colmo di furore, lo uccise insieme agli altri, ivi compreso il suo vero padre, con l’esclusione di un servo che riuscì a scappare.

L’apparato psichico non resta inerme di fronte ai conflitti che si originano tra spinte pulsionali, interdetti morali e esigenze reali, ma pone in essere dei tentativi di mediazione o di difesa che tendono ad organizzarsi secondo modalità di ripetizione strutturatesi con il ripetersi degli accadimenti traumatici di generazione in generazione. Edipo cerca di disinnescare il dramma conflittuale attuando un efficace quanto elementare meccanismo di difesa: l’allontanamento dall’oggetto. Ma, così come nel mito tale tentativo di sfuggire al proprio destino si infrange nell’incontro casuale ad un incrocio con il Rivale, così nella vita reale il bambino, per quanti sforzi faccia per allontanare la tentazione edipica, non può concretamente realizzare la fuga e, come Edipo, ritroverà ad ogni angolo della sua esistenza i genitori. Si tenga presente inoltre che anche se fosse possibile realizzare un allontanamento fisico dall’oggetto incestuoso, non è certamente possibile sfuggire al proprio mondo interno e ai propri desideri inconsci. Nel mito l’incontro fatale avviene ad un incrocio; alcuni autori riferiscono che si trattasse di un trivio, simbolo del triangolo sentimentale genitori-figlio, altri di un quadrivio; resta comunque, anche a livello poetico-letterario, la forte rappresentazione di un incontro fortuito di esistenze, un incontro di destini. Comunque sia un incrocio a più strade è una rappresentazione onirica così tipica che lo psicoanalista sa che ogni qualvolta esso si presenti in un sogno può essere certo che l’analizzato si trovi in una fase di riattivazione edipica. Il bambino, così come lo sfortunato Edipo, incontra dunque l’autorità paterna che sbarra la strada al soddisfacimento pulsionale: è la contesa, lo scontro, il dispiegarsi dell’aggressività. Edipo viene di nuovo ferito al piede. In questo modo il Poeta esprime la percezione oscura della beffarda ripetizione del destino che solo dopo migliaia di anni trovò in Sigmund Freud una formulazione scientifica in quella che lo scienziato viennese definì come coazione a ripetere, e cioè la necessità inconscia di rimettersi in una situazione traumatica o dolorosa, anche se assurda e umiliante. In altri termini la coazione (costrizione inconscia) a ripetere situazioni traumatiche senza rendersi conto della propria partecipazione alla ricostruzione della situazione originaria né la relazione tra la situazione presente e la passata esperienza. Senza addentrarci nelle importantissime implicanze che Freud attribuì all’osservazione che la ripetizione di esperienze dolorose è in netto contrasto con il principio di piacere, ci limiteremo ad osservare che lo scopo inconscio di ricostruire esperienze traumatiche passate consiste nell’illusione di poter modificare retroattivamente il corso degli eventi: ci si condanna a recitare ciclicamente lo stesso copione nell’illusione di poter cambiare quella battuta che ci fece così soffrire! Edipo, così come il bambino nel suo immaginario, non si sottomette all’autorità paterna ma si ribella, lotta e uccide il padre e i suoi sostituti: lo stesso eccidio (realizzato per mezzo di rappresentazioni ed affetti ed eventualmente organizzato in schemi immaginari acquisiti [fantasie o fantasmi]) si ripete inesorabilmente nella mente del bambino ogni qualvolta il suo desiderio di possesso della madre si scontri con il rivale. Nel profondo dell’inconscio siamo tutti parricidi.
Ma torniamo al mito: Edipo conserva ancora il suo difensivo stato di incoscienza circa i drammatici avvenimenti che lo riguardano, eliminando dalla sua mente qualsiasi possibilità di collegamento tra le sue azioni e la sorte dei genitori.
Giunge quindi in contatto con la Sfinge (“Strangolatrice”), mostro alato dalla testa di donna ed il corpo di leone che pone agli incauti umani che osano avvicinarsi al suo cospetto un indovinello che implica in fondo una risposta alquanto semplice, ma a cui nessuno fino a quel momento aveva saputo dare risposta.

Quando giunge a Tebe Edipo trova la popolazione della città in preda alla disperazione: il re della città era stato ucciso sulla strada che conduce a Delfi ove si stava recando per consultare l’oracolo in merito alla Sfinge, un pericoloso mostro che divorava chiunque gli passasse accanto e non sapesse rispondere al suo indovinello:”Quale essere cammina al mattino su quattro zampe, su due a mezzogiorno e su tre alla sera ed è tanto più debole quante più zampe ha?”

Nessuno prima di Edipo era stato in grado di risolvere l’arcano: perché tale resistenza ? Evidentemente la percezione della fragilità dell’essere umano, della caducità della vita e la rappresentazione angosciosa di quella parabola discendente che è l’esistenza umana produce in ogni essere umano una reazione di diniego che acceca la mente ed impedisce la presa di coscienza della cruda realtà: la vita è un’esperienza senza fini che si compie con trasformazioni dolorose e si conclude inevitabilmente con la morte.
Poiché Laio era morto e la sfinge affliggeva la già provata popolazione, il reggente Creonte offrì il trono, assieme alla mano della sorella Giocasta, vedova del re Laio, a chiunque avesse risposto all’enigma e liberato la città dalla sfinge. Edipo rispose all’indovinello: “E’ l’uomo che cammina a quattro zampe da bambino e poi si appoggia ad un bastone alla vecchiaia”.Tebe fu liberata dalla Sfinge e dalla pestilenza ma il vaticinio dell’oracolo si era realizzato: Edipo aveva ucciso il proprio padre e si apprestava a giacere con la madre

Uno degli aspetti meno messi in luce dai vari studiosi che si sono occupati della storia di Edipo è il ruolo di Giocasta. Se potessimo raffigurare visivamente il percorso (anche fisico) di Edipo nel corso della parentesi temporale descritta dal mito (ed oggi sarebbe possibile farlo senza difficoltà con un semplice computer multimediale) troveremo un punto di attrazione in cui le varie traiettorie tendono a confluire, Tebe e al suo centro Giocasta. La Regina è un punto passivo di attrazione, in fondo lei non agisce, attende che gli eventi si compiano, che il dinamismo dell’azione torni alla sua origine, la vagina-utero-antro che generò Edipo e alla quale il giovane agogna nel suo inconsapevole errare: la porta verso l’Origine e la Fine, l’ingresso al senza nome, al senza forma, al Vuoto, motore propulsivo di tutto ciò che esiste. Ascoltiamo, al riguardo, il commento di una giovane donna in trattamento psicoanalitico intensivo che si confronta con il Mito: “Edipo nonostante la sua forza alla fine farà, senza saperlo, quello che non voleva fare: Qualcosa, una enorme forza lo spingeva verso la madre che lo aspettava, passiva all’inizio e passiva alla fine”.
Dopo le complesse vicende che portano Edipo al riconoscimento della tremenda verità Giocasta si impiccò ed Edipo si accecò

Se in questo passo l’espiazione mediante il suicidio o l’automutilazione è espresso direttamente, spesso, nella vita reale, i desideri incestuosi, determinano delle condotte di espiazione autopunitiva più mascherate: l’elaborazione, a seconda del terreno dell’analizzato, può prendere una strada psichica (disturbi di impotenza sessuale, idee ossessive, manifestazioni isteriche, etc.) o una strada somatica con la costruzione di malattie di vario aspetto e gravità. Ecco la presa d’atto del fenomeno da parte di una giovane donna in trattamento psicoanalitico intensivo da anni ammalata gravemente a carico di vari distretti dell’apparato osteo-articolare: “Questa malattia mi impedisce di diventare grande, di essere contenta di essere donna. In tutto questo c’entra la Nemica: mia madre. Lei mi ha schiacciato e poi ha continuato a farlo per impedirmi di diventare grande. E’ un dolore che serve a che io non vada a letto con nessuno, che impedisce che io abbia dei bambini, e soffro ogni qualvolta io mi ricordo di essere una donna”.
Le vicende della Storia di Edipo su cui Freud concentrò la sua attenzione non esauriscono però il mito. Il Maestro viennese presentò la prima, sistematica, enunciazione del mito ne “L’interpretazione dei sogni” del 1899 (5/ Il materiale e le fonti del sogno – D/ Sogni tipici) ed essa si rifà alla versione comunemente conosciuta. Versione che si fonda sulla capitale omissione di un prologo di primaria importanza. Vediamolo:
Tebe fu fondata da Cadmo, figlio di Agenore, re di Fenicia in relazione alle seguenti vicende. Cadmo era il fratello di Europa, una bellissima fanciulla di cui Zeus si innamorò. Il “Padre degli dei e degli uomini ” (Da Omero) la vide giocare in riva al mare con le sue ancelle, assunse la forma di un toro bianco e si sdraiò lasciandosi carezzare. Europa, per nulla intimorita, montò a cavallo del toro che entrò immediatamente in acqua prendendo velocemente il largo: Giove aveva rapito Europa e, dopo essersi rivelato, giacque con lei sotto un platano. Il padre di Europa, Agenore, mandò alla sua ricerca i figli Cadmo, Fenice e Cilice. Cadmo, dopo estenuanti ricerche, consultò l’oracolo di Delfi per chiedere consiglio e l’oracolo gli intimò di dimenticare Europa, di abbandonare ogni ricerca e di trovare una giovenca segnata nel manto da una mezza luna. Vaticinò che avrebbe fondato una città nel primo luogo ove la giovenca si fosse fermata a riposare. Il presagio si avverò e la Beozia fu la regione ove Cadmo si apprestava a tracciare con l’aratro la cinta della novella città. Cadmo, con l’intento di sacrificare la giovenca ad Atena, inviò alcuni dei suoi uomini ad attingere acqua ad una fonte vicina. Ma un drago, custode della fonte, figlio di Ares, uccise gli uomini e cominciò a divorarli. Quando Cadmo seppe della sorte dei suoi uomini, aggredì il drago e lo uccise. Atena si manifestò e gli disse “Strappa i denti del drago e seminali nel solco che il tuo aratro traccerà in questa terra intatta. Cadmo obbedì e, con sommo stupore, vide brulicare dai solchi di terra un popolo di guerrieri che iniziarono a combattere e a massacrarsi uno con l’altro finché ne sopravvissero soltanto cinque. Cadmo li placò e li prese come compagni nella fondazione di Tebe.

Infine Cadmo e tutti i suoi discendenti, tra cui Laio, padre di Edipo, subirono una catena di eventi luttuosi a ragione della tremenda gelosia di Giunone, moglie di Zeus, in relazione al ratto di Europa.

J.V.

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