IL TERRORE BIANCO
IL TERRORE BIANCO
I “Dialoghi delle carmelitane” alla Prima dell’Opera di Roma. La regista Emma Dante racconta i tormenti delle coraggiose di fronte al patibolo
Quella potente riflessione sugli orrori della storia e le vanità dell’anima che sono i “Dialoghi delle Carmelitane” di Francis Poulenc aprono domani sera la stagione del Teatro all’Opera con la regia di Emma Dante che aveva “già immaginato lo spettacolo con Carlo Fuortes” come tiene a sottolineare in una conversazione al telefono, e la direzione di Michele Mariotti, al suo primo podio da direttore musicale della fondazione insieme con Ciro Visco, nuovo maestro del coro. Molta attesa fra i melomani, mentre i romani mugugnano per la scelta e sbagliano, perché nessun momento poteva essere migliore, in Europa, per riportare in scena un’opera complessa come questa, che venne composta appena dopo la Seconda guerra mondiale su fatti accaduti durante gli ultimi giorni del Terrore, riletti da una doppia mano di impronta cattolico-spirituale, quella di Gertrud von Le Fort e di Georges Bernanos e che ora sono stati affidati a una regista che dei moti intimi e della determinazione femminile ha fatto la propria cifra. La “Figlia del Reggimento” è certamente più divertente, l’“Ernani” offre una storia d’amore straziato e questa no, non amore mondano almeno ancorché la regista dice che farà morire le monache agghindate con la veletta delle spose che, dopotutto, è una scelta abbastanza comune per le converse da tempi antichi; l’Aida “fa più Prima”, senza dubbio, ma il palcoscenico del Costanzi non è quello del San Carlo di Napoli e nemmeno quello della Scala di Milano, per cui tocca rivedere le ambizioni (solo Riccardo Muti poteva insistere per portarvi il “Moise et Pharaon” di Rossini col coro che cantava sempre in altezza e si finiva per temere che precipitasse in platea).
Dai “Dialoghi” non si esce mai come si era entrati, le donne specialmente. La trama, semplicissima, è incentrata sul dramma delle sedici Carmelitane di Compiègne giustiziate il 17 luglio del 1794 a Parigi, dieci giorni prima della caduta di Robespierre: fatto vero, sul quale nel 1931 von Le Fort inserì nel suo romanzo “L’ultima al patibolo” il personaggio-alter ego di Blanche de la Force e Bernanos riversò la propria riflessione sul tema del sacrificio e della violenza cieca e assurda dei conflitti, a pochi anni dalla condanna della guerra di Spagna che aveva fatto nei “Grandi cimiteri sotto la luna”. Il testo di Bernanos debuttò in piena Guerra fredda a Zurigo e a Parigi nel 1952; arrivò al Piccolo Teatro di Roma nel 1953, nel corso di una campagna elettorale particolarmente aspra, e venne stroncato dal critico dell’Unità Giulio Trevisani come “un’operetta del tutto secondaria” che “la tv”, intendendo ovviamente la tv diccì che in realtà era ancora alle prove di diffusione, non “avrebbe mancato di riprendere”, e come in effetti avvenne nel 1957 per l’interpretazione di Emma Gramatica e Lea Padovani (volendo, il filmato si trova parzialmente ancora su YouTube, ed è come ovvio una meraviglia). Al di là delle critiche, il Terrore è tuttora oggetto di dibattito e non manca mai chi, “in prospettiva storica” perché il Donbas è un’altra cosa, le guerre civili sono diverse a seconda del credo politico, ritiene leciti gli eccidi e i cadaveri che il primo cittadino Robespierre voleva fossero lasciati a imputridire nelle strade, “pena la morte”. E’ però un fatto che tutti gli autori di questa composizione vi si accostarono nei momenti più difficili o fragili della propria vita: Bernanos era vicino alla morte, Poulenc la compose dal 1953 vegliando l’incurabile decorso della malattia che aveva colpito il compagno Lucien Roubert (prima di decidersi ad accettare l’incarico offerto dal sovrintendente della Scala, Antonio Ghiringhelli, aperse a caso il testo fuori da un bar a piazza Navona dicendosi che solo se dalle parole su cui avesse posato gli occhi, con il classico rito delle sortes apostolorum, fosse scaturita spontanea la curva melodica, avrebbe proseguito. Il volumetto si squadernò sulla tirata della Priora, mica facile, ma la melodia arrivò), mentre von Le Fort vi proiettava le ansie di una conversione tardiva e la coscienza di una Germania che andava avviandosi al nazismo.
I Dialoghi delle monache di Compiègne, la comunità femminile che ruota attorno al convento, che lì è giunta per i motivi più diversi e la cui aspirazione alla santità viene messa alla prova in ogni istante, sono insomma solo il riflesso delle inquietudini di chi ha messo mano alla loro storia, non esclusa Emma Dante, atea dichiarata, che della storia ha indagato quasi esclusivamente l’aspetto umanissimo delle suore “prima di prendere i voti. Che donna si cela dietro il velo? Chi erano prima di indossare la tonaca (che definisce, un po’ volutamente, “tunica”, ndr)?”. Alla costumista Vanessa Sannino, la regista ha chiesto tuniche-tonache battagliere, militanti, “di un tessuto lucido”, con corsetti-corazza, come nei ritratti di Giovanna d’Arco che dopotutto fu la prima a sfidare un tribunale, nel suo caso addirittura religioso. In questo convento che “è luogo di fortificazione spirituale”, Emma Dante si è domandata che cosa cerchi ciascuna delle sedici consorelle, “donne che hanno scelto di votare la propria vita al sacrificio, rinunciando ai beni materiali, alla vanità” ma forse non alla sensualità, ai sensi sublimati nella penitenza, nella preghiera, nell’estasi. “Sono personaggi fragili, quasi tutte”, osserva, lei che ha raccontato di un’altra comunità familiare e chiusa di donne nelle “Sorelle Macaluso”, eppure “hanno caratteri ben definiti, personalità vive e ben tratteggiate. I ‘Dialoghi’”, puntualizza, “non raccontano una comunità in generale, come spesso accade nelle opere dove emergono i personaggi principali e il contesto viene lasciato sullo sfondo, ma, come il titolo indica, l’intrecciarsi di sentimenti, gioie, paure di tanti individui. Sono lì dentro con grandi dubbi”.
Nella realtà non manipolata e riscritta da Bernanos, le monache dei conventi pre-rivoluzionari erano – non sempre ma nemmeno di rado – donne che a una sequela di gravidanze senza fine e sempre a rischio o agli interessi del marito preferivano il silenzio del chiostro e l’opportunità impagabile di scrivere e studiare. Tolta la narrativa molto ottocentesca sulla Monaca di Monza e il suo sogno d’amore scellerato, è evidente che la carriera monacale sia stata l’unica non preclusa alle donne per molti secoli, basti pensare a Ildegarda di Bingen, che dopo la canonizzazione voluta da Benedetto XVI ormai hanno scoperto anche i libri per bambine ribelli (domanda ovvia: le avrebbero permesso di esercitare i suoi studi di medicina ed erboristeria, pratica da fattucchiera, al di fuori delle mura di Rupertsberg?), ma anche alla laica Petronilla Paolini Massimi, passata alla storia come la “poetessa femminista” della Roma barocca (sarebbe riuscita a comporre senza rifugiarsi al complesso di Santo Spirito con il marito che le strappava i fogli dalle mani?) o a Roswitha di Gandersheim, il primo nome che si trovi sui libri di storia della letteratura tedesca.
Convento luogo “infernale” sì, come denunciava negli ultimi anni del Seicento da Venezia suor Arcangela Tarabotti nelle sue invettive, ma anche eremo di pace, di sostegno, unica alternativa seria, riconosciuta anzi intoccabile, a una vita di rinunce intellettuali. Dei fatti storici di Compiègne si sa che le monache “ringraziarono con un sorriso il giudice che le condannava a morte”, particolare che ha molto colpito Emma Dante lasciandole supporre, come peraltro fecero i giudici rivoluzionari, una discesa collettiva nel fanatismo quando è invece probabile che si trattò di un gesto politico e di orgoglio in parte di casta e in parte di militanza apostolica. E’ fatto documentato che, dopo la confisca del convento e il divieto di ricostituire la comunità religiosa, le monache si ritrovarono facendo voto di martirio, e che salirono al patibolo intonando una versione della “Marsigliese” composta da suor Julie de Neuville: “Livrons nos coeurs à l’allégresse / le jour de gloire est arrivé / loin de nous la moindre faiblesse / le glaive sanglant est levé” (“abbandoniamo i nostri cuori all’allegria, il giorno di gloria è giunto, non cederemo alla più piccola debolezza, alziamo la spada sanguinante”). Durante il tragitto, avvolte nei loro mantelli bianchi, intonarono il Te Deum, il Salve Regina e il Miserere e la Madre superiora, Thérèse de Saint Augustin, dopo aver acquistato alle condannate una tazza di cioccolata per rinfrancarle, pregò il boia di giustiziarla per ultima perché potesse sostenere le consorelle. E’ storia che il canto del salmo “Laudate Dominum omnes gentes” si affievolì a mano a mano che la ghigliottina sottraeva voci al coro e che l’Amen finale rimase sospeso davanti a una folla per una volta non eccitata dallo spettacolo del sangue, ma ammutolita di fronte a una simile prova di coraggio. Ed è questo momento finale, una sceneggiatura spontanea, che esercita un fascino irresistibile sugli spettatori e, come ovvio, sui registi.
Emma Dante non ha voluto la ghigliottina, lo schafott del romanzo di von Le Fort ma, come spiega, una scenografia più simbolica. L’intero impianto visivo del nuovo allestimento si svolge attorno ai quadri del palazzo del marchese de la Force, padre della quindicenne Blanche, nata in circostanze tragiche e timorosa perfino della propria ombra, che dapprima si aprono come porte sul convento e quindi, a mano a mano che il Terrore si insinua nella vita delle protagoniste devastando corpi e cose, si riducono a semplici cornici per inquadrare i grandi teli bianchi che le condannate fanno cadere, una dopo l’altra, in scena. Il bianco della purezza occidentale che diventa il bianco dello iato, la sospensione, la morte, come nella tradizione nipponica. A Blanche, il capro espiatorio, che nel testo drammaturgico trova il riscatto dalla propria pusillanimità nella scelta di ricongiungersi alle compagne, Emma Dante ha riservato una fine cristologica, l’estremo sacrificio, come peraltro annotava anche Bernanos nel suo Diario dall’esilio a Tunisi, addentrandosi nel mistero della salvezza: “E’ proprio la nostra debolezza che Egli vuole mettere alla prova, non la nostra forza”.
Ed ecco allora il turbamento della Priora di Croissy (interpretata all’Opera da Anna Caterina Antonacci) che, sul letto di morte, nelle convulsioni di un’agonia lenta e atroce, mette in crisi la propria lunga fedeltà a Cristo in una sorda ribellione, un senso di sconfitta e di umiliazione che non sfugge alle consorelle più giovani e in particolare a Costanza (“chi avrebbe mai potuto credere che avrebbe penato tanto a morire, che sarebbe morta così male! Si direbbe che al momento di dargliela, il buon Dio si è sbagliato di morte, come in guardaroba vi si dà un vestito per un altro. Sì, quella doveva esser la morte di un’altra, una morte non sulla misura della nostra Priora, una morte troppo piccola per lei… Quell’altra, quando verrà l’ora della morte, si stupirà di entrarvi così facilmente e di trovarcisi comoda… Non si muore ciascuno per sé, ma gli uni per gli altri, o magari gli uni al posto degli altri, chi sa?”). Attorno a questa riga, Emma Dante ha immaginato anche il suo Cristo in croce, ispirazione di Blanche che nella scelta del proprio nome di conversa ha chiesto di chiamarsi “Suor Bianca dell’Agonia di Cristo”, e sarà un Cristo fluido, come peraltro – ahinoi se qui si cerca di dare scandalo si troveranno pochi appigli – testimonia una iconografia occidentale che da secoli ritrae un Cristo biondo, glabro, dai boccoli inanellati e le ciglia femminee. “Credo che i corpi siano liberi”, dice Emma Dante che se da un lato “rispetta la figura di grande martire di Gesù”, dall’altro non riesce a immaginarlo se non agender. Non è la sola. Entrate nella casa di qualunque nonna siciliana e questo troverete fra i santini e i calendari: un uomo talmente angelicato da apparire, appunto, asessuato come gli angeli.
(DI FABIANA GIACOMOTTI)
Georges Bernanos (Parigi, 20 febbraio 1888 – Neuilly-sur-Seine, 5 luglio 1948), assai critico con i governi anglofrancesi a causa dei loro cedimenti nei
confronti della Germania di Hitler, poi esule in Brasile. Da qui sarà uno dei primi ispiratori della Resistenza in Francia. Cattolico e nazionalista, fin da giovane milita nell’Action française e partecipa alle attività dei “Camelots du roi”, movimento di giovani monarchici. Prima della Grande Guerra dirige
L’Avant-Garde de Normandie. Allo scoppio della guerra, nonostante fosse già stato riformato per varie ragioni di salute, si arruola volontario nel 6º Reggimento Dragoni (cavalleria).
Nel 1917 sposa Jehanne Talbert d’Arc, lontana discendente di un fratello di Giovanna d’Arco, con cui ebbe sei figli.
I suoi temi letterari: peccati dell’umanità, potenza del male e aiuto della Grazia divina. Nel 1936 pubblica Diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne) dal quale è tratto il film omonimo di Robert Bresson (1950) con Claude Laydu al suo debutto. Al tempo della guerra civile in Spagna pubblica I grandi cimiteri sotto la luna, pamphlet in cui prende pubblicamente e definitivamente le distanze dai suoi vecchi amici dell’Action française (la rottura con Maurras, avvenuta già nel 1927, era rimasta segreta fino a quel momento). Bernanos condanna da un lato i massacri e le atrocità commesse dalla Falange prendendo a pretesto il nome del Cristo, dall’altro l’appoggio da parte di Maurras e dell’Action française di cui godevano i nazionalisti spagnoli. Pio XII dirà del libro “Brucia ma illumina”.
Poi esilio di sette anni in Brasile. Scrive essenzialmente di politica e risente dell’influenza di Charles Péguy.
Rientra in Francia su sollecitazione di Charles de Gaulle prima di trasferirsi in Tunisia. Torna in Francia gravemente malato e muore a Neuilly-sur-Seine dopo aver scritto l’adattamento teatrale del racconto della scrittrice tedesca Gertrud von Le Fort intitolato L’ultima al patibolo, la cui vicenda si rifà alla storia vera delle sedici Carmelitane di Compiègne, beatificate in seguito da Papa Pio X nel 1906, ghigliottinate sulla piazza del Trono-Rovesciato (attualmente Place de la Nation) durante la Rivoluzione francese.
Quest’opera, intitolata Dialoghi delle Carmelitane in cui Bernanos mantiene il personaggio fittizio di Blanche de la Force (traslitterazione di “von le Fort”), farà poi da libretto all’opera omonima del compositore Francis Poulenc, composta nel 1956.
J.V.