IN DIFESA DEL LICEO CLASSICO

IN DIFESA DEL LICEO CLASSICO

“homines dum docent discunt”
(Seneca, Lettere a Lucilio)

Una seria riforma napoleonica della scuola in Italia è stata realizzata soltanto con governi forti: nel 1859 nel Regno di Sardegna (Legge Casati) e poi nel 1923 con Giovanni Gentile. Voglio dire che quando Cavour, che di prassi parlamentare se ne intendeva, voleva imbrigliare i lavori parlamentari, gettava in aula l’osso della riforma della scuola. Soltanto quando decide di farla passare davvero, decide e basta. Così il fascismo con Gentile. Non sto dicendo che fossero buone riforme sul piano sociale o prive di controindicazioni, dico che sono state realizzate. La riforma Gentile, l’unica che abbia funzionato coerentemente per molti anni, è ovviamente una riforma classista ma ha una sua ratio, un suo intendimento di fondo, una sua logica. Gentile, o meglio l’antifascista Croce, pensa ad una galassia che abbia al centro una scuola di alta cultura classica, permeata sul greco e il latino, sulla storia e la filosofia, sulla letteratura. Parte dal presupposto, condiviso peraltro da Pantaleo Carabellese, che chi sa leggere Hegel e Kant può far qualsiasi cosa nella vita, mentre il contrario non è vero. Qui non si tratta di stabilire se fosse giusto o sbagliato. Si tratta di riflettere sulla faziosità della classe politica del nostro paese e la riforma Gentile ne rappresenta un esempio sublime. Ricapitoliamo: Croce, ministro della Pubblica Istruzione nel 1921, pensa la riforma, la quale prevede al centro della galassia il liceo classico. Le altre scuole rispondono alla sua concezione aristocratica, classista e liberale della società: le magistrali per le ragazze di buona famiglia, l’istituto tecnico per la piccola borghesia, l’avviamento al lavoro per l’aristocrazia operaia e via di seguito. Che i figli dei contadini o dei minatori, come il sottoscritto, possano studiare è un pensiero che neanche lo sfiora e non se ne vergogna. Giorgio Falco, il grande storico medievista, negli anni sessanta chiedeva al mio maestro Claudio Costantini ed eccellente storico anch’esso:- Claudio, tu che sei un bravo studente, spiegami perché mai i contadini adesso vogliono studiare all’università?- E lo chiedeva sinceramente, prigioniero della sua mentalità. Sbagliava senz’altro dal mio punto di vista. Per me tutti devono avere accesso all’alta istruzione. Accesso appunto. Ma poi deve contare il merito. Non possiamo regalare lauree inutili per decreto. E infatti non dovevano essere Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Giorgio Falco a porsi questo problema. Noi avremmo dovuto risolverlo e non ci siamo riusciti perché la scuola di massa oggi in Italia lascia a desiderare. Delle due l’una: o scuola di massa è un ossimoro oppure abbiamo sbagliato qualcosa. Citavo prima Pantaleo Carabellese; oggi avremmo bisogno di uomini come lui.

“Del mio vivere ho poco da dire. Sono nato a Molfetta il 6 luglio 1877; ho sempre tratto i mezzi del mio sostentamento dalla mia opera di insegnante: della scuola ho percorso tutti i gradi: l’insegnare mi è stato di aiuto a filosofare: credo di non aver tradito le esigenze dell’uno e dell’altro, e non le ho trovate incompatibili tra loro.” Già da queste sobrie parole si intuisce immediatamente il nesso tra pensiero e vita di questo autore severo, sicuramente uno dei pensatori più austeri dello scorso secolo. Pensatore difficile, poco famoso, controcorrente eppure in grado di esprimere un panteismo mediato dalla critica kantiana. Studioso del pensiero di Giordano Bruno e riformulatore del lessico filosofico. Proprio la sua complessità, l’autorevolezza pedagogica, la scarsa concessione alle mode, ne fanno un isolato. Di particolare rilevanza la sua riflessione sul rapporto tra gli intellettuali e il potere: l’intellettuale non deve trasformarsi in servo di un’ideologia, deve mantenere il distacco critico, la propria aristocrazia intellettuale. Parafrasando il grande George Steiner, l’opera di Carabellese, “in un periodo in cui i saltimbanchi del pensiero e del linguaggio venivano, vengono e verranno incoronati d’alloro, oggi viene considerata un prezzo troppo elevato da pagare alla serietà del pensiero.”
Ma soprattutto Carabellese mette in luce il vero ruolo della filosofia e degli studi classici: sono inutili ma questa loro inutilità è divina. In un mondo votato al consumo immediato abbiamo profondo bisogno dell’inutilità degli studi classici.

Torniamo a Croce e Gentile. I fascisti emarginano Croce in quanto sacerdote dell’antifascismo aristocratico. In realtà in un primo tempo Don Benedetto aveva gigioneggiato con loro. Li reputava un bubbone necessario in funzione antisocialista. Scoppiato il bubbone, secondo lui, si sarebbe tornati al vecchio e sano stato liberale senza gravi conseguenze per la tenuta del sistema. Invece il bubbone ucciderà lo stato liberale e Croce, uomo di enorme acume filosofico e politico oltre che di spaventoso buon senso come tutti i grandi filosofi, se ne renderà conto. Col tempo capirà anche lui che il fascismo è il male assoluto. Soltanto col tempo. Sbagliò Croce e sbagliò in buona compagnia. Anche i grandi sbagliano. L’importante è che poi si ravvedano. Comunque Croce si ritira nella sua villa di Napoli e i fascisti, timorosi di complicazioni internazionali, non osano toccarlo. Toccheranno uno non meno bravo ma meno potente: Piero Gobetti. Gli daranno tante botte da farlo morire poco tempo dopo il pestaggio. Oltre a Gobetti molti altri intellettuali, e non, verranno perseguitati, imprigionati, uccisi. La condanna del fascismo deve essere totale e inappellabile. Dopo Croce diventa ministro un suo ex amico ora intellettuale di punta del regime: Giovanni Gentile. Il filosofo siciliano di Castelvetrano più che fascista è ambizioso, o forse tutte e due. Scrive la voce Fascismo sull’enciclopedia Treccani assieme al cavalier Benito, si atteggia a filosofo di una nuova epoca. Malgrado commetta alcuni errori aiuta comunque qualche intellettuale ebreo a fuggire dopo le famigerate leggi razziali del 1938. Lui non le condivide ma non fa nulla per osteggiarle. Dopo la caduta del fascismo sosterrà Salò e proporrà una nuova visione sociale della scuola. Nel 1944 verrà giustiziato dai partigiani davanti alla porta di casa a Firenze. Prima di lui forse avrebbero dovuto pagare altri. Comunque andò così. In ogni caso la riforma Gentile del 1923 ha significato, nel bene o nel male, un modello di scuola accentrato, piramidale, per pochi, classista. Dal mio punto di vista da combattere ma di cui tenere conto. La domanda che la classe politica tutta oggi deve farsi è: cosa vogliamo che sia la scuola e cosa vogliamo che produca?
Di sicuro la scuola di massa di oggi non va bene. Non si deve tornare alla riforma Gentile, ma così non va. Luigi Berlinguer, recentemente scomparso, è stato un buon ministro, ma, forse prigioniero dell’ideologia, ha commesso, in buona fede, e questa è la cosa grave, molti marchiani errori, soprattutto a danno degli studi classici. La strada tracciata da Berlinguer viene continuata da Letizia Moratti con qualche spruzzata di privatizzazione in più. La contrapposizione non è pedagogico-culturale, come dovrebbe essere, ma tutta partitica perché si continua ad usare la scuola come clava per interessi elettorali a scapito del paese tutto. Proviamo a ragionare partendo da un assioma: la scuola è di vitale importanza per il futuro del paese. Tutti coloro che condividono questo assioma non possono restare a guardare il crollo senza intervenire.
Ribadisco che a mio parere non siamo di fronte ad una crisi della scuola italiana ma ad una crisi sistemica: il sistema nazionale di istruzione è vicino al collasso. Non si tratta di catastrofismo ma di lucida e razionale analisi della realtà: insegnanti demotivati, malpagati e senza rispetto sociale, studenti annoiati e, tranne casi sporadici, senza nessuna fiducia nell’istituzione scuola e nelle istituzioni in genere, genitori scontenti e incapaci di comprendere che è in gioco il futuro dei loro figli e che quindi sarebbe meglio collaborare con i docenti invece di denigrarli ogni giorno. Scuola elementare che ormai da tempo invece di insegnare a leggere, scrivere e far di conto, si perde dietro interminabili ed estenuanti discussioni didattichesi col risultato di vanificare il lavoro serio di molti buoni maestri e, in ultima analisi, fallendo il bersaglio: l’alfabetizzazione dei bambini. Scuola media fallimentare sotto ogni rispetto: ragazzini impegnati in qualsivoglia attività tranne quella di studiare sintassi italiana e algebra. Il risultato finale si ha alle superiori: noia, abbandono scolastico, mancanza di rispetto verso i docenti, bullismo, ignoranza. Alcuni potranno obiettare che vi sono delle eccezioni. E’ vero, ma sono eccezioni che confermano la regola. Ci sono, per fortuna, ancora molti buoni docenti e presidi che ragionano.

E il liceo classico? È inutile ormai, non serve più a nulla? Chi lo difende è un reazionario classista? Sono sempre meno i ragazzi iscritti al classico. Molti preferiscono il liceo scientifico «soft» al liceo classico. Il merito? L’aver eliminato lo studio del latino. A quanto pare oggi «modernizzare e riformare la scuola» significa eliminare dai programmi tutte quelle materie difficili, impegnative, che stressano inutilmente i ragazzi insomma. Così quando si parla del latino, del greco, della filosofia, c’è sempre qualcuno che obietta: certo, sono cose interessanti, ma sono davvero utili? Non è più utile in fondo insegnare a un ragazzo un mestiere? Ma indovinate un po’? I classisti, i veri classisti sono loro. Perché non c’è niente di più antiquato e classista che dire questo: insegniamo a un ragazzo un mestiere. Gioverebbe a questi fautori del modernismo, ripassare un po’ di storia.
Sapete cosa dicevano gli intellettuali del XIX secolo? Che se ne fa il popolo della letteratura, della storia? Meglio mandarli a bottega, insegnare loro un mestiere, almeno avranno di che campare. E a cosa serve in fondo a una donna, si domandavano altri, avere un’istruzione? Sarà utile per trovarle un buon marito? No, certo che no, insegniamo loro a cantare, a danzare, insegniamo loro l’arte della conversazione, del disegno e del ricamo, non sia mai che si mettano a leggere e poi pensino di essere “intelligenti come un uomo”.


Ecco, sarebbe davvero opportuno oggi prestare un po’ più di attenzione a tutte quelle materie “inutili” come il greco, il latino, la storia, la filosofia e la letteratura, ma forse hanno ragione loro, forse non è opportuno educare in questo modo i ragazzi. Forse quelli come me non capiscono più nulla. Una cosa però credo di averla compresa, una sola: chi vuole la distruzione del liceo classico in genere non realizza che prima di distruggere un paradigma culturale di stampo umanistico occorrerebbe aver trovato un nuovo alloggio, una nuova casa. E questa nuova casa non esiste.
Ovviamente l’innovazione tecnologica, lo studio delle lingue straniere debbono trovare spazio al liceo classico ma è ragionevole hegelianamente superare conservando.
Nella mia lunga esperienza scolastica ho insegnato e sono stato preside in quasi tutti i tipi di scuola. Posso affermare serenamente che dove si trovano buoni insegnanti si trovano buone scuole, dal tecnico, istituto assai importante e difficile, ai professionali dove occorrono insegnanti molto preparati e coraggiosi. Infine voglio ribadire che difendo il liceo classico per i motivi già esplicitati ma combatto una visione del liceo classico come esclusiva risorsa delle buone borghesie cittadine, combatto la spocchia e la prosopopea di alcuni sussiegosi docenti che guardano dall’alto in basso colleghi di altre scuole. Per me, dal punto di vista umano e sociale, una scuola vale l’altra e credo che proprio la cultura classica dovrebbe insegnare modestia ed umiltà.
Per aspera ad astra.

J.V.

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