INTERVISTA A MARIO TRONTI“DRAGHI,ILMIGLIORE DEGLI AVVERSARIAL PD DICO: ORA SERVE UNITÀ”

INTERVISTA A MARIO TRONTI
“DRAGHI,ILMIGLIORE DEGLI AVVERSARI
AL PD DICO: ORA SERVE UNITÀ”
«Sulla geopolitica avrebbe dovuto ascoltare Kissinger, ma nelle comunicazioni ha dato una lezione di stile. Sgomberato il campo dai 5 stelle, nella prossima legislatura va costruita una forza di sinistra.

Enrico Letta riunisce domani (oggi per chi legge) la Direzione del Partito democratico. Un consiglio: farebbe bene a leggere con attenzione le riflessioni che un grande del pensiero politico, Mario Tronti, affida a Il Riformista. Il padre dell’operaismo ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico. È stato presidente della Fondazione CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao.
Il Riformista ha titolato, a commento degli accadimenti politici e parlamentari che hanno portato alla caduta del governo Draghi: “La commedia è finita. Ma ora inizia la tragedia”. E da Francoforte (Bce) ne sono venute le prime avvisaglie.

Professor Tronti, siamo ad una crisi di governo o a qualcosa di ancor più grave: una crisi di sistema?

Giusto il titolo del Riformista: la commedia è finita. Inizia la tragedia. Di sicuro è già cominciato il dramma. Ora, a distanza di alcuni giorni, e a mente fredda, ripartirei da Draghi. È accaduto quello che si temeva fin dai giorni dell’elezione per il Quirinale. Con quei giochi si sarebbe finiti per non avere Mario Draghi né al Quirinale né a Palazzo Chigi. Una riserva di eccellenza della Repubblica buttata via per pura insipienza politica. Preciso subito una cosa, per non creare equivoci. Dal mio punto di vista di parte, di classe, nel pensare e nell’agire, non posso che considerare una tale personalità come un avversario, frontale. Ma nella contingenza emergenziale, e però con le opportunità di spesa e di ripresa che si presentava, il passaggio attraverso un governo di unità nazionale a guida politico-tecnica era la soluzione giusta. Più che saggio il salto di qualità imposto da Mattarella da Conte a Draghi. L’auspicio, se vi ricordate, era anche quello che mentre un tale governo lavorava a superare appunto quell’emergenza, i partiti avrebbero potuto e dovuto ripensare sé stessi, riqualificare il proprio ruolo, avviare una riforma di sistema. Un auspicio ben presto caduto, perché, si è visto, la qualità media dell’attuale ceto politico non era in grado di sostenere il compito. Ho di nuovo ammirato la lezione di stile che Draghi ha offerto nelle comunicazioni e nelle repliche per l’ultimo dibattito parlamentare. Chiunque altro avrebbe rabberciato le cose, e lo poteva fare, pur di restare. Ha staccato, e salutato, con un sorriso. È proprio vero quel detto: “Lo stile è l’uomo”. Questo mi basta per dare valore alle mie considerazioni sulla persona. Provo un certo interesse per un avversario serio, non ne provo alcuno per un alleato ridicolo. Poi certo non ho gradito quanto è risultato invece assai gradito ai suoi sostenitori più convinti: quell’eccesso di atlantismo, anomalo tra l’altro proprio nei suoi eccessi rispetto alla tradizione politica italiana. Un banchiere centrale, rigroso interprete dell’attuale fase di globalizzazione economico-finanziaria capitalistica, non poteva che essere così. Un uomo di governo però che proprio così non è salito a uomo di Stato. Lo dico con una punta di amara ironia. Avrebbe avuto bisogno di ascoltare qualche lezione di geopolitica dal lucidissimo novantanovenne Kissinger, che da anni sta ammonendo i suoi americani e noi europei: badate, la Russia non è una potenza regionale, è una potenza mondiale, non isolatela, non circondatela, non andate, come si è ben detto, ad abbaiare nel suo cortile di casa, perché potrebbe reagire male e allora arriveranno guai. Ha reagito male e i guai sono già arrivati e di più ne arriveranno, per tutti. E adesso pensate a chiudere la vicenda piuttosto che esasperarla.

Il Partito democratico aveva puntato molto, se non tutto, sull’asse strategico con i 5 Stelle. I 5Stelle di Giuseppe Conte. Ed ora che ne resta del “campo largo” su cui tanto aveva insistito Enrico Letta, dopo che lo stesso segretario dem ha dichiarato irreversibile la rottura con l’ex alleato speciale?

Il passaggio politico-elettorale è molto delicato. Va gestito con intelligenza e con abilità. Vedo un dato positivo. È da mesi, e da anni che andiamo dicendo: lasciate stare questi 5Stelle, è roba di scarto, non fidatevi perché sono inaffidabili. Un movimento solo distruttore può avere un destino solo autodistruttivo. È quanto sta fatalmente avvenendo. Errori ne sono stati commessi tanti su questo versante. Uno per tutti. Il Pd che aderisce passivamente, in modo subalterno, a quella brutta operazione demagogica del taglio dei parlamentari chiedendo contropartite in riforme di sistema, in una riforma elettorale e dei regolamenti parlamentari, contropartite mai pervenute. E oggi, in questa prevedibilissima accelerazione ci si trova ingabbiati in una pessima legge maggioritaria, senza che si sia mai spesa un forte iniziativa per cambiarla. Ma questo perché? Perché c’era l’illusione che il cosiddetto campo largo Pd-5Stelle fosse, con una legge maggioritaria, competitivo con lo schieramento di centrdestra. Falso in sé e nella prospettiva di quella maggioranza fasulla.

E adesso?

Adesso conviene mettere da parte queste polemiche, e ce ne sarebbero ben altre, per guardare avanti. L’obiettivo massimo è battere la destra. Il PD deve fare il PD, autonomamente. Non deve, esso, presentarsi come il partito dell’agenda Draghi. Lasci questo lavoro ad altri. Rispolverare, nelle attuali condizioni, la formula del partito a vocazione maggioritaria mi pare velleitario. Nella necessaria coalizione, soprattutto nei collegi, non c’è altra via che allearsi con un’area, che si riferisca all’esperienza Draghi, come richiamo non alla sua persona ma alle sue qualità, professionalità, competenza, saper fare, saper gestire. Senza escludere nessuna delle variegate componenti di quest’area, raccomandando piuttosto un generoso sforzo di unificazione, che non disperda voti. Perché ce ne vogliono di tutti quelli disponibili. Ma il Pd ha bisogno elettoralmente di scrollarsi di dosso questa immagine di partito dell’establishment, sempre e comunque al governo. È purtroppo così che viene percepito dalle zone più in sofferenza della società.

Domani (oggi per chi legge) Enrico Letta riunisce la Direzione nazionale del Pd. Un suggerimento?

Parli naturalmente a tutto il Paese con un progetto Italia, in Europa, con poche linee chiare e nette, al centro la pesante questione sociale, lavoro, salari, pensioni, cioè lavoro povero, precariato, partite Iva di medio-basso livello, con un occhio al carovita delle famiglie pesantemente aggravato da guerra e inflazione, e poi sicurezza, protezione, per i più deboli ed emarginati, con tutto il resto, diritti delle persone di ogni colore e di ogni genere, che giri intorno a questo nucleo centrale. Il Pd ha il limite di essere, esso stesso, un campo largo. Lì dentro c’è di tutto. Ma adesso occorre scegliere, decidere, a chi parlare, come farsi ascoltare, e farsi capire, con quali parole che le persone semplici hanno bisogno di sentire. Questa è una partita a breve, che va giocata con uno sguardo lungo. Realisticamente, la prospettiva non è matura per un passaggio e un messaggio più radicale. Non è cosa da fare in due mesi. Ma, dal governo o dall’opposizione, durante la prossima legislatura va impiantato un lavoro di organizzazione per una forza politica consistente a sinistra del Pd. È una necessità ormai storicamente determinata. Un mutamento di quadro politico, che ridisegni un equilibrio di sistema: in vista di un nuovo bipolarismo, che non renda più determinante per il Pd l’alleanza con una gamba moderata, di centro. Sgombrato il terreno dai 5Stelle, che solo populisticamente, e indegnamente, occupavano una parte di quel territorio, diventa possibile la rimessa in campo di una sinistra moderna, che sia però capace di mettere a frutto la grande eredità di una sinistra antica che, in Italia, in Europa, e nel mondo, ha saputo lottare con successo per l’emancipazione e la liberazione delle persone sfruttate e dei popoli oppressi.

Umberto De Giovannangeli, Il Riformista, martedì 26 luglio 2022

Mario Tronti è militante del Partito Comunista Italiano durante gli anni cinquanta e con Raniero Panzieri tra i fondatori della rivista Quaderni Rossi. Si separa da Panzieri per fondare la rivista Classe operaia. Accademico italiano, considerato uno dei principali fondatori ed esponenti del marxismo operaista teorico degli anni sessanta. Allievo di Galvano Della Volpe, probabilmente il più importante teorico marxista italiano, sì allontana dal pensiero di Gramsci o meglio dalla versione ufficiale promossa dal PCI togliattiano. Debitore di Ernst Jünger (v. “L’operaio”, 1932), nel 1966 pubblica Operai e capitale, un libro che ha esercitato una forte influenza sulla mia generazione. Tronti rivendica la centralità politica della classe operaia. Proprio la sconfitta della spontaneità operaia lo induce a separarsi da Toni Negri nel 1968 e a spostare l’elaborazione sull’autonomia del politico in una originale sintesi tra Karl Marx e Carl Schmitt. Si riavvicina poi al PCI di Enrico Berlinguer ed entra a far parte del Comitato centrale. Senatore in diverse legislature, esprime sempre un pensiero originale e non banale.
Alcune opere maggiori:
Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966; seconda edizione accresciuta 1971;
Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977
Il tempo della politica, Editori Riuniti, Roma, 1980;
Teologia e politica al crocevia della storia (con Massimo Cacciari),
Finis Europae. Una catastrofe teologico-politica, Bibliopolis, Napoli 2008.

Dire che condivido anche le virgole della sua intervista è dire poco. Non verrà ascoltato… purtroppo e il Paese sarà consegnato alla Destra. Sì alla Destra perché dopo la follia berlusconiana non esiste più il Centro-Destra.
La stultifera navis non reggerà l’urto delle onde.

J.V.

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