Kubrick
Kubrick
“L’uomo non è un nobile selvaggio, è piuttosto un ignobile selvaggio. È irrazionale, brutale, debole, sciocco, incapace di essere obiettivo verso qualunque cosa che coinvolga i propri interessi. Questo, riassumendo. Sono interessato alla brutale e violenta natura dell’uomo perché è una sua vera rappresentazione. E ogni tentativo di creare istituzioni sociali su una visione falsa della natura dell’uomo è probabilmente condannato al fallimento.”
(Stanley Kubrick)
Sarebbe sufficiente la precedente dichiarazione, esatto rovesciamento delle perniciose idiozie di Rousseau, per farmelo amare e stimare ma
Stanley Kubrick è uno registi che ha scandito la mia vita. Poi anche sceneggiatore, fotografo e produttore. Leone d’oro alla carriera. Un solo Oscar. Newyorkese di origini ebraiche, nato nel 1928, naturalizzato britannico. Amante accanito degli scacchi. Studioso serio di Nietzsche e Napoleone. Primo film importante “Il bacio dell’assassino” nel 1955. Poi “Rapina a mano armata”, furto a un ippodromo e tragici sviluppi narrati in versioni differenti. Nel 1957 Kirk Douglas gli finanzia il capolavoro “Orizzonti di gloria”, tratto dal romanzo Paths of Glory di Humphrey Cobb. Il titolo è
tratto dai versi del poeta settecentesco Thomas Gray.
Prima Guerra mondiale, 1916, fronte occidentale. Prendere il formicaio a tutti i costi. Il generale Mireau vuole una promozione e non esita a sacrificare uomini da mandare al macello. Colonnello Dax contrario e dalla parte dei soldati ma costretto a uscire dalle trincee. Disastro. Nessuno arriva alle postazioni nemiche. Mireau ordina di sparare sui propri soldati. Non pago vuole un processo per codardia. Chiede la morte di 100 uomini. Il suo superiore Broulard, astuto e cinico più di lui, gli concede di prenderne tre, uno per ogni Compagnia coinvolta. Malgrado la sentenza sia già scritta, Dax, bravo avvocato parigino nella vita civile, li difende con maestria. Condannati comunque alla fucilazione. Non manca il prete che cerca di portare conforto con risultati grotteschi… L’anima? Me ne frego dell’anima!!! grida il soldato semplice Maurice Ferol. Fucilati!
Mireau è comunque destituito. Il cinico e ributtante generale Broulard offre la promozione al colonnello Dax. Rifiuto secco e secca risposta di Broulard “lei è un idealista e la compiango!”. Dax spedito immediatamente con la sua compagnia in prima linea… il tempo di una canzone (“Der treue Husar, l’Ussaro fedele”). Storia vera (336º Reggimento di fanteria francese, comandato dal generale Géraud Réveilhac. Vicenda nota come “caso dei caporali di Souain”. Nel 1934 vengono riabilitati i condannati giustiziati. Echi della tregua di Natale e di altri episodi storici che presentano la guerra per ciò che è: una immensa e orribile carneficina. Generali nel castello e soldati in trincea a marcire.
L’unica donna del film, la giovane Susanne Christian, la ragazza tedesca che canta nel finale, è la terza e ultima moglie di Kubrick.
Malgrado sia ambientato sul fronte francese il film viene girato in Baviera, nel castello di Schleißheim, vicino Dachau.
In Francia viene proiettato soltanto nel 1975.
Asciutto, essenziale, coraggioso, rigidamente in bianco e nero, antiretorico. Una particolarità: il nemico non si vede mai… forse perché non esiste o viene creato apposta come un drappo rosso per far caricare il toro?
Poi di nuovo assieme a Kirk Douglas per Spartacus, forse il film più anomalo e sconosciuto tra quelli realizzati, scritti, diretti e con pignoleria assoluta, curati, sotto ogni dettaglio, dal grande regista americano. Il film nasce per il volere ostinato di Kirk Douglas che con la stessa ostinazione vuole che venga scritto da Dalton Trumbo, (sceneggiatore di Vacanze romane, tra l’altro e regista del misconosciuto E Johnny prese il fucile), scrittore in odore di comunismo e perseguitato da McCarthy e dalla sua sospettosa commissione. Siamo negli anni ‘60 in piena guerra fredda e Trumbo scrive sotto falso nome. Film politico sulla conquista della libertà. Prende una piega troppo hollywoodiana per le continue intromissioni di Douglas, assai legato al presidente Kennedy, e Kubrick non lo riconosce completamente come suo. Kubrick a questo punto decide di trasferirsi definitivamente in Inghilterra. Dirige “Lolita“ da Nabokov. Dure critiche e censura in allarme. Nel 1963 il satirico e amaro “Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba” con Peter Sellers, in sintonia col clima della guerra fredda e del terrore atomico.
Poi quattro anni di lavoro per “2001: Odissea nello spazio”, riflessione filosofica sul destino umano. Inizia con un misterioso
monolito al tempo dei primati intelligenti. Quattro milioni di anni dopo: Luna, cratere Tyco, il monolito lancia segnali verso Giove. Diciotto mesi dopo gli astronauti Frank e David sull’astronave Disvovery si dirigono verso il pianeta. A bordo tre ricercatori ibernati e il computer di nuova generazione HAL 9000 in grado di controllare il funzionamento dell’astronave e di dialogare con gli umani. Errore di HAL. Disattivazione. Scontro con la macchina. Quattro morti. David distrugge la memoria di HAL e scopre il vero scopo della missione. Giunge su Giove e poi sul pianeta dove rinascerà a nuova vita. Capolavoro assoluto, riflessione profonda su civiltà e tecnica, sul destino umano. Lentezza siderale scandita dalla musica del Danubio blu, la musica del Secol superbo e sciocco, quando si pensava alla assoluta bontà della Scienza e alle magnifiche sorti progressive. Il protagonista è HAL e gli umani sono al suo servizio. HAL non è malvagio, semplicemente entra in crisi perché il suo sistema binario viene stravolto da un segreto da conservare, da una menzogna da pronunciare. È l’uomo che prepara la propria distruzione come nel Dottor Stranamore. HAL non può rivelare lo scopo della missione e non resiste alla doppiezza umana. Disattivato, torna allo stato infantile. Anche David torna allo stadio infantile risorgendo come feto delle stelle.
Favola apocalittica sul destino umano, ispirata a The Sentinel di Arthur C. Clarke. Inquietante, maturo, affascinante per immagini e suoni. Ricerca filosofica sul senso dell’esistenza in un universo glaciale, muto, incomprensibile ed infinito. Cinque anni di durissima lavorazione maniacale per realizzare un film elegantissimo, dal finale emblematico e misterioso. Fantascienza presa a pretesto per costruire un monumento di intelligenza, estetica raffinata, senso filosofico. Tre secoli prima un geniale malato scriveva “Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa.” Pascal ci ricorda la nostra miserabile natura.
Dopo 2001, Kubrick vuol girare il film sulla sua vera passione: Napoleone. I costi eccessivi e il fallimento commerciale di Waterloo di Bondarčuk impauriscono la produzione è così non se ne fa niente. Peccato! Non abbiamo avuto il privilegio di vedere a Jack Nicholson nei panni dell’Imperatore. Kubrick aveva già assoldato migliaia di soldati dell’esercito rumeno per girare la scena della battaglia di Austerlitz.
Così nel 1971 produce e gira “Arancia meccanica”, tratto dal romanzo distopico del 1962 “A Clockwork Orange” di Anthony Burgess. Prodotto dal regista stesso. Durissimo e amaro ritratto della società violenta. Condizionamento sistematico del pensiero. Lettura onirica scandita da musiche sontuose (Rossini, Beethoven). Il titolo originale in inglese, A Clockwork Orange, deriva dal gergo londinese, il cosiddetto cockney “As queer as a clockwork orange” (Strano come un’arancia a orologeria). Infatti Alex è un automa della società. Burgess scrive che un uomo dotato di libero arbitrio ha l’apparenza di un frutto ma internamente è un meccanismo a molla pronto a scattare perché mosso dal Diavolo o dallo Stato onnipotente.
Korova Milk Bar, Drughi, lattepiù, mescalina, sottopasso, violenze di ogni genere, visite a sorpresa, stupri. Impotenza genitoriale, scuola assente, ossessioni sessuali del soggetto Alex, bugiardo patentato. Omicidio con oggetto fallico, condanna a 14 anni, botte pesanti dei poliziotti. Trattamento Ludovico. Alex da predatore diviene preda. Buona condotta, lettura della Bibbia. Rieducazione a base di farmaci e visione di lungometraggi violentissimi. Nausea e fortissimi dolori, tentazioni sessuali verso una ragazza dai seni che sfidano le leggi di gravità. Cappellano contrario al trattamento Ludovico perché annulla il libero arbitrio. Segretario agli affari interni favorevole dopo l’esperimento Alex. Rientro in società e vendetta delle vittime su Alex. Anche i genitori lo abbandonano. Gli ex Drughi, ora poliziotti, lo menano di brutto e cercano di annegarlo. Casa dello scrittore vedovo a causa di Alex. Oppositori politici riuniti vogliono aiutare Alex ma il soggetto si fa sgamare canticchiando in bagno Singin’ in the rain come al tempo dello stupro. Narcotizzato, prigioniero è costretto ad ascoltare la Nona a tutto volume. Alex si getta dalla finestra a causa del dolore acuto. Ospedale, segretario per gli affari interni preoccupato per eventuale scandalo. Accordo: Alex capo della polizia. Ora può esercitare tutta la violenza che vuole al riparo della legge. Oppositori politici tutti in galera.
Pop art a stecca, arredamenti interni di Max Fuksas, optical art e Mondrian. Film censuratissimo, soprattutto in Italia. I soliti idioti non capiscono nulla e lo considerano un inno alla violenza. Il mondo è alla rovescia. In Televisione giunge soltanto trentacinque anni dopo e con paludati ed esplicativi interventi tra l’ipocrita politicamente corretto e il didattichese scimunito.
La voce metallica di Alex in italiano è del magnifico Adalberto Maria Merli preferito addirittura a Giannini. Fellini, Kuroshawa e Bunuel (l’unico film in grado di spiegare davvero cosa sia il mondo moderno”) elogiano il film assieme a qualche critico con sale in zucca. Costumi della solita bravissima Milena Canonero.
Oggi si potrebbe ipotizzare una realtà che ha superato la finzione cinematografica.
Finalmente arriviamo al film che, assieme a Il Padrino, ho visto più volte nella mia vita: “Barry Lyndon” del 1975. Gioiello di straordinaria complessità tematica e stilistica; elemento dominante è la luce, vista come fonte di conoscenza del mondo sensibile (frequenti rimandi alle teorie ottiche sulla percezione dei colori) e come fulcro di un dramma basato sui concetti di ascesa e caduta delle ambizioni umane, di progetto e di scacco della volontà a opera di circostanze incontrollabili. Tutte le azioni cruciali si svolgono infatti in ambienti nei quali il riverbero delle candele – mirabilmente riprodotto da una pellicola ad altissima sensibilità della Carl Zeiss – avvolge i personaggi in un’atmosfera rarefatta, di impalpabile trasparenza, che misura la distanza temporale degli avvenimenti ed esprime il clima emotivo di ciascuna sequenza. Gli eventi sono inevitabili e la coscienza può comprenderli ma non modificarli. Da qui l’insistenza sul motivo del gioco, estrema risposta dell’uomo alle leggi del caso (la guerra, i duelli, le partite a carte, le manovre per la conquista del potere sociale da parte di Barry). Non avendo potuto girare la trilogia napoleonica descrive un Napoleone in miniatura. Film gelido e sontuoso, centrato sulla ipocrita razionalità settecentesca: magistrali e di raro effetto le scene di battaglia del Settecento, dove anche lo scambio di fucilate, scandite dalle musiche originali di Federico di Prussia, segue criteri di assoluta, implacabile, presunta razionalità. Non comprendere che Barry anticipa di cinquant’anni la carriera del grande Corso, con tutto il carico di amarezze che l’uomo riceve dalla Storia, come, per altro, negli altri film dello scomparso regista, errore tollerabile per un giovane o per lo spettatore sprovveduto, costituisce un grave incidente di percorso per qualsiasi critico di mestiere: eppure non saranno pochi gli specialisti che parleranno a proposito del film più amato da Kubrick, addirittura di “morte del cinema”.
Agli inizi degli anni ‘80 Kubrick si cimenta con l’horror e gira “Shining”, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, con protagonista Jack Nicholson. Film spietato sulla famiglia americana. Crudele, visionario, terrificante.
Nel 1987 dirige il suo terzo e ultimo film sulla guerra, questa volta sul Vietnam, “Full Metal Jacket”, tratto dal romanzo “Nato per uccidere (The Short-Timers)” di Gustav Hasford, ex marine e corrispondente di guerra. Il titolo si riferisce alla guaina in rame dei proiettili incamiciati. 1967 – Carolina del Sud, campo di addestramento dei Marines di Parris Island. Sergente Hartman, durissimo e violento, deve trasformare le reclute in strumenti di morte. Poi andranno in Vietnam. Joker, Cow-boy, Palla di Lardo, Biancaneve i nuovi nomi ignobili è volutamente offendivi dei ragazzi. Tragedia inevitabile. Il vessato e umiliato Palla di Lardo uccide Hartman.
Vietnam, gennaio 68. Offensiva del Tet. Il brillante Joker corrispondente di guerra. Cecchino vietcong (una ragazza), orrore indicibile della guerra, vite spezzate. Joker, per pietà, uccide la ragazza e pone fine alle sue sofferenze. È la sua prima vittima. Lugubre finale al suono della marcia di Topolino.
Vietnam ricostruito nei sobborghi londinesi. Hartman vero istruttore Marines (partecipa anche ad Apocalypse Now). Doppiato da Eros Pagni nell’edizione italiana con risultati strabilianti.
Guerra, chiodo fisso di Kubrick. Paura dell’ignoto, violenza delirante, terrore dell’altro, metamorfosi continua. Critica antimilitarista serrata, nemico invisibile, partita a scacchi, ambizioni ridicole. La chiave è, come negli altri film del regista, la riflessione sulla natura umana. Vietnam diviene un conflitto interiore. Tutto scandito da musiche distoniche rispetto alle scene. Così come sono distonici l’elmetto di Joker con la scritta “born to kill” e la spilla con il simbolo della pace appuntata sulla divisa. Non c’è più il coraggio eroico alla John Wayne, tutto diviene una mascherata grottesca. Restano la paura della morte, la violenza insensata, il desiderio di tornare bambini innocenti che guardano il mondo da una prospettiva migliore. Film sulla perdita di identità, più vicino ad Apocalypse Now che al Cacciatore. Il succo del film
“Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo… certo, vivo in un mondo di merda, questo sì, ma sono vivo… e non ho più paura” (Soldato Joker mentre torna a casa).
Poi vorrebbe girare un film sulla Shoah ma l’uscita di Schindler’s list di Spielberg lo solleva da un progetto che per lui stava diventando un incubo.
L’ultimo film di Kubrick è del 1999,“Eyes Wide Shut“, tratto dal romanzo “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler. Coppia alto borghese felice e appagata. Bill medico, Alice gallerista. Festa prenatalizia. Alice corteggiata da maturo ungherese, Bill da avvenenti ragazze. Il giovane medico trova il tempo di salvare una ragazza in overdose. Sera dopo discussione aspra su fedeltà e fantasie sessuali reciproche. Bill scosso, vaga per una New York notturna e, malgrado le occasioni, resta fedele. Poi l’incontro chiave: Nick Nightingale, pianista amico di università e rivisto al party prenatalizio di Ziegler. Strana e sontuosa festa in un castello, Fidelio, maschere, officianti stregoneschi, orge, musica demoniaca. Bill in pericolo, salvato da una misteriosa ragazza che offre la propria vita (già precedentemente salvata dal medico) in cambio. Ritorno a casa. Alice in lacrime dopo spaventoso incubo. Morte della misteriosa salvatrice. Pianto salvifico e riflessioni su realtà e sogni.
Secondo Kubrick il racconto di Schnitzler “Esplora l’ambivalenza sessuale di un matrimonio felice e cerca di equiparare l’importanza dei sogni e degli ipotetici rapporti sessuali con la realtà”. Già dai tempi di Arancia meccanica il regista voleva lavorare su Traumnovelle ma i progetti faraonici su Napoleone, centro della sua vita, lo distolsero. Finalmente nel 96 inizia i lavori con la coppia più bella del mondo. Non finirà il montaggio. Discusso, controverso, non finito, complicato, giocato con lentezza esasperante su realtà e finzione. Da Vienna anni venti a New York anni novanta. Viaggio tra prostitute minorenni, riti orgiastici, presunte infedeltà di coppia, ritorno alla realtà…
Alice: Bill, c’è una cosa importante che dobbiamo fare il prima possibile.
Bill: Cosa?
Alice: Scopare.
Film giocato sul doppio, sul codice binario, sonno-veglia, nella consapevolezza che non vi è molta differenza tra piano onirico e piano reale. Atto sessuale di coppia come soluzione dell’enigma del rapporto tra infedeltà reale e immaginaria. Il romanzo in realtà ha due finali e Albertine, nel secondo, lascia il marito. Riferimenti biografici sulla vita della coppia Schnitzler, Freud protagonista assoluto. Schnitzler “Doppelgänger” di Sigmund Freud che deve sopportare l’infedeltà di Olga, amante del compositore Wilhelm Gross. Interpretazione dei sogni freudiana è la chiave di lettura della novella. Albertine racconta un sogno, Fridolin lo mette in atto. Limbo semireale, medioconscio, intreccio da romanzo giallo, sacrificio della vestale, vendetta trasversale. In realtà il tutto è assai doloroso. La coppia più bella del mondo dopo il film si spacca realmente come la coppia Schnitzler.
La prassi maniacale di Kubrick in questo film diviene ossessione, lentezza di lavoro esasperante (Keitel e Malvobitch abbandonano per spossatezza), impegno mistico, esercizio durissimo sul tema centrale del regista: realtà-finzione di tipo sessuale. Il sesso è la cosa più importante, seria e misteriosa, sulla quale riflettere e sondarne gli anfratti nascosti. Giocato tutto sul doppio (ricco-povero, maschio-femmina, adulto-bambino, giovane-vecchio, realtà-sogno, sesso-potere, leggerezza-pesantezza, vita-morte). Un film difficile. Il più amato dal regista, il meno amato dal pubblico, il più discusso dalla critica. Ultimo figlio di tredici fenomeni… il più amato dal padre, forse perché il più gracile.
Kubrick muore nel sonno, stroncato da un infarto, nella sua casa di campagna il 7 marzo 1999.
“La gente può fraintendere quasi tutto in modo da farlo coincidere con le opinioni che già si è formata. Prende quello in cui crede già, e mi chiedo quante persone abbiano cambiato opinione in seguito al contatto con un’opera d’arte.”
(Stanley Kubrick)
Ci manchi Stanley!
J.V.