L’8 SETTEMBRE DEL ‘43 RE IN FUGA, RESA NEGATA. POI DITE CHE NON SIAMO UN PAESE RIDICOLO?
L’8 SETTEMBRE DEL ‘43
RE IN FUGA, RESA NEGATA
POI DITE CHE NON SIAMO UN PAESE RIDICOLO?
La decisione di annunciare l’armistizio fu una barzelletta: per gli italiani sarebbe dovuto accadere il 12 settembre. I servizi segreti non ne sapevano nulla. Badoglio tergiversò. E così, stizzito, lo rivelò Eisenhower con 4 giorni di anticipo. Sua maestà fece arrestare il duce e fuggì
Non è un caso se a quasi ottant’anni dal giorno della vergogna e nonostante una bibliografia folta, spesso densa e a volte anche narrativamente molto brillante come nel caso dell’esaustivo Settembre 1943 di Marco Patricelli, il quadro definitivo dell’8 settembre 1943 resta un film, Tutti a casa di Dino Risi, uno dei massimi capolavori della commedia all’italiana. Perché nel disastro dell’8 settembre e della sua gestazione nelle settimane tra la caduta del fascismo, il 25 luglio, e la fuga ingloriosa del re e del maresciallo Badoglio all’alba del 9 settembre, compaiono tutti gli elementi che il cinema di Monicelli, Risi e Comencini avrebbe poi impietosamente bersagliato: la bassezza, l’opportunismo, la pavidità, lo scaricabarile, la prevalenza dell’interesse privato dei potenti su qualsiasi altra considerazione, il tradimento, la doppiezza, l’inettitudine. Ci sono tutti ma spogliati del velo di comicità di cui li avrebbe poi rivestiti la commedia all’italiana ed esposti invece in tutta la loro tragica realtà.
Come in film satirico gli alleati tedeschi scoprono che l’Italia si è arresa perché un maresciallo, contravvenendo ai regolamenti, si è sintonizzato sulla radio degli Alleati e ha trovato la notizia. Messo al corrente il feldmaresciallo Kesselring sul momento non ci crede: non sono passate 24 ore da quando il maresciallo Badoglio, succeduto a Mussolini come capo del governo il 25 luglio, gli aveva garantito “fedeltà all’Asse” con tanto di parola d’onore. Specificando che trattandosi di uno dei comandanti più anziani d’Europa la sua parola aveva un peso in più.
L’armistizio nella sua versione “corta” alla quale sarebbe poi seguita quella dettagliata e “lunga”, era stato firmato 5 giorni prima a Cassibile, in Sicilia, ma era stato tenuto segreto per evitare la reazione immediata dei tedeschi. Gli Alleati sarebbero dovuti sbarcare a Salerno, come poi effettivamente avvenne il 9 settembre, e inviare i paracadutisti a Roma, come invece non avvenne perché gli italiani ammisero di non essere in grado di garantire la difesa della capitale come si erano impegnati a fare. In coincidenza con le due operazioni, dette Giant 1 e 2, si sarebbe rivelata la resa italiana. Ma a tutt’oggi è impossibile dire con certezza chi fosse stato messo a parte del segreto e dunque su chi ricada la responsabilità, anzi la colpa, di non aver fatto niente per evitare la rotta caotica e garantire la difesa da un intervento della Germania che tutti sapevano essere inevitabile. Nelle inchieste del dopoguerra i generali negarono di averne mai saputo niente anche se la storica Elena Aga Rossi, nel suo Una nazione allo sbando, ha dimostrato il contrario. I cannoni ancora tuonavano e già era iniziato il rimpallo di responsabilità.
Anche la decisione di annunciare l’armistizio l’8 settembre sembra uscita da un film con Alberto Sordi. Gli italiani si erano convinti che il giorno X fosse il 12 settembre. Non che glielo avesse detto nessuno ma nei colloqui che avevano portato all’armistizio gli Alleati avevano alluso a un paio di settimane necessarie per lo sbarco, l’operazione Giant 1. Gli italiani si erano fatti due conti sul calendario e avevano deciso che la data fissata da Eisenhower, comandante delle truppe alleate, era il 12 settembre. La notte del 7 settembre due inviati di Eisenhower erano arrivati in gran segreto a Roma per verificare a che punto fosse la difesa predisposta per la capitale e avvertire che lo sbarco era deciso per il 9 settembre.
Gli ufficiali che incontrarono caddero dalle nuvole. Portarono gli americani dal generale Carboni, direttore del servizio segreto militare, che rimase a sua volta sbigottito: l’operazione gli sembrava “incerta e avventata”. Toccò svegliare alle 2 di notte Badoglio, che si coricava sempre alle 22. Il maresciallo, in vestaglia, provò a tergiversare, chiese di rinviare di quattro giorni, anche se in quei quattro giorni nulla sarebbe potuto cambiare: confessò che la difesa di Roma era impossibile, tanto che l’operazione Giant 2 fu sacrificata. Eisenhower perse la pazienza, minacciò l’Italia di conseguenze gravissime, alla fine bruciò i ponti e annunciò di persona, dai microfoni di Radio Algeri, la resa incondizionata dell’Italia. La conferma di Badoglio arrivò solo un’ora più tardi ma ci fu anche chi propose seriamente di smentire Eisenhower, negare l’armistizio e proclamare fedeltà alla Germania per guadagnare così alcuni giorni in più prima di ufficializzare la resa.
Un piano di difesa italiana in realtà c’era, l’OP 44. Non scattò mai. Nessuno ordinò di procedere. Il generale Ambrosio, capo di Stato maggiore, aspettava che firmasse Badoglio, provò anche a cercare il maresciallo, sia pur con poca convinzione, ma senza rintracciarlo. Badoglio nel vortice dello scaricabarile del dopoguerra giurò che nessuno gli aveva mai chiesto niente, poi specificò che la responsabilità non era comunque sua. A dare l’ordine sarebbe dovuto essere il capo delle forze armate, cioè il piccolo re che invece in quelle ore si preparava a fuggire precipitosamente da Roma, con lo stesso Badoglio, diretto a Ortona dove il convoglio reale si imbarcò per Brindisi. La nave era piena di militari e notabili in cerca di salvezza. Molti però rimasero delusi. La nave non attraccò. Sulla lancia regale, pur strapiena, trovarono posti in pochi. Gli altri tornarono mesti a Chieti e si diedero alla macchia. L’esercito fu abbandonato a se stesso, completamente allo sbando. A difendere Roma, quando il 10 settembre i tedeschi lanciarono l’attacco, furono solo reparti autonomi e civili armati tra cui molte donne. Ci rimisero la pelle 1167 soldati e 120 civili.
In fondo già nel primo atto, il colpo di Stato attuato dal re sfruttando il voto contro Mussolini del Gran Consiglio, era inscritto molto del prosieguo. Vittorio Emanuele strinse caldamente la mano del capo del governo appena deposto, si dichiarò anzi “l’unico amico” dell’ex duce. Pochi minuti dopo, sulla porta di Villa Savoia, lo fece arrestare. Il consiglio di procedere così veniva da Carmine Senise, capo della polizia dal 22 novembre 1940, sostituito da Mussolini il 14 aprile 1943 perché la repressione degli scioperi di marzo era apparsa al duce fiacca. Il golpe del piccolo re lo aveva in larga misura organizzato lui e sarebbe infatti tornato al comando della polizia il giorno dopo l’arresto di Mussolini. A differenza di quasi tutti gli altri, però, Senise non avrebbe abbandonato Roma e sarebbe finito a Dachau per due anni.
Hitler, fosse stato per lui, avrebbe agito subito e con l’abituale ferocia contro i traditori. Nelle sue Memorie Albert Speer, allora il gerarca più vicino al Fuhrer, ricorda l’ira e l’ “angoscia” di Hitler per “l’amico disperso”. Il colonnello Dollmann, l’italianista delle SS, lo convinse a soprassedere dal momento che la sostituzione del capo del governo rientrava nei diritti del sovrano d’Italia. Ma era solo un rinvio: l’operazione Alarico messa a punto dal Reich già da maggio, cioè l’occupazione dell’Italia settentrionale, fu avviata operativamente e nemmeno troppo discretamente già il 26 luglio. Per tutto agosto militari tedeschi continuarono ad affluire in Italia in attesa di entrare in azione dopo la prevista resa degli alleati. Nessuno li fermò. Badoglio e gli alti ufficiali avevano paura che, se lo avessero fatto, i tedeschi avrebbero scoperto il loro doppio gioco e li avrebbero fucilati.
Nella sgangherata corsa verso Ortona, all’alba del 9 settembre, il convoglio di auto con il re e Badoglio sfilò a un passo dal Gran Sasso dove dal 28 agosto, a Campo Imperatore, era prigioniero Mussolini, portato in un primo momento a Ponza, poi alla Maddalena, infine spostato sul Gran Sasso in vista proprio del previsto intervento dei tedeschi per liberarlo. Il prigioniero era prezioso in quanto merce di scambio con gli alleati, ai quali era stata promessa la sua consegna. Il tempo per prenderlo in carico ci sarebbe stato ma né il re né Badoglio ci pensarono per niente e il 12 settembre scattò l’Operazione Quercia, guidata dal generale Student, al quale la missione era stata affidata da Hitler in persona, e dal maggiore Mors, il vero “liberatore” di Mussolini. Gli 80 militari di stanza a Campo Imperatore avrebbero potuto difendersi, partendo da una postazione considerata “imprendibile”. Lo fecero solo due soldati di guardia alla base della funivia, alle pendici del monte, e finirono ammazzati, le uniche vittime della giornata. Mussolini, anche su spinta di Senise, fu consegnato senza colpo ferire, senza difesa, senza tentare uno spostamento che pure sarebbe stato possibile. Il merito della brillante operazione però lo scippò l’ufficiale delle SS Otto Skorzeny, il cui ruolo nell’operazione si era limitato al reperimento di informazioni.
In tutto e per tutto, sin nei particolari, l’8 settembre sembrerebbe una farsa, l’apoteosi della miseria delle classi dirigenti italiane portata all’eccesso. Se non fosse invece stata una tragedia da ogni punto di vista.
David Romoli, Il Riformista, giovedì 8 settembre 2022
“E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi”.
(Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza)
Il 3 settembre 1943 viene siglato segretamente l’armistizio di Cassibile tra il generale Castellano, incaricato da Badoglio, e il generale comandante americano Eisenhower, futuro presidente degli Stati Uniti.
Il giorno dopo la sua proclamazione, 8 settembre 1943, il re abbandona Roma e si rifugia a Brindisi.
In precedenza, il 25 luglio 1943, Mussolini era stato deposto dal Gran consiglio del Fascismo. Lo stesso giorno il re Vittorio Emanuele III aveva nominato capo del Governo il maresciallo Pietro Badoglio, ex capo di Stato maggiore: sarà lui ad autorizzare la resa.
L’armistizio viene reso pubblico 5 giorni dopo. La situazione militare è disastrosa. Dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 luglio, il governo italiano perde tempo prezioso nell’inutile tentativo di evitare una resa senza condizioni. L’ambiguità di Badoglio è manifesta nel suo proclama ai microfoni dell’Eiar:
“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”
Nessuno capisce che cosa si debba fare, quali sono gli ordini: non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi? L’ambiguo proclama lascia tutti, volutamente, nella confusione totale. Le prime vittime di questa ambiguità sono i soldati. In realtà Badoglio, con la sua consueta vigliaccheria spera che gli americani tolgano le castagne dal fuoco. Non andrà così.
Inoltre i vertici del Paese (il re, la regina, Badoglio e altri pezzi grossi dello Stato maggiore) all’alba del 9 settembre, appena giunge notizia dell’avanzata di truppe tedesche verso Roma, fuggono da Roma e vanno a Brindisi. Nessun provvedimento viene preso per difendere la capitale. L’esercito, lasciato senza ordini, in molti casi si dissolve. La reazione tedesca non si fa attendere. Il comando supremo delle forze armate del Reich mette in atto il Piano Achse (Asse) già pronto da tempo perché i vertici tedeschi si aspettavano il tradimento italiano. Le forze tedesche, la notte tra l’8 e il 9, occupano aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme. I militari italiani vengono disarmati e si trovano davanti alla scelta di continuare a combattere per i tedeschi o essere internati in Germania come prigionieri di guerra. Chi si oppone viene fucilato immediatamente. La Divisione Acqui sull’isola di Cefalonia viene annientata.
I civili sono abbandonati al loro destino. I negozi sono vuoti ed esiste soltanto la borsa nera. Tutti prendono coscienza del fatto che, non soltanto la guerra non è finita, ma si trasforma in guerra civile.
Mussolini, il 23 settembre 1943, proclama la Repubblica di Salò, mentre i partigiani iniziano la guerra di liberazione. Il Comitato di Liberazione Nazionale viene fondato a Roma il 9 settembre 1943, mentre lo Stato italiano si dissolve e con esso la credibilità dei suoi vertici istituzionali. Il giurista Salvatore Satta, nel suo libro De profundis del 1948, definisce l’8 settembre “morte della patria”. Ernesto Galli della Loggia e Renzo De Felice negli anni novanta riprendono questo triste tema sostenendo che il sentimento nazionale italiano creato dal Risorgimento muore e non rinasce più dopo l’8 settembre. Galli della Loggia in “La morte della patria” sostiene che neppure la Resistenza ha potuto creare un nuovo sentimento nazionale dal momento che essa era divisa fra più “anime”, alcune delle quali di sentimenti internazionalisti, se non dichiaratamente contrari agli interessi nazionali. Galli Della Loggia si riferisce alla posizione del PCI in merito alle rivendicazioni jugoslave in Venezia Giulia. Claudio Pavone (Una guerra civile) e Nicola Tranfaglia (L’Italia repubblicana e l’eredità del Fascismo)rivalutano in saggi magistrali il ruolo della Resistenza.
J.V.