La Monaca di Monza

La monaca di Monza.

La Signora di Monza

La Monaca di Monza

Una vittima della prepotenza e della malvagità descritta magistralmente da Manzoni. “I promessi sposi”, un forziere colmo di saggezza, intelligenza, finissima analisi dei tipi umani. Da leggere, rileggere e poi leggere ancora…
Oggi la prima parte della triste storia della povera “sciagurata” Signora.

“Era essa l’ultima figliuola del principe ***, un gran gentiluomo milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della città. Ma il concetto indefinito ch’egli aveva del suo titolo gli faceva parere le sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne il decoro; e tutte le sue cure erano rivolte a conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli egli s’avesse non appare chiaramente dalla storia; si rileva soltanto ch’egli aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè dei figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nello stesso modo. La nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi s’ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza. Quando ella comparve, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa di alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si posero fra le mani; poi immagini vestite da monaca, accompagnando il dono coll’ammonizione di tenerne ben conto, come di cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: “bello eh?„ Quando il principe o la principessa o il principino, che solo dei maschi veniva allevato in casa, volevano lodare l’ aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovassero modo d’esprimer bene la loro idea, se non colle parole: “che madre badessa!„ Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Ella era un’idea sottintesa e toccata incidentemente in ogni discorso, che risguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina si lasciava andare a qualche atto un po’ tracotante e imperioso, al che la sua indole la portava assai facilmente, “tu sei una ragazzina„, le si diceva: “questi modi non ti si confanno: quando sarai la madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.„ Qualche altra volta il principe, riprendendola di certe maniere troppo libere e famigliari, alle quali pure ella trascorreva assai volentieri, “ehi! ehi!„ le diceva: “non son vezzi da una tua pari: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti si conviene, impara fin d’ora a star più in contegno: ricordati che tu devi essere in ogni cosa in ogni cosa la prima del monastero: perchè il sangue si porta perchè il sangue si porta tutto dove si va.„
Tutte le parole di questo genere inducevano nel cervello della fanciullina l’idea implicita ch’ella aveva ad esser monaca: ma quelle che venivano dalla bocca del padre, facevano più effetto di tutte le altre insieme. Le maniere del principe erano abitualmente quelle d’un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspirava una immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando , che imprimeva il sentimento di una necessità fatale.
A sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo di leggieri asserire che egli fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, egli vi godeva d’ una grandissima autorità; e pensò che ivi meglio che altrove la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Nè s’ingannava: la badessa d’allora, e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come suol dirsi, la mestola in mano, trovandosi avvolte in certe gare con un altro monastero, e con qualche famiglia del paese, furono molto liete d’acquistare un tanto appoggio; ricevettero con grande riconoscenza l’onore che veniva loro compartito, e corrisposero pienamente alle intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni del resto assai consonanti al loro interesse. Gertrude appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto alla mensa, nel dormitorio ; la sua condotta proposta alle altre per esemplare; dolci e carezze senza fine, e condito con quella famigliarità un po’ riverente, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che veggiono trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a trarre la poverina nel laccio: molte ve ne aveva di semplici ed aliene da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sagrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non si accorgevano bene di tutti quei maneggi, parte non discernevano quanto vi fosse di reo, parte si astenevano dal farvi sopra esame, parte tacevano per non fare scandali inutili. Qualcuna anche, ricordandosi d’ essere stata con simili arti condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compatimento della povera innocentina, e lo sfogava col farle carezze tenere e malinconiche sotto le quali ella ora ben lunge dal sospettare che ci fosse mistero: e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma tra le sue compagne di educazione ve n’ erano alcune che sapevano d’essere destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. Alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde che può somministrare il primato in un monastero, con- trapponevano elle le immagini varie e luccicanti di sposo, di conviti, di veglie, di ville, di tornei, di corteggi, di abiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, collocato davanti ad un’arnia. I parenti e le educatrici avevano coltivata e cresciuta in lei la vanità naturale, per farle parer buono il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più affini ad essa, si gettò ben tosto in quelle con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva ella che, al far dei conti, nessuno le poteva porre il velo in capo senza il suo assenso, che anche ella poteva torre uno sposo, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che lo avesse voluto; che lo vorrebbe, che lo voleva: e lo voleva in fatti. L’ idea della necessità del suo consenso, idea che fino allora era stata come inavvertita e rannicchiata in un angolo della sua mente, vi si svolse allora e si manifestò con tutta la sua importanza. Ella la chiamava ad ogni tratto in soccorso, per godersi più tranquillamente le immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e a questa idea l’animo della figliuola era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, che erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che da principio aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava; talvolta l’odio si esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta la conformità delle inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere una apparente e transitoria intrinsichezza. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale, e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire alle altre quella sua superiorità; talvolta non potendo più tollerare la solitudine dei suoi timori e dei suoi desiderii, andava raumiliata in cerca di quelle, quasi ad implorare benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciuole con sè e con altrui, aveva ella varcata la puerizia, e s’inoltrava in quella età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte le idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge ad un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e di affettuoso che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle sue fantasie. Si era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che ella poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; quivi dava comandi, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l’aveva ricevuta, non proscriveva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre. Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la renitenza alle insinuazioni dei suoi maggiori nella scelta dello stato, fossero una colpa, e prometteva in cuor suo di espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro. Era legge che una giovane non potesse venire accettata monaca se prima non era stata esaminata da un ecclesiastico chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro a ciò deputato, affinchè constasse ch’ella vi si conduceva di sua libera elezione: e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che ella avesse con una supplica in iscritto esposto a quel vicario il suo desiderio. Quelle monache che avevano pigliato il tristo incarico di far che Gertrude si obbligasse per sempre colla minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero uno dei momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e soscrivere una tale supplica. E a fine di indurla più facilmente a ciò, non mancarono di dirle e di ripeterle ciò che era vero, che quella finalmente era una mera formalità, la quale non poteva avere efficacia se non da altri atti posteriori che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla scritta. Si pentiva poi di quei pentimenti, passando così i giorni e i mesi in una incessatite vicenda di voleri e disvoleri. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel suo fatto, ora per timore di esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di manifestare un marrone. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo e di accattar consiglio e coraggio. V’era un’altra legge, che a quell’esame della vocazione una giovane non fosse ricevuta se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. L’anno dall’invio della supplica era già quasi trascorso, e Gertrude era stata avvertita che fra poco ella verrebbe tolta dal monastero e condotta nella casa paterna per istarvi quel mese, e fare tutti i passi necessari al compimento dell’opera ch’ella aveva di fatto incominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma tali non erano più i conti della giovane: invece di fare gli altri passi, ella pensava al modo di tirare indietro il primo. In tali strette si risolvè d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca e pronta sempre a dar consigli vigorosi. Questa suggerì a Gertrude d’informare per lettera il padre, come ella aveva mutato pensiero; giacché non le bastava l’animo di cantargli a suo tempo sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo son rari assai, la consigliera fece pagar questo a Gertrude con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata fra tre o quattro confidenti, scritta di soppiatto, e fatta ricapitare per via di artifizi molto studiati. Gertrude stava con grande ansietà aspettando una risposta che non venne mai. Se non che alcuni giorni dopo, la badessa, tiratala in disparte, con un contegno di reticenza, di disgusto e di compassione, le toccò un motto oscuro d’una gran collera del principe, e d’una scappata ch’ella doveva aver fatta, lasciandole però intendere che portandosi bene ella poteva sperare che tutto si dimenticherehbe. La giovinetta intese e non osò chiedere più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato.

Suor_Virginia_Maria_de_Leyva

Quantunque Gertrude sapesse ch’ella andava ad un combattimento, pure l’uscire del monastero, l’oltrepassar quelle mura nelle quali era stata otto anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il rivedere la città, la casa, furono per lei sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. Quanto al combattimento, ella, colla direzione di quelle confidenti, aveva già pigliate le sue misure, e fatto, come ora si direbbe, il suo piano. — O mi vorranno far violenza, pensava ella, e io terrò duro; sarò umile, rispettosa, ma negherò: non si tratta che di non proferire un altro sì; e non lo proferirò. Ovvero mi prenderanno colle buone, ed io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro che di non essere sagrificata. Ma, come accade sovente di simili previdenze, non si avverò nè l’uno nè l’altro supposto. I giorni scorrevano senza che il padre nè altri le parlasse della supplica, nè della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna nè con vezzi nè con minacce. I parenti erano serii, tristi, burberi con lei, senza mai articolarne il perchè. Si capiva solamente che la risguardavano come una rea, come una indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto era duopo per farle sentire la sua soggezione. Di rado e solo a certe ore stabilite era ella ammessa alla compagnia dei parenti e del primogenito. Nei colloquii di questi tre sembrava regnare una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più dolorosa la proscrizione di Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; le parole che ella metteva timidamente innanzi, quando non avessero un oggetto di evidente necessità, o cadevano inavvertite, o venivano corrisposte con uno sguardo, distratto, o con uno sprezzante, o con un severo. Che se ella, non potendo più soffrire una così amara ed umiliante distinzione, insisteva, e tentava di addomesticarsi, se implorava un po’ di amore, si udiva tosto gittar qualche motto indiretto ma chiaro sulla elezione dello stato; le si faceva copertamente intendere che v’era un mezzo di riconquistare l’affetto della famiglia. Allora, ella che non lo avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da per sé al suo posto di scomunicata; e vi rimaneva per soprappiù con una certa apparenza del torto. Tali sensazioni di oggetti presenti urtavano dolorosamente con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata e s’occupava tuttavia nel segreto della sua mente. Aveva ella sperato che nella splendida e frequentata casa paterna avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò al tutto ingannata. La clausura era stretta e intera in casa come nel monastero; di uscire a diporto non si parlava nè pure; e una tribuna che dalla casa guardava in una chiesa contigua toglieva anche l’unica necessità che vi sarebbe stata di metter piede nella via. La compagnia era più trista, più scarsa, meno svariata che nel monastero. Ad ogni annunzio di una visita, Gertrude doveva salire a chiudersi con alcune vecchie donne di servigio: quivi anche pranzava ogni volta che vi fosse convito. La famiglia dei serventi si conformava nelle maniere e nei discorsi per esempio e alle intenzioni della famiglia padrona: e Gertrude, che, per sua inclinazione avrebbe voluto trattarli con una dimestichezza signorile e incomposta, e che nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione di benevolenza alla pari, e scendeva a mendicarne, era poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva ancora veduto di più simigliante o di più prossimo a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, e al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoperse non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e una inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ad ogni momento, e non lasciar veder altrui. Le furono tenuti gli occhi addosso più che mai: che è e che non è, un bel mattino fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira la carta venne nelle mani della cameriera, e da queste nelle mani del principe. Il terrore di Gertrude al calpestio dei passi di lui non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, ed ella si sentiva colpevole. Ma quando lo vide apparire, con quel sopracciglio, con quella carta in mano, ella avrebbe voluto essere cento braccia sotterra, non che in un chiostro. Le parole non furono molte, ma terribili: il castigo intimato al momento non fu che un rinchiudimento in quella stanza sotto la guardia della cameriera che aveva fatta la scoperta ; ma questo non era che un saggio, che un provvedimento istantaneo; si lasciava vedere nell’aria un altro castigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.
Il paggio fu tosto sfrattato, come era dovere; e gli fu minacciato qualche cosa pur di terribile se in nessun tempo avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quella avventura un ricordo che togliesse al ragazzaccio ogni tentazione di vantarsene. Un pretesto qualunque per onestare la espulsione d’un paggio non era difficile da trovarsi: quanto alla figlia, si disse ch’ella era incomodata.
Si rimase ella dunque col battimento, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna ch’ella odiava come il testimonio della sua colpa e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza sapere per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso.

peste manzoni

Alessandro Manzoni

Il primo confuso tumulto di quei sentimenti si acquetò a poco a poco; ma ognun d’essi, tornando alla sua volta nell’animo, vi s’ingrandiva, e si fermava a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai essere quella punizione minacciata in nube? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente ed inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile era di venir ricondotta al monastero di Monza , di ricomparirvi non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fin quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale contingenza, tutta piena di dolori, aveva per lei di più doloroso era forse l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole, di quel foglio sciaurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui erano destinate in risposta; fantasticava che avessero potuto cader sotto gli occhi pur della madre o del fratello, o di chi sa altri: e al paragone, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui che era stato la prima origine di tutto lo scandalo non lasciava di venire anch’essa sovente ad infestare la povera rinchiusa: e non è da dire che strana comparsa facesse quel fantasma tra quegli altri così dissimili da lui, serii, freddi, minacciosi. Ma perciò appunto che non poteva separarlo da essi, nè tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che tosto non le si affacciassero i dolori presenti che ne erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarvi più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Nè più a lungo o più volentieri si fermava in quelle liete e splendide fantasie d’una volta: erano troppo opposte alle circostanze reali, ad ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando ella si risolvesse di entrarvi per sempre. Una tale risoluzione (ella non poteva dubitarne) avrebbe racconciato ogni cosa, saldato ogni debito, e cangiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano è vero i pensieri di tutta una età: ma i tempi erano mutati; e nel fondo in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere, in certi momenti la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, obbedita, le pareva uno zucchero. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivano pure per intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, ed una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato ed irritato dai modi della carceriera, la quale (spesso, a dir vero, provocata da lei) si vendicava ora col farle paura di quel minacciato castigo, ora col farle vergogna del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tuono di protezione più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, la voglia che Gertrude provava di uscire dalle unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questa voglia abituale diveniva tanto viva e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarla.
In capo di quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina Gertrude stomacata e invelenita oltre modo per uno di quei tratti della sua guardiana, si andò a cacciare in un angolo della stanza, e quivi col volto nascosto nelle palme, si stette qualche tempo a divorare la sua rabbia. Senti allora un bisogno prepotente di vedere altre facce, di udire altre parole, di esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le sovvenne che da lei dipendeva di trovare in loro degli amici, e provò una subita gioia. Dietro questa una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un egual desiderio di espiarlo. Non già che la sua volontà fosse fermata a quel tale proponimento, ma giammai non vi s’era piegata così vicino. Si levò di quivi, andò ad un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, implorando il perdono e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.”

(Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. IX)

Lea massari

Massari/Monaca di Monza

Un personaggio manzoniano affascinante e commovente. Una vittima in un mondo che non ti lascia scelta e ti costringe ad una vita che non vuoi con atti scellerati. Compassione e comprensione per una vittima che diverrà involontariamente carnefice e pagherà, Lei sola, per tutti.
Affascinante Lea Massari nel meraviglioso sceneggiato di Bolchi.

J.V.

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