LA SOCIETÀ POSTINDUSTRIALE
LA SOCIETÀ POSTINDUSTRIALE
La società industriale del XX secolo associa produzione e protezione, questione economica e questione sociale, una sorta di solidarietà meccanica tra i suoi membri per proteggere la grande azienda dalla congiuntura. Il Capitalismo del XXI secolo organizza la distruzione di tutto ciò. La rivoluzione finanziaria degli anni Ottanta del secolo scorso ha trasformato i principi dell’organizzazione aziendale. I salariati subiscono i rischi e gli azionisti si mettono al riparo. Compaiono la società di servizi, la società dell’informazione, la New Economy. Diventa costoso produrre la prima unità del bene prodotto perché marxianamente la fonte di plusvalore non è nel lavoro compiuto per produrre la merce, ma in quello trascorso a concepirla. Diviene fondamentale la promozione del marchio. Nasce un nuovo stato industriale, frutto della mondializzazione dove aumenta in misura incolmabile la distanza tra reale e immaginario. Non esiste più la funzione simbolica. Internet permette una nuova organizzazione della produzione ed una nuova organizzazione del lavoro. Secondo Philippe Askenazy questi sono gli obiettivi che l’organizzazione del lavoro si attribuisce nell’epoca di Internet: “l’adattabilità alla domanda, la reattività e soprattutto l’ottimizzazione del processo produttivo, in particolare grazie all’utilizzazione di tutte le diverse competenze umane. Questi obiettivi si traducono in una sempre maggiore polivalenza dei salariati e in una delega delle responsabilità ai livelli gerarchici inferiori” (La croissance moderne, Paris, 2003). In qualche modo riprende il toyotismo giapponese degli anni Sessanta ma l’informatica permette un uso più radicale e un aumento delle diseguaglianze. Il lavoro non qualificato diviene sovrabbondante e la sua remunerazione diminuisce. Non esistono avanzamenti di carriera. Si resta smicards (salaire minimum interprofessionel de croissance) a vita.
Non esistono più tempi morti, il muda (spreco) giapponese viene eliminato. Tutto ciò è conseguenza dell’aumento di valore del lavoro. Poi si aggiungono la rivoluzione finanziaria e la nuova invenzione capitalistica: l’avvento di una fabbrica senza lavoratori. A questa violentissima ristrutturazione capitalistica fa da controcanto la nuova economia-mondo dove emergono Cina, India e ex blocco sovietico. Il commercio internazionale è ineguale e favorisce i paesi che sono già ricchi. Altro immenso problema è quello demografico. Abbiamo superato gli otto miliardi di umani sul pianeta. Infine la questione ambientale: una corsa contro il tempo.
Come si può facilmente intuire la divisione internazionale del lavoro, il commercio rapace e invasivo di alcuni paesi annunciano tremendi scenari di guerra. La crisi delle periferie fa tremare le grandi città occidentali e tutto il mondo privilegiato deve iniziare a porsi seri problemi su come gestire l’immigrazione senza scadere nelle trappole di pari stupidità ad excludendum o dentro tutti, entrambe formule tanto imbecilli quanto irrealistiche e demagogiche. La vecchia Europa è in profonda crisi e il disastro scolastico pubblico ne è il segnale più evidentemente.
Questi i temi sul tappeto per chi voglia seriamente una politica all’altezza dei tempi… o siamo di fronte alla fine della politica?
J.V.