L’INVASIONE RUSSA SPIEGATA DAL GENERALE BERTOLINI
L’INVASIONE RUSSA SPIEGATA DAL GENERALE BERTOLINI
Non è una guerra asimmetrica né una guerricciola per specialisti È una guerra vera e basta.
La Russia non raggiunge quella superiorità numerica di forze in campo che normalmente si ritiene necessaria per avere successo in un’operazione offensiva. Mosca è costretta a operare per “linee esterne”, coprendo grandi distanze per assicurarsi almeno la necessaria superiorità locale
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo qui di seguito uno stralcio del libro “Guerra e pace ai tempi di Putin. Genesi del conflitto ucraino e nuovi equilibri internazionali” scritto da Marco Bertolini e da Giuseppe Ghini, edito da Cantagalli.
Generale Marco Bertolini
Da un punto di vista puramente tecnico, le operazioni russe in Ucraina non si sono caratterizzate, fino al momento attuale, come un’invasione vera e propria. Questa considerazione, che si scontra decisamente con la tesi sostenuta unanimemente da quasi tutti i media e fatta entusiasticamente propria da tutti i commentatori politici, si basa su alcuni elementi inconfutabili.
Prima di tutto c’è da considerare che si tratta di una guerra simmetrica, completamente diversa dalle guerre asimmetriche alle quali ci ha abituato il passato recente quando gli eserciti occidentali si sono confrontati soprattutto con milizie e bande irregolari, i cosiddetti terroristi nel contesto della Global War On Terror dichiarata dopo l’11 settembre da George W. Bush. È in sostanza la guerra tra due eserciti moderni che utilizzano mezzi, dottrina e procedure convenzionali. Non vale, a questo proposito, l’esempio della seconda guerra del Golfo che, ancorché combattuta tra eserciti regolari, vedeva una tale differenza qualitativa e quantitativa in campo, e soprattutto nei cieli, da rendere intile la resistenza di Davde contro un Golia che controllava tutto. Questo primo aspetto è importante soprattutto per dare il giusto peso a quanti brandiscono le loro esperienze, per lo più frutto di letture o tutt’al più maturate in operazioni a bassa intensità, per sostenere
i propri convincimenti. Infatti, nella guerra in Ucraina valgono i principi della
guerra più classici, tra i quali quello della Massa e quello della Manovra sono preponderanti. Insomma, non è una guerricciola per “specialisti”, ma una guerra vera per soldati che infliggono e subiscono perdite, applicando una dottrina che cerca di mettere ordine nel triste e altrimenti caotico esplodere della violenza. Ciò premesso, merita un’osservazione l’entità delle forze messe in campo dalla Russia. Si tratta infatti di 160-180 mila uomini sparsi su un fronte di circa 1600- 1800 km dal confine con la Bielorussia a nord di Kiev a Mariupol, e altri 500 km circa da Mariupol a Mykolaïv. Tenendo conto dell’entità delle forze armate ucraine, dell’ordine dei 200 mila uomini, non si raggiunge quindi quella superiorità di tre a uno che normalmente si ritiene necessaria per avere successo in un’operazione offensiva. Questo dato grezzo e approssimativo, poco significativo su scala globale, trova conferma anche da un punto di vista strategico e tattico. Data la lunghezza e conformazione della linea di fronte attraverso la quale è avvenuta la penetrazione, infatti, i russi sono costretti ad operare per “linee esterne”, vale a dire coprendo grandi distanze per eventuali cambi di gravitazione e rischieramenti di truppe da una località all’altra, per assicurarsi almeno la necessaria superiorità locale. Al contrario, gli ucraini sono stati lasciati in possesso del centro del paese, dal quale sono in grado di spostarsi in ogni località nella quale fosse necessario, coprendo minime distanze per “linee interne” ed economizzando le forze. Teoricamente la Russia avrebbe potuto cercare di impedire questa situazione, portandosi in tempi rapidi al centro del Teatro, magari con una operazione avioportata in grande stile, o gravitando maggiormente sugli sforzi dalla Bielorussia verso sud e dalla Crimea verso nord, superando Kiev anche senza investirla direttamente. Ma, appunto, la teoria che si disegna sulla carta è diversa dalla realtà che si incontra sul terreno, e non tiene conto dei condizionamenti politici e sociali; per cui i russi hanno preferito contare su operazioni meno complesse e meno onerose, ma più sistematiche, concentrandosi invece sull’area compresa tra la Crimea e il Donbass.
Resta il fatto che i russi hanno un’abilità consolidata in operazioni a predominanza terrestre, come quelle alle quali assistiamo, un’esperienza che affonda le sue radici nel secondo conflitto mondiale, quando proprio le grandi distanze da percorrere furono uno degli elementi che portarono alla sconfitta dell’Asse. Insomma, si tratterebbe di un errore da matita blu se non trovasse una sua giustificazione proprio nell’evidente limitatezza degli
obiettivi previsti sin dall’inizio della manovra. Proprio questo elemento escluderebbe a priori la possibilità che nel suo disegno iniziale la Russia si
sia ripromessa una conquista dell’intera Ucraina, mentre rende più plausibile il raggiungimento di selezionati obiettivi territoriali, finalizzati al conseguimento di quello che in ambito USA, e quindi NATO, viene definito End State: il risultato finale nelle sue connotazioni militari e politiche. E se da un punto di vista politico è ragionevole prendere per buono – viste le forze in campo – quanto dichiarato da Putin all’inizio della campagna – Ucraina fuori dalla NATO, Donbass indipendente e Crimea russa –, da un punto di vista militare l’End State potrebbe essere rappresentato dalla rimozione delle forze ucraine che da anni fronteggiano le due repubbliche separatiste del Donbass e la Crimea, consolidando queste ultime con forze sufficienti a prevenire aggressioni, nonché una Ucraina che, pesantemente intaccata nelle sue potenzialità militari, sia costretta a rinunciare a un suo ingresso nella NATO (e, se possibile, nella UE), evitando così altre perdite territoriali. Se quindi i primi due obiettivi finali possono essere assicurati dalla sconfitta delle unità ucraine che si confrontano con le forze di Donec’k e Lugans’k e di Crimea, per la neutralità ucraina dovrebbe valere anche la minaccia di altri guadagni territoriali da parte russa lungo la costa a occidente della Crimea verso Odessa e nell’area della capitale Kiev.
Relativamente alla manovra, possiamo quindi sintetizzarla in un’operazione avvolgente che investe contemporaneamente, ma non uniformemente, metà dei confini settentrionali, tutti i confini orientali e tre quarti di quelli meridionali del paese. Non si tratta di una manovra uniforme, in linea con le considerazioni precedenti, essendo caratterizzata, almeno per ora, da uno sforzo principale con obiettivo Mariupol, il cui controllo assicurerebbe ai russi il collegamento terrestre della Crimea e del Donbass con la madrepatria russa. È qui, infatti, che si svolgono le operazioni più intense che si integrano con manovre di forte pressione a est su Chernihiv, Charkiv e Izyum creando così un cuscinetto che separa l’Ucraina dalla Russia. Da Izyum, poi, sarebbe possibile prendere alle spalle le unità ucraine che contendono il Donbass alle formazioni delle due repubbliche, portandone i confini ai limiti amministrativi delle province ucraine di Donec’k e Lugans’k.
Le operazioni nei confronti di Kiev e di Cherson- Mykolaïv, invece, potrebbero essere state “sforzi sussidiari” finalizzati a impegnare il nemico
in due località estremamente importanti, quindi a impedire un rinforzo delle difese a est e sud est, nonché a minacciare altri guadagni di territorio, per di più in aree di interesse vitale per l’Ucraina nel caso non desista dal voler entrare nella NATO. Confermerebbe questa ipotesi il sostanziale ritiro delle forze russe dalla direttrice di Kiev agli inizi di aprile, senza che la stessa abbia seriamente interessato la capitale, se non nella sua periferia.
Kiev, infatti, è stata raggiunta fin dai primi giorni da una componente corazzata e motorizzata espressa per lo più da una sola divisione che impiega contro la capitale un numero limitato di reggimenti, certamente insufficienti per procedere a un combattimento in un abitato complesso e grande come la capitale ucraina. Nella stessa parrebbe essere sempre presente il presidente Zelens’kyi, al quale non è stata inibita la possibilità di lanciare da lì i suoi appelli “all’Occidente”, mentre con missili ipersonici si colpivano con precisione millimetrica caserme, aerobasi e centri addestrativi nell’estremo ovest del paese, a poche decine di chilometri dalla Polonia. La capitale stessa pare non voler credere a un’offensiva in larga scala nei suoi confronti, vista l’assenza di imponenti opere di fortificazione, come quelle che ci si potrebbe aspettare in termini di abbattimenti di abitati per liberare i campi di tiro, di trincee anticarro, di ostacoli in cemento armato. L’azione russa si è espressa, almeno per ora, solo contro la periferia cittadina, incontrando un’efficace resistenza da parte delle unità ucraine, a conferma dell’insufficienza di quelle russe per ottenere risultati più definitivi. Tuttavia le unità russe sono sufficienti a impedire che un rischieramento a Mariupol o a Charkiv rinforzi oltre il dovuto le difese ucraine in quelle aree prioritarie.
A sud, la Crimea ha rappresentato la base di partenza di tre differenti sforzi: uno, principale, in direzione di Melitopol-Mariupol, e due sussidiari verso la centrale nucleare di Zaporižžja a nord e di Cherson-Mykolaïv a ovest in di- rezione di Odessa. A parte il primo di cui si è detto, gli altri due hanno la finalità di acquisire il controllo di una centrale necessaria al rifornimento energetico dell’Ucraina e al tempo stesso di prevenire una possibile minaccia al Donbass e alla Russia stessa, in caso di fuoriuscita di nubi radioattive. Lo spostamento delle masse d’aria è infatti prevalentemente da ovest verso est nel nostro emisfero, per cui un incidente in quella centrale, e in parte anche nel caso di Chernobyl, avrebbe un effetto devastante nel sud della Russia. Sostenere quindi che i russi l’abbiano conquistata, o addirittura bombardata, per minacciare con un incidente nucleare l’Ucraina non ha senso, a meno che la dirigenza russa non sia composta da pazzi e incapaci, cosa del tutto improbabile. Si è sostenuto al riguardo la tesi di missili contro la stessa, mostrando le immagini di quella che invece era, verosimilmente, una semplice granata illuminante19 che non ha provocato danni alla struttura, nella quale le maestranze sono state mantenute al loro posto anche dopo l’occupazione. Con questa puntata verso nord si sarebbe inoltre messa sotto controllo la rete idrica che dall’Ucraina porta acqua alla Crimea, risolvendo un problema non da poco per la popolazione della penisola. Quanto alla puntata verso ovest, in direzione di Odessa, ha consentito di occupare Cherson per poi essere fermata da una forte difesa dell’esercito ucraino a Mykolaïv. Anche in questo caso, si tratta di una puntata importante ma probabilmente senza la pretesa di essere risolutiva, almeno se paragonata a quella verso Mariupol. In particolare, questo potrebbe essere confermato anche dal continuo pendolamento di navi della flotta russa davanti alla costa di Odessa, che per ora paiono più attente a mantenere impegnate le difese costiere e le unità terrestri ucraine con la minaccia di uno sbarco. Quest’ultimo, poi, sarebbe senz’altro un’operazione decisamente complessa che imporrebbe l’impiego di forze notevoli, incompatibili con quelle che sembrano nelle disponibilità della formazione navale russa. Nulla vieta che in prospettiva i russi possano anche puntare ad essa per ricongiungersi territorialmente con la Transnistria russofona, ma ciò implicherebbe un notevole afflusso di forze per superare le resistenze di una città come Odessa, e fino a quando non sarà compiuto il controllo di Mariupol e del Donbass ciò non pare possibile. Se così fosse, la Transnistria potrebbe essere sacrificata o, tutt’al più, oggetto di trattative a parte dopo la fine delle ostilità. Odessa, per contro, potrebbe essere utilizzata come merce di scambio con l’Ucraina per assicurarle uno sboco al mare in caso di accordo, ripagandola della perdita di Mariupol e della rinuncia alla NATO.
A parte questa campagna terrestre, merita qualche riflessione anche quella aerea, passata un po’ in sordina fino al punto da sembrare secondaria. In effetti, così non è se è vero che all’inizio dell’operazione è stata proprio un’intensa e meticolosa campagna aerea a distruggere larghissima parte del potenziale aereo ucraino a terra, le sue difese aeree e i suoi aeroporti, oltre ai nodi del sistema di comando e controllo. Si tratterebbe di una campagna condotta anche con un largo uso di droni armati fin dalle prime ore.
Nella condotta delle operazioni principali, però, non si hanno notizie di operazioni aeree particolarmente significative, anche grazie alla sostanziale assenza di una forza aerea ucraina in volo da contrastare. Certamente sono stati effettuati interventi di supporto alle truppe a terra (quelle che in gergo NATO si definiscono CAS Close Air Support) e che si sono dimostrate importantissime in Afghanistan contro i talebani nel corso degli scontri con le unità di Isaf. Ma la terza dimensione pare essere stata soprattutto teatro di strike off-set, vale a dire di interventi da lunga distanza con missili di precisione, lanciati da terra, dal mare o dall’aria. Sono questi i missili che sono stati utilizzati soprattutto nell’ovest dell’Ucraina rispetto al meridiano di Kiev per colpire centri di addestramento tenuti da stranieri, aeroporti e caserme, fino a poche decine di chilometri dai confini con la Polonia. Con questi interventi i russi hanno anche dimostrato la credibilità dei loro missili ipersonici, praticamente non intercettabili e capaci, se necessario, di trasportare anche testate nucleari.
La richiesta pressante, da parte di Zelens’kyi, di una no-fly zone sui cieli ucraini nella quale la NATO interdica lo spazio ai voli russi, comunque, conferma che quella di una non presenza di aviazione russa nei cieli ucraini è solo una sensazione. Una sensazione forse indotta dall’assenza di un’estesa campagna di bombardamento nelle città, a differenza di quanto invece è avvenuto in altre precedenti operazioni belliche, come in Kosovo, Iraq e Libia, dove le notti erano illuminate a giorno dalle scie dei missili e degli aerei che bombardavano le città. La scelta di impiegare il supporto aereo principalmente per le CAS, quindi con azioni aderenti alle truppe di terra e con munizionamento esplodente di minore potenza, è stata certamente finalizzata a limitare i danni nelle città evitando escalation anche emotive nella stessa opinione pubblica russa, legata da un rapporto antico con l’Ucraina.
Ma la richiesta di una no-fly zone è anche finalizzata a provocare un intervento diretto della NATO, credo senza riflettere sul fatto che un’eventualità del genere, oltre a portare a un disastro nel nostro continente, comporterebbe la totale distruzione dell’Ucraina. Non pare assurdo ritenere che Zelens’kyi si senta incoraggiato in questa direzione dalle forti prese di posizione degli Stati Uniti – che all’altro capo dell’Atlantico si sentono meno esposti alle conseguenze di un’escalation nucleare –, ma anche dal credito che gli è stato riservato da molti paesi europei, quasi inebriati in un sogno di cupio dissolvi che lascia veramente interdetti.
Il punto di caduta possibile, e assolutamente non auspicabile, di questa prospettiva che rifiuta il negoziato potrebbe essere una paurosa “afghanizzazione” dell’Ucraina, invasa in larga parte del territorio da parte russa e alimentata dall’esterno con aiuti militari analoghi a quelli forniti ai mujāhidīn contro i russi negli anni ’80. Non ne gioverebbe il paese in questione e neppure l’Europa stessa, inclusa la Russia, invischiate in una guerra civile europea cronicizzata, certamente deleteria per tutto il continente.
Il Riformista, mercoledì 1 giugno 2022
Intervento esaustivo, chiaro e assai equilibrato. Sino a questo momento i migliori interventi che ho letto e ascoltato sono di militari italiani. Forse qualcuno dovrà iniziare a riflettere sul rischio di guerra totale.
J.V.