Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare. Capitolo 3
L’affermazione del nazismo
«Ed ecco, sempre in visione, un cavallo verdastro e chi lo cavalcava aveva nome Morte e gli Inferi lo accompagnavano: ad essi fu accordata la potestà sopra un terzo della terra per uccidere di spada, di fame e di morte e a mezzo delle belve della terra.»
(Apocalisse di San Giovanni, 6,8.)
3.1. Totalitarismo e totalitarismi
E’ l’opera di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, a far nascere, verso gli inizi degli anni cinquanta, il primo vero dibattito sulla nozione di totalitarismo. L’aggettivo “totalitario” era stato usato già in Italia, a metà degli anni venti – e dallo stesso Mussolini – per indicare, in senso positivo, le caratteristiche dello Stato fascista in contrapposizione a quelle dello Stato liberale, ma ora il termine acquisiva un significato nuovo e una valenza chiaramente negativa.
Hannah Arendt lega le dittature europee del periodo fra le due guerre mondiali al processo di modernizzazione ed alla nascita della società di massa. Industrializzazione e urbanizzazione, crescita demografica e aumento della disoccupazione, hanno distrutto gli antichi legami comunitari e i sistemi tradizionali di relazioni personali, il che produce nei singoli individui una generale crisi d’identità e un senso di smarrimento e di solitudine. La crescita numerica di questi sradicati favorisce l’affermazione di regimi autoritari, nei quali essi vedono una possibilità di protezione e di guida. Uno dei mezzi per dare certezze, unità e identità a questa massa informe è il mito della nazione forte e potente: un mito che i capi carismatici degli stati totalitari propongono con le tecniche dei regimi di guerra, nei quali la faticosa mediazione della democrazia parlamentare era stata sostituita dai provvedimenti d’emergenza, dalle procedure segrete, dalle decisioni affidate, senza controlli possibili, a cerchie ristrette di persone. Dalla fusione tra l’unico partito legale – il partito del Capo – che organizza le masse e lo Stato che amministra le risorse pubbliche nasce una comunità di tipo – si può ben dire – esoterico in cui i “diversi” (ossia quanti non si conformano ai comportamenti e alle certezze della massa) sono sempre nemici o, peggio, traditori.
Esistono comunque importanti precedenti all’analisi della Arendt: uno dei primi è l’opera, del 1941, di un altro esule della Germania nazista, Erich Fromm, Fuga dalla libertà. Anche Fromm rintracciava la genesi del fascismo nella psicologia collettiva e nella perdita di identità di clan e di ceto prodotta dalla modernizzazione; il totalitarismo si articola in modo da recuperare le identità di gruppo: rituali di massa, uniformi e organizzazioni paramilitari, stili di vita comuni, tutto ciò che in modo anonimo e meccanico possa rinsaldare una finta identità e un’autentica fuga dalla libertà. Un altro precedente è costituito dall’opera di Theodor W. Adorno, che attraverso l’esame di duemila questionari sottoposti a cittadini americani giunge alla definizione di una “personalità autoritaria” – così suona il titolo del suo studio – caratterizzata dalla opposizione di “noi” e “gli altri”, dal conformismo all’interno del “noi”, dall’aggressività, dalla xenofobia, dall’attitudine a proiettare nel mondo esterno l’idea di un complotto persecutorio ordito a nostro danno da forze potenti e oscure, e infine dall’antisemitismo. Le conclusioni di Adorno sono simili a quelle di Fromm e della Arendt: nelle società del Novecento le identità individuali, assai deboli, rappresentano la condizione normale, quindi vi è assoluto bisogno d’identità di gruppo ed è su questi bisogni che s’innesta l’azione organizzativo-propagandistica dei movimenti e dei regimi totalitari.
Il libro della Arendt è del 1951; cinque anni dopo viene pubblicata negli Stati Uniti l’opera di C. Friedrich e Z. Brzezinsky, Totalitarian Dictatorship and Autocracy che riassume in modo forse definitivo i tratti distintivi dello stato totalitario. Sostanzialmente ciò che accomuna regimi e movimenti per altri versi assai diversi tra loro come il fascismo italiano, il nazismo tedesco e lo stalinismo è la presenza in varie combinazioni dei seguenti elementi: un dittatore, un partito unico di massa, una polizia politica, un’ideologia assoluta, la concentrazione dei poteri nelle mani dello stato. Organizzativamente l’azione ideologica e terroristica si concretizza nel partito unico; la polizia segreta assicura un sistema di spionaggio diffuso tale che ciascuno si senta perennemente sorvegliato; la volontà del Capo, depositario dell’ideologia del partito, è legge.
3.2. L’ascesa del nazismo al potere
Dopo la prima guerra mondiale in molti paesi europei si rafforzarono le spinte reazionarie, basate sull’esasperato nazionalismo e sull’aspira-zione a realizzare una brutale politica di potenza. Esse sfociarono in esperienze di governo di tipo autoritario modellate sul fascismo italiano, il primo dei grandi regimi totalitari. Almeno all’inizio il fascismo italiano non era stato affatto antisemita: al contrario negli ambienti ebraici della penisola poteva contare su vaste e importanti simpatie. Ma in altri paesi che sarebbero stati soggetti alle nuove dittature gli ebrei erano per lo più considerati un corpo estraneo alla nazione e una minaccia per la sua sopravvivenza. Per il momento avevano ancora degli alleati: i governi erano ancora fedeli alla politica di tolleranza ed ostili alla discriminazione. I partiti di sinistra e di centro legati a un ideale di tolleranza erano forti in Inghilterra e in Francia. Anche in Germania i partiti di centro e il partito socialdemocratico professavano idee liberali e democratiche. Purtroppo, però, in Germania, i governi sostenuti dai partiti democratici erano deboli e la loro debolezza era insieme causa ed effetto della rapida diffusione nel popolo tedesco di sentimenti antisemiti. Negli anni Trenta, non solo in Germania, ma nei paesi dell’Europa centrale e orientale, dove si trovavano le grandi concentrazioni ebraiche, la situazione delle comunità si aggravò. A dispetto della parità di diritti civili, che era loro formalmente riconosciuta, gli ebrei soffrivano di una multiforme discriminazione, economica, sociale e culturale. Numerosi settori dell’economia erano preclusi agli ebrei. Gli studenti ebrei si videro imporre il numero chiuso e in Polonia, sia pure con qualche resistenza, venne introdotto a partire dal 1935 il sistema del “ghetto dei banchi”. Poi, rapidamente la discriminazione si mutò in persecuzione. Pogrom, saccheggi e omicidi si moltiplicarono in Polonia, in un’ondata che montava man mano che si estendeva ad ovest: prima ancora dell’inizio della seconda guerra mondiale, la comunità ebraica polacca era già sull’orlo del baratro. La Romania, dove viveva la terza più grande comunità ebraica dopo quella russa e quella polacca elaborò una legislazione razziale ispirata a quella nazista. I Paesi Baltici, l’Ungheria e l’Austria non furono da meno e nel 1938 anche l’Italia si allineò.
Ma il paese al centro di questa ondata di antisemitismo era la Germania dove il razzismo era diventato la politica ufficiale del governo quando, il 30 gennaio 1933, Hitler aveva assunto la carica di cancelliere. Nell’ideologia nazionalsocialista la questione ebraica aveva un ruolo fondamentale: Adolf Hitler nel suo libro-programma, Mein Kampf, edito la prima volta nel 1925, la presenta come il cuore della questione. Non si può certo dire che Hitler abbia taciuto ai tedeschi le sue intenzioni. I tedeschi, dunque, sapevano bene che cosa sarebbe accaduto e se votarono per Hitler vuol dire che i suoi sentimenti erano largamente condivisi.
Come è stato possibile che in Germania, un paese per tanti aspetti civilissimo, il nazismo abbia preso il potere? La ragione principale è la profonda crisi politica della repubblica di Weimar, in cui ebbe un ruolo preponderante la divisione tra i due grandi partiti della sinistra, quello socialdemocratico (SPD) e quello comunista (KPD). Un altro fattore che il partito nazionalsocialista seppe sfruttare a suo beneficio fu la crisi economica del 1929, in Germania più acuta che negli altri paesi europei. L’ascesa del partito nazionalsocialista (Nsdap, National-Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei) non si comprende se non in questa congiuntura. Piccolo partito fino alle elezioni del 1928 (2,6 % dei voti e 12 deputati), la Nsdap ottenne un enorme successo nelle elezioni del 1930, giungendo a quasi sei milioni e mezzo di voti (18,3 %) e 107 seggi, e diventando così il secondo partito della repubblica dopo quello socialdemocratico. Molte sono le ragioni del balzo in avanti: errori delle forze politiche rivali, in particolare la contrapposizione radicale tra comunisti e socialisti, conseguenza di un conflitto che aveva ragioni oggettive, infatti i due partiti erano diversi per composizione sociale poiché la socialdemocrazia organizzava e rappresentava la classe operaia specializzata delle grandi fabbriche, mentre i comunisti avevano sèguito principalmente fra i disoccupati; per questo motivo i due gruppi avevano esigenze ed interessi contrapposti. Inoltre mentre i comunisti aspiravano alla rivoluzione, la socialdemocrazia metteva al primo posto la difesa della Repubblica ed era disposta a compromessi e concessioni nei confronti della destra per conservare almeno l’apparenza della democrazia. I cattolici e i partiti che li rappresentavano, il Zentrum e, in Baviera, il Partito popolare bavarese (BVP, Bayerische Volkspartei), avevano un peso elettorale relativamente modesto (attorno al 15%); essi nutrivano forti diffidenze nei confronti del partito nazionalsocialista, se non altro per il consenso di cui esso godeva presso i protestanti. In ogni modo il successo politico di Hitler fu favorito in misura marcata dall’esercito e dallo stesso presidente della Repubblica, feldmaresciallo Paul von Hindenburg. I nazisti seppero usare contemporaneamente diversi strumenti: la tattica legalitaria, l’organizzazione militare, la propaganda e il carisma del leader.
La tattica legalitaria fu voluta da Hitler, memore del fallimento del putsch del 1923: la conquista del potere non poteva avvenire con una semplice sollevazione militare, andava preparata conquistando il consenso delle masse, rassicurando gli alleati parlamentari sul rispetto formale della legalità. Ovviamente per legalità, s’intendeva semplicemente la conquista del potere per via elettorale: una volta raggiunta la meta, il movimento nazionalsocialista avrebbe reso espliciti i suoi obiettivi. Hitler stesso fu molto chiaro in proposito:
Quando sarò arrivato legalmente al potere – disse nel settembre 1930 – istituirò con un governo legale tribunali di stato che dovranno condannare secondo le leggi i responsabili della sciagura del nostro popolo. Allora può darsi che legalmente molte teste cadranno.
Paul Joseph Goebbels, il massimo propagandista del nazismo, sarebbe stato ancora più chiaro qualche anno dopo: “Il giuramento di fedeltà alle leggi era soltanto un espediente. Volevamo arrivare legalmente al potere, ma non volevamo usarlo legalmente”. Alla tattica legalitaria si accompagnò una violenza politica diffusa e sistematica, sul modello dello squadrismo fascista. Altro elemento di forza del nazismo fu la capacità organizzativa del partito: per merito di Gregor Strasser (leader dell’ala sinistra del partito, con radici operaie e obiettivi anticapitalistici), l’organizzazione del partito nazista assunse una forma gerarchica molto rigida e capillarmente diffusa. Alle strutture di partito si affiancavano organismi di massa per i giovani, le donne, gli studenti, gli insegnanti, i medici, i giuristi, i contadini e soprattutto formazioni di tipo paramilitare, come le S.A. (Sturmabteilungen, “sezioni d’assalto”), create nel 1921, che furono le protagoniste della violenza politica, indirizzata principalmente contro i militanti socialdemocratici e comunisti. Nel 1926 nacquero le S.S. (Schutzstaffeln, “milizie di protezione”), che, originariamente inquadrate nelle S.A., fungevano da guardia del corpo di Hitler. Joseph Goebbels, anch’egli inizialmente su posizioni “di sinistra”, fu l’organizzatore della propaganda. Capo del partito del distretto di Berlino, Goebbels fu il principale creatore del mito del Führer e il regista delle grandi manifestazioni coreografiche di massa. Seppe usare con abilità i nuovi, moderni mezzi di comunicazione di massa, a partire dalla radio.
Adolf Hitler, il leader carismatico, interpretò nel modo più efficace e terribile il ruolo del dittatore nella moderna società di massa. Al centro dell’ideologia hitleriana si trovava la coincidenza di popolo e razza e l’incessante lotta per il dominio del più forte. La storia diveniva così il teatro della lotta tra i popoli per la conquista di uno “spazio vitale” (Lebensraum). Al predominio razziale degli ariani (il popolo dei dominatori, l’Herrenvolk) faceva da contraltare negativo la figura dell’ebreo, il popolo senza spazio, oggetto di un’invettiva selvaggia e ossessiva. Il vizio principale degli ebrei era, secondo Hitler, il loro internazionalismo e le ideologie che ne derivavano: pacifismo, socialismo, marxismo, bolscevismo ma anche l’egualitarismo e la democrazia, considerata da Hitler con disprezzo come il governo del numero. Così antisemitismo e antibolscevismo erano uniti strettamente e avrebbero fornito il cemento ideologico della politica estera nazista: messa in discussione dei deliberati di Versailles, supremazia in Europa e conseguente umiliazione della Francia, guerra per lo spazio vitale ad est, contro l’Urss.
Gli strumenti fondamentali con cui Hitler s’impose ai suoi più stretti collaboratori, ai suoi alleati e ai suoi avversari politici, prima ancora che alle grandi masse, furono ipocrisia, determinazione fanatica e abilità tattica. Mentre liquidava le frange di sinistra del partito, meritandosi la fama di moderato da parte della destra benpensante, continuò a servirsi dello squadrismo dei gruppi armati del partito, come fondamentale strumento di distruzione degli avversari politici. Mescolando tattica legalitaria e violenza nei due anni che precedettero la presa del potere, Hitler, ormai riconosciuto e legittimato dalla “buona” società politica, incontrava amici e possibili alleati nel lussuoso albergo Kaiserhof di Berlino, di fronte alla cancelleria, mentre le squadre delle S.A. seminavano terrore e violenza nel paese. Ai tedeschi Hitler prometteva la realizzazione di una comunità di popolo (Volksgemeinschaft) capace di superare le divisioni di classe in quanto unita da vincoli spirituali superiori. I programmi contraddittori dei nazisti, che promettevano cose diverse ai diversi ceti ed erano perciò oggetto dell’ironia degli oppositori, convinsero in realtà un ampio schieramento interclassista; tra il 1930 e il 1933, gli iscritti salirono a 850.000, mentre le S.A. – le “camicie brune”, come erano chiamate dal colore delle loro uniformi – arrivavano ad un milione di militanti. Partito di massa dei ceti medi, la Nsdap ebbe ben presto l’egemonia anche tra i contadini che la crisi economica aveva colpito in modo durissimo. Il partito di Hitler seppe cogliere con prontezza l’occasione, rilanciando il motto Blut und Boden (sangue e terra), che legava la purezza della stirpe al radicamento sul suolo tedesco, e si presentò come la forza politica che difendeva i ceti rurali contro la modernità. La Nsdap penetrò anche tra gli operai, soprattutto quelli non qualificati, pur non riuscendo a insidiare il primato dei socialdemocratici e dei comunisti.
Col successo elettorale del 1930, il consenso si fece strada anche nei ceti medio-alti: imprenditori, membri dell’aristocrazia, esponenti dell’alta burocrazia. Fondamentale caratteristica degli elettori e degli iscritti al partito era la giovane età: assai aggressiva e ferocemente antisemita era la componente degli studenti universitari, avversi allo Stato, ritenuto colpevole di non garantire quella posizione di prestigio che l’istruzione superiore avrebbe dovuto offrire loro. I nazisti conquistarono anche il consenso dei cittadini astenutisi dal voto nelle elezioni degli anni Venti: tale risultato si spiega grazie alla capacità del partito di aggregare masse spoliticizzate e pronte a seguire un movimento che faceva appello alle emozioni e ai miti e rifiutava i vecchi slogan della politica tradizionale. L’insofferenza verso i partiti era ormai generalizzata nella società tedesca perché agli occhi di gran parte della popolazione, la responsabilità della crisi della Germania ricadeva sulla classe dirigente di Weimar; inoltre quanti temevano un’alternativa comunista, erano disposti a simpatizzare con un movimento determinato a combatterla. Il nazionalsocialismo era riuscito a legare un’ideologia reazionaria e rivolta al passato, con una forte accelerazione verso il mutamento e la modernizzazione della società tedesca.
Le elezioni presidenziali dell’aprile 1931 videro la vittoria di Hindenburg con il 53% dei suffragi, mentre Hitler raccolse il 36% dei voti. A questo punto Hitler si mise d’accordo con Kurt von Schleicher, capo delle forze armate, il quale manovrò per far cadere il governo. Il nuovo governo era presieduto da Franz von Papen (1879-1969), un militare in mano agli junker: egli contava di delegittimare il parlamento, svuotare di significato lo stato sociale e ottenere così il consenso dell’estrema destra. Il gioco di von Papen puntava all’emarginazione dei socialdemocratici che infatti furono costretti a passare all’opposizione. Le S.A. scatenarono la loro violenza contro i socialdemocratici e soprattutto contro i comunisti, che, benché si fossero organizzati per difendersi anche militarmente, vennero sconfitti, e persero negli scontri numerosi militanti.
Il 31 luglio 1932 i nazisti divennero il primo partito (37,3% dei voti e 230 deputati); ma il sistema politico restava in una situazione di stallo, privo com’era di una maggioranza parlamentare. A novembre si tornò alle urne e sembrò addirittura che la Nsdap avesse iniziato la parabola discendente, con la perdita di due milioni d’elettori. Purtroppo i suoi avversari politici non seppero approfittarne perciò la partita restò in mano ad Hitler: i socialdemocratici non erano in grado di uscire dalla prassi legalitaria che li bloccava e i comunisti restavano nell’ attesa di una rivoluzione che non si concretizzava, mentre le altre destre pensavano di usare il capo nazista. La repubblica democratica era ormai al tramonto. Sicuro dell’appoggio dell’esercito e di settori strategici dell’industria, il 30 gennaio 1933 Hitler ottenne la carica di cancelliere a capo di un governo di coalizione.
3.3. Il nazismo al governo
Hitler scioglie subito il parlamento e indice nuove elezioni per il 5 marzo. Contemporaneamente viene creato un corpo di polizia ausiliaria, la Gestapo (Geheime Staats-polizei: polizia segreta di Stato), composta di elementi fanaticamente fedeli al partito nazista e disponibili a qualsiasi violenza. Vaste epurazioni allontanano dalla pubblica amministrazione gli elementi giudicati ostili al partito; oltre 150 giornali di opposizione sono soppressi da un giorno all’altro. Contro gli oppositori di sinistra e di centro si scatenano le violenze delle squadre d’assalto, con il sostegno della forza pubblica. Una durissima ondata repressiva si scatena subito, il 27 febbraio, dopo l’incendio del palazzo del Reichstag, che viene attribuito ai comunisti, mentre ne sono responsabili gli stessi nazisti, in cerca di pretesti per le loro violenze sanguinose. Oltre quattromila comunisti sono arrestati. Il Presidente Hindenburg, ormai un fantoccio nelle mani di Hitler, non osa rifiutare la firma all’“Ordinanza per la protezione del popolo e dello Stato”, suggerita dal famigerato articolo 48 della Costituzione, che autorizza il presidente a “sospendere provvisoriamente in tutto o in parte i diritti fondamentali”, nel caso che “l’ordine e la sicurezza pubblica siano gravemente turbati e minacciati”. Anche a tale provvedimento, destinato a diventare permanente, non ci sono reazioni, in un clima di disorientamento, di paure, di opportunismi. E’ in questa drammatica situazione che si svolgono le elezioni del 5 marzo 1933. Il partito nazista ottiene quasi il 44% dei voti, che gli consentono, con il sostegno del partito tedesco nazionale (8% dei voti), di contare sulla maggioranza assoluta. Dopo le elezioni il partito comunista è messo fuori legge, e i suoi deputati si vedono annullare il mandato parlamentare e sono arrestati. Hitler chiede alla nuova Camera i pieni poteri, che consentono al governo di promulgare leggi senza il concorso del parlamento. Si oppongono soltanto i 94 deputati socialisti. Nei mesi successivi, la Spd spera, comunque, di riuscire ad esercitare una opposizione legale, e tenta vie di conciliazione con il governo nazista. Sono tentativi inutili perché in maggio tutte le sedi sindacali vengono devastate dalle squadre d’assalto. In luglio sono messi fuori legge tutti i partiti; in dicembre è stabilita per legge l’identificazione tra partito nazista e Stato. Il parlamento non ha più compiti effettivi, di fronte ad un nuovo modello politico che si regge sul rapporto diretto tra il Führer e le masse.
Nel giugno del 1934 il generale von Blomberg, uomo di fiducia di Hindenburg, dà un ultimatum ad Hitler, invitandolo ad un’epurazione interna al nazismo, che liquidi le squadre d’assalto, pericolose concorrenti dell’esercito regolare, con la minaccia, in caso contrario, di invocare una presa di posizione di Hindenburg, che potrebbe dare il potere direttamente alla casta militare alla quale appartiene. L’esercito intanto aveva iniziato ad applicare la politica di “arianizzazione”, espellendo la componente ebraica e – fatto di grande significato politico-simbolico – aveva assunto la croce uncinata del partito nazista come suo emblema. D’altra parte, gli industriali volevano la liquidazione della cosiddetta “sinistra nazista”, fautrice del controllo dello Stato sull’industria. Hitler, d’accordo con Heinrich Himmler, capo delle S.S., costruisce false prove di un inesistente complotto ordito dalle squadre d’assalto. Quindi, nella notte del 30 giugno 1934, ricordata come la “notte dei lunghi coltelli”, le S.S. trucidano tutti i capi delle squadre d’assalto: Ernst Röhm, il capo dell’Azione cattolica Erich Klausener, von Schleicher potenziale concorrente di Hitler. Nessuno reagisce, e, quando muore Hindenburg nell’agosto, Hitler, con l’appoggio dell’esercito, viene proclamato cancelliere e presidente, e diventa, di fatto, il dittatore, che ha nelle sue mani lo Stato, il partito, l’esercito. Soldati e ufficiali, d’ora in poi, giurano fedeltà ad Hitler. E’ nato il Terzo Reich.
Si realizza così, a differenza dell’Italia che era un condominio monarchico-fascista, un sistema compiutamente totalitario, che non tollera l’esistenza di elementi non solo ostili ma anche semplicemente non assimilabili ad esso. In verità il rapporto tra Hitler e i suoi uomini da un lato e gli apparati statali dall’altro, può essere compreso grazie alla definizione coniata nel 1940 da uno studioso tedesco in esilio, Ernest Fraenkel, che ha parlato di doppio stato: uno stato “normativo”, espresso dalla burocrazia, ligio alle regole e impegnato ad applicarle in modo zelante, senza riguardo ai contenuti etici dei provvedimenti adottati, e uno stato “discrezionale”, che agiva in modo arbitrario grazie alle strutture e alle organizzazioni del partito. Di fatto tra questi due diversi modi di concepire il ruolo dello Stato prevarrà il secondo: la chiave della trasformazione fu infatti il partito, o attraverso suoi uomini inseriti nell’apparato amministrativo o attraverso la formazione di nuovi organi che concretamente scavalcavano i centri tradizionali del potere. Qui sta la fondamentale differenza col caso italiano, dove invece il dualismo tra Stato e partito venne risolto di norma a favore del primo. In Germania si verificano comunque continui contrasti tra burocrazie e organi amministrativi: si è parlato non a caso di policrazia, vale a dire di pluralità di centri di potere. L’arbitro supremo restava il Führer, sempre attento a contrastare l’emergere di centri di potere troppo forti e potenzialmente pericolosi per la sua posizione di comando. Scrive Hans Frank, uno dei massimi teorici del diritto nella Germania di allora: “Il diritto pubblico del Terzo Reich è la formulazione giuridica del volere storico del Führer, ma il volere storico del Führer non è l’adempimento di condizioni poste dal diritto pubblico al suo agire”.
Lo Stato del Führer, privo del contrappeso della monarchia italiana, cancella progressivamente ogni dualismo tra partito, burocrazia ed esercito, senza eliminare tuttavia la concorrenza e la competizione tra quegli organi che operavano al fine di ottenere l’approvazione del capo supremo. Gli organi dello stato “discrezionale” erano una serie di amministrazioni speciali che dipendevano direttamente da Hitler e le cui competenze si sovrapponevano a quelle tradizionali: tali furono per esempio l’organiz-zazione Todt, che sovrintendeva al programma per la costruzione di autostrade, il Servizio del lavoro, l’Organizzazione della gioventù, l’Ufficio per il piano quadriennale affidato a Göring. Ovviamente l’organismo più significativo per la sua onnipotenza, la delicatezza dei compiti affidatigli e l’ideologia che lo compenetrava era il corpo delle S.S. i cui membri dovevano dimostrare la purezza della loro “razza ariana”, i cui capi erano reclutati tra le file dell’aristocrazia e della borghesia colta, e che agivano senza controlli o limitazioni. A loro vennero affidate la repressione sistematica e violenta di ogni opposizione, la sorveglianza dei campi di concentramento e la “soluzione” del problema ebraico.
Naturalmente in Germania il nazismo reintrodusse la pena di morte e la magistratura divenne uno strumento del potere di Hitler. Le misure repressive previste dal decreto del 28 novembre 1933 furono attuate con rigore spietato. L’arresto politico non era sottoposto ad alcuna verifica da parte della magistratura e mirava a terrorizzare ogni potenziale oppositore. Prima usato contro comunisti e socialisti, venne applicato massicciamente per distruggere le organizzazioni del movimento operaio. Non essendo sufficienti le carceri per contenere una simile massa di persone, nascono quindi, sin dal 1933, in base alla”Ordinanza per la protezione del popolo e dello Stato”, i primi lager (“campi”, cioè campi di concentramento).
Il lager si differenzia dalla normale detenzione perché non prevede il reinserimento nella vita sociale di coloro che vi sono detenuti, bensì la loro permanente segregazione e la loro utilizzazione in lavori forzati, in condizioni che sono, in pratica, di schiavitù. I primi lager sono quelli di Dachau, a circa 20 Km da Monaco e di Buchenwald, presso Weimar, seguiti poi da molti altri. Nel luglio 1933 nei lager vennero rinchiuse 27.000 persone. Nel 1936-37, anni dei maggiori successi della dittatura, il loro numero scese a circa 10.000. Con il 1937-38, il regime dei campi, diretti dalle S.S., si inasprì e gli internati, cui si erano aggiunti decine di migliaia di ebrei, si trasformarono in forzati: lo sfruttamento del lavoro coatto, necessario alla produzione bellica, diventò uno degli obiettivi principali del sistema dei lager. Tra il 1934 e il 1937 la popolazione dei campi era in effetti cambiata: oltre ai politici, contrassegnati da un triangolo rosso, vi trovarono posto gli asociali (nero), gli omosessuali (rosa), preti e testimoni di Geova (viola), i criminali comuni (verde) e infine gli ebrei (un doppio triangolo giallo, a formare la stella di David). Dai 25.000 internati all’ini-zio della guerra si passò ai milioni degli anni successivi.
Ogni opposizione verrà distrutta grazie al regime concentrazionario. Ebrei, zingari, marxisti e liberali, credenti ed atei, omosessuali e portatori di handicap vengono soppressi con ferocità e freddezza, mentre il cittadino tedesco comune conserva la sua rispettabilità e finge di non sapere cosa avviene nei lager. L’ideologia della morte prevale su tutto e ovunque la si esplichi: il fronte, il campo di concentramento, le strade di Berlino e delle altre città tedesche prima e di tutta Europa dopo, sono teatro della violenza delle S.S., una violenza sorretta dall’ideologia della morte, vera artefice del terrore degli anni Trenta e Quaranta. Oppressione, paura e persecuzione fanno parte della quotidianità e inquinano l’esistenza degli stessi carnefici tedeschi; il rapporto io-altro è quello tra vittima e carnefice. La morte troneggia nei campi di sterminio ed è auspicata quale prova di fedeltà e sacrificio supremo per la patria. Quella del Behemoth nazista non è un’educazione, ma una diseducazione, non forma ma deforma, non fa vivere ma procura la morte. Auschwitz è il luogo della cultura della morte, l’icona della fine, il luogo dove trionfa l’Angelo della morte e Dio e l’uomo scompaiono.
La Bildung (formazione) nazista è strumento dello Stato allo scopo di narcotizzare le coscienze. Il mito eleva il condottiero alla radicalità assoluta dell’evento irripetibile e serve a formare l’uomo nazista in modo che il legame tra popolo e Führer sia sempre più forte. Il nazista deve essere il “nuovo tipo umano”, capace di portare a compimento la rivoluzione nazionalsocialista in occidente. La Weltanschauung (concezione del mondo) nazista vuole il popolo tedesco unico depositario del patrimonio culturale europeo, pertanto essa considera arte degenerata tutto ciò che deriva dai principi di libertà, uguaglianza, tolleranza e giustizia; degenerati sono Chagall, Klee, Chopin, Le Corbusier o Kandinskij, Gide o Proust e lo Stato deve salvare il popolo tedesco da questi nemici della tradizione tedesca. La Bauhaus, ritenuta un focolaio di cultura marxista, viene chiusa da Göring nell’aprile del 1933. A maggio, dopo il rogo dei libri proibiti, appare l’indice delle pubblicazioni vietate. Il 19 luglio 1937 a Monaco si inaugura la mostra sull’”arte degenerata” e due anni dopo a Berlino verranno date alle fiamme circa cinquemila opere d’arte.
La nazificazione della Germania passa comunque, più che dall’alta cultura, dalla scuola; la formazione dei giovani viene decisa dal Führer:
“La mia scienza pedagogica è dura. Il debole deve essere spazzato via. Nei centri del mio nuovo Ordine verrà allevata una gioventù che spaventerà il mondo. Io voglio una gioventù che compia grandi gesta, dominatrice, ardita, terribile. Gioventù deve essere tutto questo… Non voglio un’educazione intellettuale. Il sapere mi rovina la gioventù.”
La gioventù tedesca, inquadrata nella Hitler Jugend è educata fisicamente, moralmente e spiritualmente secondo i principi nazisti. L’esalta-zione del mito genera un terribile misticismo pagano che si abbevera alla fonte della guerra. Rosenberg, Schirach, Baeumler e Krieck sono gli educatori che spingono la gioventù alla guerra, all’apoteosi del simbolo della morte su quello della vita. Anche qui l’ideologia della morte domina su tutto. Scrive Adolf Hitler:
“L’ufficiale deve combattere attivamente in prima linea anche sul terreno ideologico e deve saper educare i propri soldati secondo i principi dell’ideologia nazionalsocialista, così da farne dei convinti e insuperabili combattenti per il grande Reich.”
Molto prima Hans Schemm aveva scritto che la vita chiesta per la Germania consisteva nella disponibilità alla morte. Molti giovani, tanto in pace, quanto in guerra, saranno vittime di questa macabra concezione del mondo.
Così la scuola educa e seleziona la gioventù tedesca, espellendo i giovani affetti da malattie e da menomazioni o che con il loro comportamento non conformista recano offesa alla tradizione del cameratismo. La vera ricchezza della Germania sta nella forza, nella fede e nel valore dei tedeschi. Allo scopo di incrementare questa ricchezza il governo nazista sostituisce gli educatori con burocrati ligi alle direttive del regime e convinti che il loro compito consista nella nazificazione della gioventù. Patria, onore, terra, dovere, sangue, antisemitismo e razzismo saranno le parole-chiave del “buon professore tedesco”. Allineamento (Ausrichtung) e Uniformazione (Gleichschaltung) sono gli obiettivi di questo tipo di educazione e ove l’educazione non fosse sufficiente, entrerebbero in gioco i mezzi coercitivi e la paura dell’eliminazione fisica.
3.4. La persecuzione degli ebrei
L’espressione più significativa della politica nazista resta comunque la politica razziale, ossia la persecuzione e poi lo sterminio degli ebrei. Nessuna pietà doveva essere riservata al “nemico assoluto”. La persecuzione contro gli ebrei ebbe inizio all’indomani stesso della presa del potere. Già dal febbraio 1933 le S.A., libere di agire a loro piacimento, iniziarono terribili violenze contro professionisti e negozianti ebrei. Con la legge del 7 aprile si sancì l’estromissione degli ebrei dalle amministrazioni statali e comunali, fatta eccezione per gli ex combattenti. Successivi provvedimenti riguardarono altre figure professionali: docenti universitari, avvocati, medici, artisti. Alla fine dell’aprile 1933, più di 37.000 ebrei avevano lasciato la Germania, dando avvio all’esodo.
Le cosiddette Leggi di Norimberga del 1935, approvate per acclamazione dal parlamento appositamente convocato, fissarono un ulteriore passaggio. Composte di tre diversi provvedimenti, cui si aggiunse un altro decreto alla fine dell’anno, vietavano i matrimoni misti tra ariani ed ebrei, escludevano dalla cittadinanza chi non era di sangue tedesco o affine, privavano gli ebrei, senza eccezioni, dei diritti civili e li escludevano dall’esercizio delle professioni. Nell’impossibilità di definire che cosa si dovesse intendere per “ebreo” – si rivelava così l’inconsistenza scientifica di ogni teoria delle razze – la legge dovette presentare ricorso, come criterio identificativo, all’appartenenza alla religione ebraica. Ma ancora più importante fu il fatto che le disposizioni di legge vennero scavalcate e la persecuzione si svolse da allora secondo procedimenti puramente arbitrari, come voleva Hitler in persona.
Si giunse così al pogrom del 9-10 novembre 1938, la “notte dei cristalli”, come i nazisti eufemisticamente vollero chiamarlo, il culmine dell’offensiva antiebraica. Vennero assassinate novantuno persone, distrutti settemilacinquecento negozi, incendiate circa duecento sinagoghe e quasi altrettante danneggiate, senza contare numerose altre violenze. Ventiseimila ebrei vennero arrestati e internati in campi di concentramento, nei quali vennero tenuti sino alla primavera del 1939: secondo alcuni calcoli, il numero delle vittime, contando anche quelle morte nei campi, fu di duemilacinquecento, un macabro anticipo dei milioni che entrarono nei campi dopo il 1941 per non uscirne più. L’aspetto caratteristico di questa prima, clamorosa e sanguinosa azione contro gli ebrei fu il suo preteso carattere popolare e di massa: presentata come un’iniziativa spontanea in reazione all’assassinio a Parigi, il 7 novembre, di un segretario della locale ambasciata tedesca a opera di un ebreo polacco, Herschel Grynspan, essa fu in realtà organizzata e concretamente realizzata dalla Gestapo, dalle S.S. e dal partito, i cui agenti erano stati invitati a svolgere la propria opera senza uniforme (disposizione peraltro disattesa da molti). Si voleva in sostanza dare l’impressione di una perfetta saldatura tra la persecuzione dall’alto (le Leggi di Norimberga) e quella dal basso. Invece, da parte della popolazione ci fu indifferenza o tacito consenso, ma scarsa partecipazione. L’antisemitismo era largamente diffuso e molti auspicavano l’emarginazione degli ebrei; ma non tutti erano disposti ad approvare metodi così feroci e radicali. Non esiste una precisa linea di continuità tra la “notte dei cristalli” e la “soluzione finale”, ossia lo sterminio, che prenderà avvio nel corso della seconda guerra mondiale: questo compito venne svolto all’interno dei campi, da corpi speciali, lontano dagli sguardi della maggioranza della popolazione – anche se un crimine nel quale furono coinvolte, tra esecutori materiali e burocrati, circa un milione di persone non poteva certo passare inosservato. Le violenze della “notte dei cristalli” si inserivano ancora nell’obiettivo originario di provocare l’allontanamento degli ebrei dalla Germania, censendoli, discriminandoli, perseguitandoli, rendendo loro la vita impossibile. Lo sterminio venne pensato e realizzato più tardi, come soluzione alternativa, quando con la conquista di nuove regioni, crebbe enormemente il numero degli ebrei stanziati nei territori del Reich o sotto suo diretto controllo, e non apparve realistica l’idea di trasferirli altrove. “Realistica” apparve invece, e realizzabile, la loro sistematica eliminazione.
Meno drammatico, ma non privo di conseguenze per il futuro, fu l’esodo degli ebrei, che coinvolse centinaia di migliaia di persone: dalla Germania trecentomila ebrei, duecentocinquantamila dall’Austria, venticinquemila dalla regione dei Sudeti. Anche molti oppositori politici subirono la stessa sorte: solo fino al 1935, erano emigrati seimila socialdemocratici, ottomila comunisti, cinquemila dissidenti di varie tendenze politiche. Un posto a parte occupò l’emigrazione intellettuale: furono costretti a lasciare la Germania ventiquattro premi Nobel, tra i quali Albert Einstein. L’esilio coinvolse sociologi e filosofi come Karl Mannheim, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Ernst Bloch, Ernst Cassirer, economisti come Joseph Schumpeter, letterati come Heinrich e Thomas Mann, uomini di teatro come Bertolt Brecht. Se la loro partenza contribuì, nei paesi di destinazione, in primo luogo gli Stati Uniti, alla diffusione internazionale della migliore cultura tedesca, essa fu in ogni modo una grave perdita per il paese e spezzò definitivamente la ricca tradizione dell’intellettualità ebraico-tedesca.
3.5. La costruzione del consenso
Grazie ad una decisa politica di riarmo nel 1936 non esisteva più disoccupazione in Germania; questo fu un forte elemento di consenso verso il regime, così come la politica economica del governo, diretta abilmente dal governatore della Reichsbank e ministro dell’Economia, Hjalmar Schacht. Si trattò di una politica dirigista, finanziata con il debito pubblico: fino al 1934 furono stanziati cinque miliardi di marchi per creare posti di lavoro favorendo i settori dell’edilizia pubblica e privata e le industrie che lavoravano per le forze armate. Ai fini del consenso ebbero importanza anche la costruzione di una rete d’autostrade e i progetti della Volkswagen d’incremento della motorizzazione privata, anche se ovviamente il nuovo tracciato viario era destinato soprattutto a scopi militari. I redditi crebbero sino al 1936 risollevando le precarie condizioni economiche dei tedeschi degli anni di crisi; il bilancio dell’esercito, che nel 1933 rappresentava solo il 4% di quello complessivo, salì al 18% nel 1934, al 39% nel 1936, fino a toccare il 50% nel 1938. Schacht, che pure era favorevole al riarmo, non condivideva quest’esplosione e quindi fu sostituito, nella carica di commissario generale per l’economia di guerra, da Göring, già capo della Luftwaffe. L’economia venne subordinata totalmente alla politica. Si venne così a creare un particolare intreccio tra intervento pubblico e sistema privato: lo Stato controllava il mercato, regolando prezzi ed assegnando ad alcune industrie, piuttosto che ad altre, materie prime, manodopera e mezzi di produzione. Ne derivò una spiccata dipendenza dei privati dalle scelte della burocrazia economica statale. D’altra parte i vertici di questa stessa burocrazia erano sovente occupati dai dirigenti delle più importanti imprese private, al punto che si è parlato di “privatizzazione” della politica economica statale.
Malgrado verso la fine del 1938 gli economisti più avvertiti segnalavano l’arrivo di una nuova crisi, a causa soprattutto dell’aumento del deficit, il consenso verso il nazismo non venne meno perché soffiavano già i venti di guerra. Secondo il popolo tedesco la guerra e l’ampliamento dello “spazio vitale”, cioè lo sfruttamento spietato dei paesi conquistati, avrebbero risolto la situazione. Ogni settore della società tedesca fu controllato al fine di realizzare l’utopia della Volksgemeinschaft; le istituzioni del regime dovevano mobilitare, educare e sorvegliare ogni singolo cittadino, e al tempo stesso assisterlo, assicurandogli un relativo benessere; il progetto totalitario lasciò in ogni modo margini d’autonomia agli elementi più forti come l’esercito, l’industria e le chiese. Il nazismo era stato creato per combattere il marxismo e il movimento operaio, considerati, insieme agli ebrei, i principali nemici della Volksgemeinschaft, perché improntati all’internazionalismo e alla “lotta di classe”. Si spiega in questo modo il duplice comportamento del regime nei confronti della classe operaia tedesca: da un lato repressione e sorveglianza, dall’altro organizzazione e assistenza.
Nel maggio 1933 era stato varato dal regime il Fronte tedesco del lavoro, il cui compito non era sindacale, ma educativo e formativo: lo sciopero e gli altri canonici strumenti di difesa dei lavoratori erano banditi. Con la legge per l’Ordinamento del lavoro nazionale del 1934, una rigida gerarchia fu imposta nelle fabbriche e in genere in tutti i luoghi di lavoro: ogni lavoratore doveva obbedienza ad un capo. Ovviamente gli imprenditori erano assai contenti di questi provvedimenti che, di fatto, consideravano illegittimo il conflitto sociale; allargato a ceti medi e imprenditori, il Fronte finì per contare venti milioni d’iscritti. Lo Stato e gli industriali s’impegnavano in una politica sociale e assistenziale, che diede buoni risultati tanto che nel 1937 i salari reali avevano raggiunto il livello precedente alla crisi, grazie alla capacità del regime di mantenere bassi i prezzi al consumo; è anche vero, però, che i lavoratori guadagnavano di più perché lavoravano un maggior numero d’ore. Venne anche gestito dallo Stato il tempo libero degli operai, aumentato grazie ai dodici giorni (invece dei tre precedenti) di ferie retribuite concessi dal 1933: a questo scopo, nel novembre 1933, venne fondato, all’interno del Fronte del lavoro, il corrispettivo del Dopolavoro fascista, che prese il nome di Kraft durch Freude (Forza attraverso la gioia). Gli obiettivi di fondo erano l’indottrinamento e la politicizzazione a favore del regime mentre l’accesso ai nuovi consumi della società di massa, dalla radio al cinema, allo sport, era una sorta di compenso per la sottrazione dei diritti essenziali di libertà.
E’ in questa situazione che va esaminata la questione del consenso al regime nazista: un tema drammatico e inquietante considerato l’alto tasso di criminalità dei nazisti. Come fu possibile per un grande paese europeo, dalle solide strutture economiche, all’avanguardia in molti campi del sapere, cadere preda di un aberrante sistema di dominio? La durezza della repressione spiega molte cose, ma è pur vero che la maggior parte della popolazione restò indifferente o complice delle atrocità del regime, quando addirittura non vi collaborò volonterosamente. Per cercare di capire le ragioni del consenso verso Hitler non si può trascurare il ruolo delle Chiese. Almeno inizialmente, il regime nazista si era presentato come il difensore degli ideali e della pratica del cristianesimo contro il marxismo e questo fece sì che le Chiese tollerassero, quando non incoraggiavano, la violenza nazista contro ebrei e comunisti. La Chiesa cattolica nutrì qualche diffidenza verso il nazismo a causa della diffusione di concezioni neopagane nell’educazione della gioventù. Ma l’enciclica di Pio XI del 1937, Mit brennender Sorge (Con cocente preoccupazione), come si è detto, fu solo una risposta alle pressioni del regime sulla Chiesa cattolica e sulle sue organizzazioni. In sostanza le Chiese, cattolica o protestante, non condannarono mai il nazismo, per cui la grande massa della popolazione non aveva punti di riferimento alternativi su cui contare.
Piena occupazione e un modesto ma sicuro benessere giocavano a favore del regime. Venivano concessi facilmente a quasi tutta la popolazione sgravi fiscali, mutui e sovvenzioni d’ogni genere; chiunque poteva accedere ai prestiti matrimoniali, concessi peraltro solo a patto che le donne sposate abbandonassero il lavoro fuori casa. Non sono sufficienti comunque gli indicatori economici a spiegare il consenso. Giocarono un ruolo importantissimo la mobilitazione totale delle masse e i nuovi rituali della politica (ad esempio le grandi manifestazioni coreografiche, come quella annuale che si teneva a Norimberga in occasione del congresso del partito nazista) che suscitavano larghi entusiasmi influendo sulle emozioni profonde dei Tedeschi. Nello stesso senso agiva lo spirito di rivalsa contro le potenze democratiche vincitrici della guerra che veniva eccitato dalla propaganda.
Anche qualche intellettuale subì il fascino rovinoso del mito della Volksgemeinschaft: diedero il loro consenso al nazismo musicisti come Richard Strauss o Wilhelm Furtwängler, filosofi come Martin Heidegger, giuristi come Carl Schmitt. Particolare fu la posizione di Enrst Jünger, considerato dai nazisti un eroe nazionale: non volle iscriversi al partito e considerava plebei e fanatici gli stessi capi nazisti. Anche i convincimenti nazisti di Heidegger, derivanti dall’illusione di vedere nel nazismo la palingenesi di un mondo nuovo, durarono circa sei mesi, passati i quali preferì ritirarsi a vita privata, senza per altro dissociarsi mai dal regime. Non si tratta qui di giustificare le scelte, tanto più gravi perché attuate da uomini di solida cultura, quanto di comprendere quanto possa essere seducente il fascino del male.
Esisteva comunque in Germania una piccola area di opposizione che andava però riducendosi col passare del tempo, quanto più venivano colpiti i capi e gli intellettuali. Gli storici oggi distinguono tra Widerstand (l’opposizione politica organizzata, oggetto della repressione più dura, e ridotta presto all’impotenza) e Resistenz (l’atteggiamento di rifiuto – totale o parziale – dell’ideologia e della pratica nazionalsocialista, che non comportava tuttavia un’opposizione militante). Non bisogna stupirsi troppo se in Germania non si svilupparono movimenti di resistenza sul modello italiano o francese: il terrore esercitato dal regime era più sistematico, il controllo dei corpi di polizia era più forte, la tradizione liberale e democratica del popolo tedesco più debole, l’anticomunismo e l’antisemitismo più diffusi.
(Da Nicolò Scialfa, Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare, Roma, 2002)
J.V.