Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare. Capitolo 5

Capitolo quinto

ALCUNE RIFLESSIONI SULLO STERMINIO

E verso l’ora nona , Gesù gridò a gran voce, dicendo: «Elì, Elì, lemá sabactani?» cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

Matteo 27, 46

5.1. Lo sterminio nella teologia ebraica

La discussione teologica sulla Shoah è iniziata con notevole ritardo, attorno alla metà degli anni Sessanta quando vennero a coagularsi diversi elementi favorevoli ad un dibattito in proposito: il processo Eichmann, la nascita negli Stati Uniti del movimento dei diritti civili, e  in particolare, la pubblicazione del libro di Richard Rubenstein, After Auschwitz, che metteva in chiaro il malcelato ateismo di molti ebrei e la mancanza di fede nel Dio unico, signore onnipotente del mondo.

Risulta evidente come dopo Auschwitz le antiche risposte della teodicea, che tentavano una giustificazione del Dio buono e giusto di fronte al male del mondo, sono fallite. Ci si chiede se un Dio buono e giusto poteva permettere ai nazisti di fare quello che hanno fatto.

Per molti teologi ebrei la Shoah non è meno, ma neppure più di un ulteriore esempio della malvagità umana. Il teologo Jacob Neusner si rifiuta di trarre dalla Shoah particolari conseguenze: a suo parere è sbagliato dire che Auschwitz rappresenta una svolta nella storia del mondo e ribadisce che dalla Shoah non si può ricavare alcuna salvezza, alcuna nuova giustificazione per la sopravvivenza del popolo ebraico. La speranza risiede nel fatto che “la voce dei profeti parla più forte di quella di Hitler e il vento della promessa divina soffia sui forni crematori e riduce al silenzio la voce di Auschwitz”

Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire. Essi non hanno il diritto di disperare dell’uomo e del suo mondo e di trovare rifugio sia nel cinismo sia nell’aldilà, se non vogliono contribuire ad abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz… un ebreo non può rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione. Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’idolatria. Oggi consiste nel rispondere a Hitler compiendo la sua opera.

Secondo Fackenheim, rendere lo sterminio centro della religione ebraica, porta ad uno svuotamento dell’ebraismo a vantaggio di un israelismo che diventa una pseudoreligione. Lo sterminio significa, non la fine dell’ebraismo, ma dell’assimilazione ed  esso resta  una  cesura di portata epocale, un evento che supera di gran lunga tutta la storia della sofferenza svoltasi sino ad ora, rivestendo un’importanza fondamentale per la nostra epoca, ma non certo per il futuro. Si dà troppa importanza allo sterminio, sempre secondo Fackenheim, se gli si conferisce la dignità di un nuovo Sinai ebraico. Ad Auschwitz si è verificato il totale offuscamento dei valori umani e il lager non è luogo di rivelazione di Dio ma il moderno anti-Sinai, non è l’inizio di qualcosa ma la fine della modernità europea.

Non un teologo, ma uno storico ebreo americano di origine tedesca, Fritz Stern, nel 1985 parlò davanti al parlamento tedesco e, nel suo libro sul Dramma della storia tedesca, rilevava come la totale secolarizzazione, il riconoscimento della «morte di Dio» e il «disincanto del mondo», la fede laica nella nazione abbiano avuto conseguenze fatali sia per gli ebrei che per i tedeschi. La rivoluzione nazista dava ai tedeschi la possibilità di riempire il vuoto determinato dalla secolarizzazione. Il millenarismo hitleriano e la Pentecoste del 1933 identificavano Dio con la nazione tedesca.

Ad Auschwitz trova compimento la teoria dell’«uomo folle» di Nietzsche; col nazismo Hitler, dopo aver maledetto il proprio popolo, vuole trascinarlo nella totale rovina. Neanche Nietzsche, nella sua lucida e terribile previsione, aveva immaginato esiti così disastrosi. Kafka è morto prima dell’avvento del terrore nazista ma è riuscito ugualmente a descrivere il mondo labirintico della modernità, il mondo del nostro secolo, con le sue anonime potenze dalle strutture ineluttabili, l’universo, appunto, kafkiano. Il novecento è il mondo dei lager e dei gulag, il mondo dell’eclissi di Dio. La moderna fede dell’uomo nella grandezza dell’uomo è precipitata nel crepaccio del tempo del lager. Jaspers e Wittgenstein, Barth e Bultmann, avevano già percepito, alla fine della prima guerra mondiale, che l’affermazione della dialettica della modernità avrebbe gettato gli uomini in una condizione nullificante. Non si vuole qui voltare le spalle alla modernità, con tutte le sue conquiste nei vari campi del sapere e della politica: nessuno vuole tornare al Medioevo. Karl Barth ci avverte che la modernità senza divinità, può generare mostruosità abnormi come il nazismo. Il nazismo, che, al di là della sua mitologia romantica rivolta al passato, era un movimento moderno e tecnologico, ha reso evidente che senza vincoli etici la scienza moderna può convertirsi nella menzogna della propaganda.

Senza vincoli etico-politici la democrazia moderna può finire nella dominazione sulle masse, grazie alla seduzione e al terrore da parte di pochi criminali. Senza vincoli etici la tecnologia può servire all’uccisione tecnicamente perfetta di milioni di persone. Quando Nietzsche, con immenso dolore, annuncia la «morte di Dio» è terrorizzato, spaventato. Egli denuncia la terribile portata del “moderno” svincolato dall’Etica. L’annuncio di Zarathustra è un atto di umiltà e di monito. Lo sterminio è anch’esso un monito per tutte le nazioni moderne perché la razionalità e la tecnica non siano usate acriticamente. Senza vincoli etici l’industria diviene lo strumento dello sterminio industriale di un intero popolo e gli “ingegneri” Himmler e Heydrich diverranno nuovamente i pianificatori dello sterminio. L’adorazione novecentesca degli dei Nazione, Razza, Classe, col sacrificio di libertà, arte, religione, diritto è stata ricompensata con il militarismo, l’imperialismo e il razzismo e, a livello personale, con l’apatia morale e l’indifferenza e un’elementare mancanza di umanità diffusa persino tra le donne. Le donne tedesche sono rimaste indifferenti, nella stragrande maggioranza, di fronte alla sventura degli ebrei; i loro mariti inviavano a casa fotografie dove si compiacevano di farsi ritrarre nell’atto di fucilare bambini ebrei in braccio alle madri, e le buone mogli tedesche guardavano volentieri quelle immagini, a testimonianza del “buon lavoro” svolto dai loro uomini.

Anche la corazza dell’ateismo si è infranta sull’indicibile dolore di Auschwitz. La riflessione sul lager ha fatto riemergere la religiosità nascosta di molti ebrei secolarizzati. Hans Jonas, filosofo ebreo cacciato dalla Germania e la cui madre morì ad Auschwitz, sostiene che dobbiamo ripensare Dio e non possiamo più conciliare onnipotenza, bontà e comprensibilità di Dio. Egli parla di un Dio sofferente e che diviene, non «un’eternità indifferente, morta, ma un’eternità che cresce col crescere di ciò che il tempo ammassa e riunisce”. Dio non è lontano, separato, chiuso in se stesso, onnipotente, bensì un Dio impotente e che è rimasto in silenzio perché non poteva fare altro. Jonas tiene ferma plotinianamente la bontà di Dio, ma esclude l’onnipotenza. Egli si colloca nella tradizione della mistica ebraica; riprende lo Zimzum, un’antica dottrina cabalistica, che significa «concentrazione» o «contrazione» della sacra presenza di Dio. Dio si è autolimitato all’inizio del tempo per permettere al mondo un’esistenza e un tempo autonomi. La creazione viene intesa, non come un dispiegamento di Dio, ma come autolimitazione. Dio con la creazione, sia pur in parte, nega se stesso: si è affidato totalmente al divenire del mondo e ora non ha più nulla da dare; ora toccherebbe all’uomo dare a lui. In Jonas non vi è traccia di presunzione ortodossa o, al contrario, di presunzione atea; egli, che ha sofferto atrocemente per i crimini degli aguzzini, si accosta al problema di Dio dopo Auschwitz, con “timore e tremore”, e quindi merita tutta la nostra attenzione. Il problema di Dio altro non è che quello del dolore: un problema di abissale profondità.

“Era una ben strana scacchiera quella che avevo davanti. Sembrava provenire da un altro mondo, o essere un oggetto sacro. Incise su un lato c’erano le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, e sui rimanenti tre, semicancellate dal tempo, tre scritte che mio padre riteneva di aver decifrato. In tutte e tre ricorreva la parola dolore: Tu non arrecherai dolore, Tu fuggirai il dolore e Tu imparerai dal dolore. Suonava come un comandamento o come un’indecifrabile profezia.”

Il bel libro di Mauresing affronta il tema dello sterminio da un particolare punto di vista: quello del dolore provocato dagli scacchi e da una contesa terribile tra l’angelo del male e lo scacchista ebreo in un campo di sterminio. Si tratta anche qui della questione teologica sotto forma di dolore: Dio e Dolore sono legati intrinsecamente e in questo senso mi sono occupato della riflessione della teologia ebraica su Auschwitz. La sofferenza possiede un’enorme funzione educativa; venire educati nel timor di Dio evita spesso comportamenti sbagliati o nocivi per gli altri. I popoli delle nazioni opulente sono frequentemente educati a vivere nell’assenza apparente del dolore, nella convinzione che la Tecnica possa trionfare su tutto: ciò crea una falsa prospettiva e una presunzione infinita, foriera di disastri. La Tecnica può alleviare alcuni dolori, ma non può, e forse non deve, eliminarli completamente: un mondo senza dolore è un mondo senza comprensione delle cose. La teologia dello sterminio, ove non sia sacralizzazione a buon mercato, riflette proprio sul dolore dell’uomo e sul dolore di Dio.

Il tema del dolore è legato anche a quello dell’innocenza: tanto più il dolore è innocente, tanto più è immeritato. Dostoevskij e Camus si sono occupati con tormento di questo rapporto e hanno scritto pagine bellissime, al pari dei teologi ebrei. Dopo la seconda guerra mondiale, dopo ciò che è accaduto ad Auschwitz, Hiroshima e nell’Arcipelago Gulag, grazie alla riflessione di Dietrich Bonhoeffer, tanto i teologi ebrei che quelli cristiani, hanno sovente ipotizzato un «Dio sofferente». Dio sarebbe dunque impotente e debole nel mondo, ma soltanto in questa condizione egli ci potrebbe aiutare, standoci vicino; alcuni teologi – Bonhoeffer, Tracy, Moltmann -, pensando alla Shoah, hanno concluso che l’immensa sofferenza delle vittime del nazismo è anche la voce del Dio sofferente. In queste riflessioni si sente il respiro tragico di Hegel e il tentativo di spiegare il dolore del mondo in un disegno superiore. Ovviamente questa tesi viene rifiutata dalla maggioranza dei teologi ebrei e cristiani: la croce non è, per loro, il simbolo del Dio sofferente, che grida, bensì il simbolo dell’uomo esposto alla morte. Sulla croce non è morto Dio stesso, il Padre, ma l’uomo (per gli ebrei) o il Figlio fatto uomo (per i cristiani). Secondo il filosofo Hans Blumemberg, il grido di lamento di Gesù abbandonato rappresenta il fallimento di Dio, la sua autoeliminazione, la disfatta di un progetto. Comunque sia, è bene ricordare che attraverso il valore estetico gli uomini hanno chiari segnali della presenza di Dio nel non-essere umano: la Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach ci offre un disegno di speranza nella redenzione, se non ultraterrena, almeno umana, e quindi la speranza che Dio ci sia vicino nel nostro dolore. Personalmente ritengo che si possa intuire la presenza del divino anche nella musica di un antisemita come Wagner: si pensi al preludio del Tristano e Isotta o al Parsifal, per citare i primi esempi che affiorano alla mente.

In ogni caso la riflessione torna alla questione della teodicea. Una risposta teoretica a questo problema, che ha sempre investito la storia dell’uomo, da Epicuro a Leibniz, da Spinoza a Jonas, probabilmente non si può formulare. Si può argomentare soltanto in una prospettiva di fede.

Il teologo ortodosso americano Michael Wyschogrod, pensa che, malgrado Auschwitz, Dio adempirà la sua promessa di redimere Israele e il mondo. Tutto ciò non è comprensibile ed è, per dirla con  Kierkegaard, scandaloso. Ciò che è essenziale è piuttosto che nessun uomo giusto e buono abbia intolleranze o preclusioni verso la strada degli altri: ogni via è buona, sia quella della fede, dell’agnosticismo, dell’ateismo carico di sofferenza, per giungere alla giustizia e alla vittoria sul male cieco e stupido. Torniamo così ad un uomo buono e giusto come Jaspers, il quale si chiede come questione ultima se, dal fondo delle tenebre, l’essere può ancora brillare. Dopo Auschwitz una luce può ancora brillare? Credo sia sensato ricordare agli uomini la forza della speranza, sia essa laica o di fede, con le parole conclusive del libro dell’Apocalisse: «Ed egli, Dio, sarà con loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21, 3 ss.).

5.2. Modernità e sterminio

Uno studioso del tema specifico, Z. Bauman, ha analizzato il successo tecnico-amministrativo della disumanizzazione che ha prodotto lo sterminio. Bauman ha, in particolare, individuato, in alcuni elementi tecnici apparentemente neutri, la garanzia del successo dell’operazione. Ha chiamato questi elementi i “tranquillanti morali” che sono messi a disposizione dalla tecnologia organizzativa e quindi anche dalla burocrazia. Tra questi tranquillanti morali, uno dei più efficaci è proprio quello del rendere invisibili le connessioni causali, di allontanare alcuni elementi della vita degli individui, cioè di rendere invisibile la componente più complessivamente umana della vittima designata. Anche in quest’operazione il Tempo ha un ruolo straordinario, poiché l’annientamento del capro espiatorio della complessa organizzazione dello sterminio, consisteva soprattutto nel derubarlo dei ricordi, nel sottrarre ad ogni individuo il senso del proprio passato. Conseguentemente si toglieva anche ogni speranza nel futuro, e pure il presente non aveva più alcun significato in quanto istante che, nel momento in cui era pensato, diveniva immediatamente passato, e quindi oggetto da cancellare.

Il senso della ciclicità, del periodo e del ritmo era destinato a dileguarsi anch’esso (basti pensare ad un fenomeno tipico che accadeva agli internati: la dissenteria, che è dovuta ad uno sconquasso degli stessi ritmi biologici dell’intestino); con ciò cadeva nel Tempo Perduto anche il ritmo del sonno, sempre più breve e interrotto da inutili funzioni, quali gli appelli interminabili o i rituali da espletare nel freddo delle mattine di Auschwitz o di Varsavia.

E quando gli individui-vittime perdevano il senso del Tempo, perdevano anche l’unica caratteristica che avrebbe potuto caratterizzarli sotto la specie umana; perdevano la possibilità di rappresentare agli occhi dei carnefici, o forse è meglio parlare di organizzatori (poiché il termine carnefici ha una connotazione troppo attiva per il ruolo statico che ebbe tale processo) il passato, la Storia, che da questo punto in poi si sarebbe potuta riscrivere. «Voi non siete mai esistiti; riscriveremo sei secoli di storia», dirà l’aguzzino alla vittima, e le pietre tombali dei sepolcri, vera testimonianza della Storia, lastricheranno la via crucis del campo di sterminio. La parte teorica dell’annientamento era questa: non vi era ancora alcun processo in corso di eliminazione fisica, la qual cosa rappresentava ormai soltanto un piccolo particolare in confronto a quello che era già stato compiuto. E’ proprio per questo motivo che Bauman parla di Ingegneria sociale, riferendola al razzismo, prodotto folle e per questo eccezionalmente organizzato nel portare a termine i propri scopi ed estremamente razionale da poter essere diviso in varie fasi. La prima reazione nei confronti degli ebrei fu la riluttanza a prendere le difese di questi ultimi; si può parlare di dissociazione dal problema e di diffusa indifferenza che ben si discostano da quello che Taguieff definisce «razzismo primario» e Bauman «eterofobia»: una «reazione naturale ed universale alla presenza di un estraneo, a qualsiasi forma di vita umana che risulti sconosciuta e sconcertante…, senso di disagio, imbarazzo e ansia che gli individui normalmente esperiscono quando, in una certa situazione, si trovano di fronte a persone da cui non possono attendersi un comportamento consuetudinario e familiare». A questo punto ci si può innalzare ad un secondo livello; per Taguieff «razzismo secondario» o razionalizzato, «inimicizia» per Bauman. «Tale trasformazione ha luogo quando viene fornita e interiorizzata una teoria che offre delle basi logiche all’avversione. Il ripugnante Altro viene rappresentato come animato da intenzioni malvagie, o come “oggettivamente” pericoloso, in ogni caso come una minaccia per il benessere del gruppo che prova l’avversione». Bauman, a differenza di Taguieff che presuppone un razzismo terziario, che è un sottoinsieme del secondario e presuppone la biologia, arriva alla conclusione che il razzismo non può essere totalmente compreso con le sole nozioni di eterofobia e di inimicizia, ma si deve aggiungere un termine di lampante chiarezza: allontanamento.

Il fenomeno del razzismo prevede quindi l’allontanamento: non solo in senso fisico – come ad esempio la relegazione degli ebrei nei ghetti –, ma anche in senso mentale; come una sorta di concetto da cancellare e da considerare inesistente. Per i vivi l’ebreo è infatti un uomo morto; per gli indigeni un estraneo e un nomade; per i poveri e gli sfruttati un milionario; per i patrioti un uomo senza patria. Ed è per questo che già l’era moderna ereditò gli ebrei come soggetti già nettamente distinti dagli uomini che abitavano nelle città e nei villaggi. Il problema dell’incompatibilità degli ebrei, che prima di allora era rimasto inosservato, doveva, a quel punto, in cui era arrivata la società che si stava rapidamente modernizzando, essere razionalizzato.

L’avvento della modernità significò la distruzione dell’ordine e della sicurezza, e ancora una volta la percezione comune delle cose volle che gli ebrei fossero al centro del processo distruttivo. La rapidità e l’incomprensibilità del loro avanzamento e della loro trasformazione sociale sembrava incarnare la devastazione compiuta dalla modernità a danno di tutto ciò che era stato familiare, abituale e sicuro. E’ da tenere presente che però con l’avvento della modernità, si assisteva ad un livellamento delle differenze. Adesso gli ebrei si trovavano di fronte all’abbat-timento del pregiudizio religioso cristiano – che aveva tentato di dare un senso alla separazione materiale degli ebrei – e alla loro possibilità di socializzazione. Era giunta l’ora di meditare affinché queste differenze potessero essere ricreate o mantenute di fronte allo spaventoso preannuncio di un’uguaglianza sociale e giuridica e dello scambio tra culture. Appropriate sono le parole della Arendt, secondo cui l’età moderna vede un passaggio dal giudaismo, da cui gli ebrei avevano sempre potuto cercare salvezza nella conversione, all’ebraicità, da cui per essi non ci sarebbe più stata alcuna via di scampo. L’antisemitismo diventa quindi il prodotto di una teoria e non di un’esperienza, in cui il legame con lo sterminio, non è dovuto tanto all’antagonismo di massa, quanto alle ambizioni dello stato moderno. «La possibilità dell’Olocausto era radicata in alcuni caratteri universali della civiltà moderna; la sua esecuzione d’altro canto era legata ad una specifica, e niente affatto universale, relazione tra lo stato e la società» (Arendt).

Più la società tende ad un progetto di perfezione, più il razzismo acquista i suoi caratteri specifici. Nel caso dell’Olocausto il progetto era costituito dal Reich millenario, il regno dello Spirito Tedesco liberato, presente in modo totale nella stupenda e terribile musica wagneriana, ma di certo non per gli ebrei, poiché essi non potevano far parte né del Geist, né tanto meno del Volk tedesco. Si pensi, a questo proposito, alla manipolazione da parte nazista, dell’alta cultura tedesca che, venendo ad essere sfruttata per la sua immensa grandezza e tragicità, viene reinterpretata, e non fraintesa, dal momento che i capi nazisti, essendo spesso assai colti, erano in grado di compiere danni devastanti, in nome dell’esaltazione del popolo tedesco. E così assistiamo all’appropriazione di Beethoven e Mozart, di Hegel e Nietzsche, di Goethe e Wagner. L’esaltazione è totale; grazie al forte senso di spettacolarità drammatica della coreografia nazista, l’alta cultura tedesca viene spettacolarizzata a fini di esaltazione collettiva in un’orgia di suoni, croci runiche, parate militari in costume, fuochi divoranti, adunate esoteriche, culti magici e pagani. Si evoca il Reich di Federico I e Himmler sostiene di essere la reincarnazione di Enrico l’uccellatore, padre del grande sassone Ottone I. E’ proprio l’esaltazione a portare ad esiti catastrofici. Non esiste droga più potente, per l’uomo-massa, dell’esaltazione mutuata da temi di grande cultura, per lui inaccessibili razionalmente ma orecchiabili istintualmente: «Chi sono questi ebrei? cosa fanno sul nostro sacro suolo?» Quando il Führer dirà alle masse tedesche che il tempo della catarsi è giunto, i volonterosi carnefici dello stato totalitario si lanceranno come lupi famelici sull’agnello sacrificale.

Il fenomeno dell’antisemitismo tedesco è proprio di un popolo  che per il bisogno di imporsi ed elevarsi sopra gli altri (si pensi al bellissimo inno tedesco, composto da Haydn), perché pensa di avere una missione da svolgere, ha perso il senso della misura, riuscendo a coinvolgere il male e il bene in un turbine, tramite cui milioni di persone si convinsero  che uccidere tutti gli ebrei d’Europa fosse Giusto e fosse Bene. Gli ebrei, di fronte a tutto ciò, restarono in silenzio, non gridarono la loro disperazione; non rivendicarono la loro umanità; poiché tutto questo è stato forse una cifra dell’assoluta impotenza di Dio, della sua impossibilità di intervenire nella storia del mondo, della sua sofferenza nel vedere il male trionfante.

5.3. L’antisemitismo come motivazione al genocidio

“Nel corso dell’Olocausto i tedeschi tolsero la vita a sei milioni di ebrei e, se la Germania non fosse stata sconfitta, ne avrebbero annientati altri milioni. L’Olocausto fu il tratto caratterizzante della vita e della cultura politica tedesche nel periodo nazista, l’evento più sconvolgente del XX secolo e il fenomeno meno comprensibile dell’intera storia della Germania. La persecuzione degli ebrei è l’aspetto saliente della realtà tedesca, non tanto perché ci lascia retrospettivamente esterrefatti di fronte all’evento più traumatico del secolo, ma per il significato che ebbe per i tedeschi del tempo e per i motivi che indussero tanti di loro a prendervi parte”.

Così scrive Daniel Goldhagen in una delle opere più illuminanti sulla Shoah; assistente di amministrazione e studi sociali ad Harvard, all’età di 38 anni ha scritto I volenterosi carnefici di Hitler e nel 1994 ha vinto il premio Award per la tesi di dottorato, dove sostiene che il dittatore tedesco trovò in Germania un terreno assai fertile. Egli non afferma che esista un carattere nazionale dei tedeschi o una loro innata predisposizione psicologica verso lo sterminio. Non offre giudizi morali ma una precisa ricostruzione storica basata su documenti di sicura attendibilità. Secondo Goldhagen, chi vuole spiegare lo sterminio deve concepirlo come una fase della storia tedesca e come il risultato di un processo che poteva essere evitato; infatti, se non ci fosse stata la crisi economica del ‘29 probabilmente Hitler non sarebbe mai giunto al potere. La tesi centrale del suo lavoro è che i tedeschi avevano la volontà di uccidere gli ebrei e questa derivava dall’antisemitismo; tuttavia, senza l’avvento dei nazisti al potere, tale antisemitismo sarebbe rimasto latente. Goldhagen rifiuta l’idea di “colpa collettiva” ma indica alcuni fattori che possono spiegare la larga e “volonterosa” partecipazione dei Tedeschi allo sterminio:

1 – in Germania il delirio criminale dei nazisti trovò un terreno favorevole nella preesistente, diffusa presenza di feroci sentimenti antisemiti. Bisogna comunque sottolineare il fatto che anche in altri paesi d’Europa i nazisti incontrarono più o meno vasti consensi popolari nell’attuazione dello sterminio.

2 – Il programma di sterminio nazista abbracciava l’intera Europa ma solo in Germania sarebbe stato possibile avviarlo a realizzazione. Solo il Reich tedesco infatti aveva la forza per farlo. In altri paesi europei l’antisemitismo feroce presente a livello di opinione si è trasformato in azione solo in presenza della macchina organizzativa tedesca.

La grande maggioranza dei Tedeschi, secondo Goldhagen,  era propensa ad una soluzione eliminazionista. Le aggressioni agli ebrei e i tentativi di accelerare il programma eliminazionista, non venivano certo soltanto dalla ferocia della società tedesca; l’iniziativa di escludere gli ebrei dal contratto sociale fu intrapresa dalla più eterogenea estrazione di classe, ben prima che venisse imposta dallo Stato. Nella società tedesca l’odio per gli ebrei accomunava le classi sociali eliminandone le differenze. La “notte dei cristalli”, segna l’inizio della caccia aperta agli ebrei. Il mondo di fronte a questo evento reagì generalmente con indignazione: il popolo tedesco non reagì affatto.

Dopo la notte dei cristalli – ha detto Alfons Heck, a suo tempo membro della gioventù hitleriana – nessun tedesco abbastanza grande da camminare poteva più dire di ignorare la persecuzione e nessun ebreo poteva più illudersi che Hitler si sarebbe accontentato di qualcosa di meno di una Germania Judenrein.

Il fratello di Klaus Von Stauffenberg, autore di un fallito attentato contro Hitler, ha detto:

“Nella sfera della politica interna condividevamo per gran parte i dogmi fondamentali del nazionalsocialismo… il concetto di razza ci pareva sano e molto promettente; l’unica obiezione è contro la sua applicazione esagerata e portata troppo avanti”.

Con l’inizio della guerra, si moltiplicarono le persecuzioni, le aggressioni, le uccisioni e gli eccidi. Questi venivano perpetrati soprattutto dai battaglioni di Polizia. Il regime colmava i ranghi dei battaglioni in modo casuale, con gente comune. Nel battaglione 101, ad esempio, su duecentoventi uomini solo quaranta erano iscritti al partito nazista. I battaglioni non perpetravano le loro azioni omicide in un vuoto sociale. Dopo aver massacrato migliaia di ebrei inermi, gli uomini rientravano a casa, riallacciavano le loro solite relazioni sociali che, anzi, non avevano mai propriamente interrotto. Il fatto che impressiona maggiormente è che erano stati avvertiti che nessuno sarebbe stato punito se si fosse rifiutato di uccidere.

“So bene che i campi di annientamento erano usati per uccidere. Il mio compito era aiutare ad uccidere. Se dovessi essere condannato lo riterrei giusto. L’omicidio è omicidio. A mio giudizio, nel valutare la colpevolezza non bisognerebbe considerare la funzione specifica del singolo nel campo. Quale che fosse il nostro posto eravamo tutti ugualmente colpevoli. Il funzionamento del campo dipendeva da una catena di funzioni. E in una catena, se solo manca un anello l’intero funzionamento si arresta”.

Una delle interpretazioni più convincenti è quella della Arendt circa la banalità del male. La società di massa produce veri e propri mostri che banalmente uccidono, non un nemico vero, ma chiunque si ritenga, per varie ragioni, nemico. Il campo di sterminio nazista ricorda la meccanica stupidità del Lucifero dantesco che maciulla corpi nelle sue orride e bavose bocche senza comprendere il senso di ciò che fa. Non a caso a Norimberga tutti gli accusati risposero: “non sono responsabile, ho eseguito degli ordini”. Il male rappresentato dal nazismo è banale nella sua ritmica e stupida attuazione. Migliaia di uomini e donne “normali” – brave persone, bravi cittadini – hanno banalmente condotto a morte milioni di ebrei, come se eseguissero un “lavoro” qualsiasi, con meccanica quanto stupida precisione.

5.4. Auschwitz-Birkenau

Ho voluto chiamare così, col nome del più tristemente famoso lager nazista, “tutta” l’esperienza dei campi. Col nome Auschwitz intendo designare una condizione assoluta, per cui è indifferente che in questo paragrafo si parli del lager di Dachau o di Mauthausen piuttosto che di quello reale di Auschwitz. Auschwitz viene universalmente considerato il simbolo dello sterminio a causa dell’altissimo numero delle vittime e, soprattutto, della luciferina modalità pragmatica di esecuzione; anche la sua collocazione geografica non dipende dal caso: venne scelta appositamente al centro dei territori occupati dai Tedeschi nel corso della guerra. Se si traccia una linea immaginaria che va dalla Norvegia alla Grecia, il campo di Auschwitz si trova proprio a metà. Capitale di un silenzioso e malcelato terrore e centro raggiungibile da ogni punto dell’impero demoniaco.

Dopo la notte dei cristalli i primi ebrei erano stati internati temporaneamente nei campi. Più tardi vi entrarono in modo duraturo, come ultimo passo del loro isolamento e annientamento. Gli ebrei nei campi venivano trasformati proprio negli stereotipi che i tedeschi avevano di loro. Il modo in cui gli ebrei venivano deportati e trattati nei campi era ideato per togliere loro ogni dignità umana: quando non venivano uccisi fisicamente, venivano uccisi psicologicamente. Molti ebrei venivano costretti a frodare, rubare e tradire e diventare così, agli occhi delle S.S., ciò che i nazisti volevano che gli ebrei fossero: ladri, traditori. Le S.S. mettevano gli internati gli uni contro gli altri. Tra gli internati avevano imposto una dura gerarchia: ovviamente gli ebrei ne costituivano il gradino più basso mentre i “kapò”, spesso criminali comuni, scelti proprio per il loro sadismo, costituivano lo strato superiore della gerarchia del campo, dirigevano i lavoratori ed erano a loro volta controllati da un gruppo di S.S. che per lo più stavano in disparte. Anche in questo i nazisti erano demoniaci perché lasciavano portare agli stessi internati il peso della sorveglianza e della repressione nei confronti dei compagni.

Quel che avveniva nei lager – a cominciare dal tentativo di trasformare gli ebrei internati secondo la sordida immagine che ne avevano i nazisti – ha il suo miglior testimone nel comandante di Auschwitz, Rudolf Höss. Egli accusava gli ebrei di agire in modo “tipicamente ebraico” e nemmeno davanti alla forca Höss ammise le sue responsabilità nel comportamento delle sue vittime. Höss riteneva in sostanza gli ebrei responsabili della loro stessa distruzione. Höss raccontò senza vergognarsi che, guardando le lunghe file di uomini, donne e bambini avviati verso la morte – astratta massa uniforme di nemici, di esseri umani degenerati – egli sognava la sua famiglia, il suo cane e i begli alberi di ciliegio. Höss proiettava i suoi sogni borghesi nel bel mezzo della morte di massa. Niente illustra meglio la corruzione dei valori della classe media di cui il nazismo si era appropriato con tanto successo; Höss si considerava una persona rispettabile, morale, onesta, un buon padre e un buon marito.

Quando Höss parla dello sterminio, ne parla come del “suo lavoro” e confessa che cercava di svolgerlo bene, nel modo più coscienzioso. Nell’autunno del ‘41, si compirono ad Auschwitz i primi esperimenti col gas mortale Zyklon B, usando prigionieri di guerra sovietici. Auschwitz diventò il centro di sterminio principale nel 1943, quando arrivarono i deportati dall’Europa occidentale. Rudolf Höss si gonfiava d’orgoglio per i sistemi di eliminazione che aveva escogitato, ricordava come gli ebrei venissero accompagnati in gruppo alle docce mortali; era fiero di spiegare, nel suo memoriale, come, malgrado i segni dell’assassinio fossero ovunque, gli sforzi per rassicurare le vittime continuassero fino all’ultimo, perché tutto “si svolgesse in un’atmosfera il più possibile calma”. Lo stesso Höss ci racconta comunque che, malgrado il suo efficientismo, il lager riusciva con fatica a svolgere il “lavoro” assegnato. Durante il massacro degli ebrei ungheresi, si uccidevano più di novemila persone al giorno il che creava grossi problemi: ingorghi all’ingresso del campo, crematori che non riuscivano a distruggere in tempo i corpi, magazzini strapieni di effetti personali dei morti non classificati. E naturalmente la corruzione regnava ovunque: “l’oro ebraico era una catastrofe per il campo”, spiegava Höss, senza rendersi conto quanto grottesca fosse una tale affermazione.

Forse là dove neppure lo storico riesce a comprendere, possono venirci in aiuto gli psicanalisti; essi si muovono con maggiore libertà attraverso un mondo da incubo, dove la realtà è talmente orribile da non essere ritenuta tale. Non a caso una delle trattazioni più autorevoli sul tema è di Bruno Bettelheim, internato a Dachau e Buchenwald. La teoria di Bettelheim viene considerata come il corrispondente psicologico delle tesi di Hilberg e della Arendt, sulla passività degli ebrei. Secondo la sua teoria, una condizione essenziale per la sopravvivenza nei campi era la capacità di conservare l’autonomia individuale e il senso della propria identità. I nazisti cercavano, e quasi sempre riuscivano, di spezzare l’autonomia delle vittime, disumanizzandole, trasformandole in esseri incapaci di resistenza. In questo modo si ottenevano i cosiddetti «musulmani», persone private di ogni affetto, di qualsiasi autostima, sfinite sia emotivamente che fisicamente. Musulmano nel linguaggio dei lager veniva chiamato il prigioniero che aveva abbandonato ogni speranza; lo chiamavano così perché essendo completamente debilitato, non riusciva a reggersi in piedi e stava rannicchiato per terra come un arabo in preghiera. Primo Levi rivela che i «musulmani» costituivano la spina dorsale del campo, la maggioranza dei prigionieri. In ogni modo Bettelheim è cosciente che la possibilità di sopravvivenza dipendeva quasi esclusivamente da una straordinaria fortuna e da un intervento esterno; i prigionieri potevano fare ben poco per mutare la propria sorte. Secondo Agamben l’aporia di Auschwitz è la stessa aporia della conoscenza storica: la non-coincidenza tra fatti e verità, fra constatazione e comprensione. “Tra il voler capire troppo e troppo presto di coloro che hanno spiegazioni per tutto e il rifiuto di capire dei sacralizzatori a buon mercato, indugiare in quello scarto c’è parsa l’unica via praticabile”.

Una delle lezioni di Auschwitz è proprio che capire la mente degli uomini comuni è molto più difficile che comprendere la mente di Spinoza o di Dante. Ora, immaginiamo uomini comuni che testimoniano qualcosa che non può essere testimoniato, come l’orrore del lager che è talmente pesante da renderlo indicibile. Così, quando lo storico vuole ricostruire ciò che è accaduto in quell’inferno, non può fare a meno di ascoltare anche ciò che non è stato detto. I testimoni del lager non possono «dire» la verità, perché mancano le parole. Essi possono soltanto pensare ed esprimere col silenzio la verità. Gli aguzzini sapevano bene che, malgrado stessero per venire sconfitti, nessuno avrebbe potuto valutare la totale portata dell’orrore dei campi, e questo li rendeva orgogliosi, trionfanti una volta di più sulle vittime. Questo perché i veri testimoni sono coloro che non hanno potuto testimoniare, sono i sommersi, i musulmani, coloro che non hanno storia.

Tutti i musulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino in fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per deperimento. La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Muselmanner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente… e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.

Anche Höss, ben nutrito e ben vestito, è comunque un musulmano. Scrive Bettelheim:

“Anche se la sua morte fisica doveva avvenire soltanto più tardi, a partire dal momento in cui assunse il comando di Auschwitz, egli divenne un cadavere vivente. Non era un musulmano, perché era ben nutrito e ben vestito. Ma si era completamente spogliato del rispetto di sé e dell’amor proprio, di ogni sentimento, di ogni personalità, fino a non essere più che una macchina di cui i superiori manovravano i bottoni di comando”

Secondo Nietzsche, il risentimento nasce dall’impossibilità per la volontà di accettare che qualcosa sia accaduto, dall’incapacità di riconciliarsi col tempo e col suo «così è stato».   Ciò che ancora oggi non ci consente di riconciliarci col passato è l’offesa suprema che le S.S hanno arrecato all’umanità: ad Auschwitz non si moriva, si fabbricavano cadaveri. I nazisti hanno tolto all’uomo anche la morte oltre alla vita, hanno degradato la morte ad evento seriale e tecnologico; nei campi l’essere della morte è precluso e gli ebrei non muoiono, ma vengono prodotti come cadaveri.

Auschwitz è il simbolo della follia e della barbarie naziste. Follia talmente irrazionale da organizzare tutto nei minimi dettagli; tutto veniva deciso e attuato talmente bene da rischiare di cancellare quanto stava avvenendo. Questo campo doveva rendere possibile l’effettiva, efficiente e sollecita attuazione della soluzione finale del problema ebraico, cioè lo sterminio degli ebrei europei, secondo le indicazioni della conferenza di Wannsee. Nei pressi del villaggio polacco di Oswjecim fu individuato un vasto terreno demaniale che circondava una caserma d’artiglieria in disuso. Questo complesso di 32 edifici poteva costituire il nucleo ideale per l’installazione di un lager. Visti i piani e sentiti i pareri degli esperti, si ordinò di costruire un campo della capacità di almeno 100.000 persone, al quale fu dato il nome, in tedesco, di Auschwitz. Migliaia di prigionieri russi e polacchi cominciarono ad affluire al campo per contribuire ai lavori e per lavorare a loro volta nelle aziende agricole e nelle fabbriche che sorgevano numerose intorno al campo. Si trattava di imprese allettate dai bassi costi di produzione, giacché la manodopera era quella pressoché gratuita fornita dai lager. Esistevano inoltre vantaggiosi contratti di appalto, dai quali l’Amministrazione delle S.S. ritagliava generosamente la propria fetta di guadagno. Auschwitz fu anche un’estensione del moderno sistema di fabbrica: invece di produrre merci, esso utilizzava gli esseri umani come materia prima e sfornava, come si è detto, la morte come prodotto finale. Il campo principale in breve non fu più sufficiente, così accanto ad Auschwitz sorsero prima Birkenau, cioè Auschwitz II, e poi Monowitz, ossia Auschwitz III. Oltre a questi lager si moltiplicavano, per le esigenze della produzione, i comandi esterni, permanenti o temporanei. Un vasto territorio, rigorosamente isolato dal resto del mondo, brulicava di deportati, uomini e donne, provenienti da tutti i paesi invasi e occupati dai nazisti. Auschwitz era una vera e propria zona industriale, in pieno fervore di attività: il luogo, come già detto, venne scelto perché, tracciando una linea curva dalla Norvegia ai Balcani, si trova al centro dei territori occupati dai nazisti e quindi più facilmente raggiungibile da ogni luogo del triste impero. La manodopera non mancava, continuamente sostituita da nuovi arrivi, dato che la disciplina, la denutrizione, il clima, la fatica contribuivano alla falcidia dei deportati. Per coloro che, arrivando al campo, erano considerati abili al lavoro, le prospettive di sopravvivenza non superavano i tre mesi. Non mancavano inoltre le fucilazioni di massa, per supposti sabotaggi, le punizioni individuali, cui pochi riuscivano a resistere, e le camere a gas.

Queste funzionavano ininterrottamente, ad Auschwitz e a Birkenau, ingoiando convogli interi di ebrei, provenienti dalla Germania, dalla Polonia, dalla Francia, dall’Ungheria, dal Belgio, dall’Olanda, dalla Grecia, dall’Italia. Treni e treni di persone, stipate come bestiame, scaricate sulle rampe dei lager ed avviate alle finte docce dalle cui tubature, invece di acqua, usciva il gas letale, il famigerato Zyklon B, un conglomerato di cristalli di silicio saturati con acido cianidrico, prodotto dalle consociate di quella stessa IG Farben che impegnava il maggior numero di prigionieri nello stesso campo di Auschwitz. Infatti il campo era stato progettato, costruito, organizzato per questo: da un lato sfruttare la manodopera che le S.S. vendevano a condizioni di favore alle industrie installate nei dintorni, dall’altro procedere allo sterminio soprattutto degli ebrei, ma anche degli zingari, a ritmi accelerati. Nel frattempo specialisti delle S.S. studiavano gli effetti delle infezioni, degli aborti, dei trapianti di organi, del comportamento al limite delle possibilità di sopravvivenza in condizioni atmosferiche impossibili, usando come cavie i prigionieri attinti dai convogli, prima di mandarli nelle camere a gas. Quando il crematorio non riusciva a smaltire la razione giornaliera di cadaveri, questi venivano bruciati in grandi cataste nei dintorni del lager, appestando l’aria di un odore nauseante. Per quantità e qualità, Auschwitz è stato il lager dove l’inventario dei crimini, degli orrori e della morte ha assunto dimensioni apocalittiche.

Auschwitz è stato un enorme progetto d’ingegneria sociale; la macchina della distruzione non era, dunque, strutturalmente diversa dall’or-ganizzazione sociale tedesca nel suo complesso. La macchina della distruzione era la comunità organizzata in uno dei suoi ruoli specifici. Alle S.S. i lager rendevano anche quando gli schiavi erano morti; c’erano le loro spoglie da dividere. Treni interi di indumenti sottratti ai deportati, camion carichi di casse di gioielli e di denaro furono spediti da Auschwitz a Berlino, al quartier generale delle S.S.: anche questi erano i proventi della soluzione finale. Nel clima di terrore e morte, vi furono però alcuni che ebbero il coraggio di organizzare una resistenza clandestina, non esitando a favorire il sabotaggio, aiutando i più deboli e tentando la fuga; resistere non era facile ma necessario. Alcuni si rivoltarono e tentarono l’impossibile: furono sopraffatti e caddero riscattando la loro dignità di esseri umani.

Il 17 gennaio 1945, quando le armate russe puntavano decisamente in direzione di Cracovia, il campo fu sgomberato. Tutti coloro che potevano camminare furono avviati, a marce forzate, verso altri campi. Fu un’altra tragedia. Migliaia di uomini e donne furono abbattuti a colpi di mitra, quando non riuscivano più a muoversi. Nei campi ai quali erano destinati, giunsero ben pochi, ridotti in condizioni pietose. Le avanguardie del 62° corpo delle armate russe del fronte ucraino entravano in Auschwitz il 27 gennaio 1945, salvando alcune centinaia di creature che di umano non avevano più nulla e seppellendo una montagna di cadaveri.

5.5. Conclusioni (se è possibile un perché)

Perché il regime nazista cercò di cancellare il popolo ebraico dalla faccia della terra? Da decenni gli storici cercano di rispondere a questa domanda, e le diverse risposte da loro fornite in saggi e articoli compongono una vastissima bibliografia in costante arricchimento. All’estero esistono corsi di insegnamento universitario e riviste specificamente dedicate all’argomento ma è vero che nella coscienza dell’uomo comune questo lavoro di ricerca sembra lasciare poche tracce. Tuttora persistente e diffuso è il luogo comune che imputa la persecuzione degli ebrei alla follia solitaria di Hitler.

Esistono studi psicoanalitici dedicati alla personalità di Hitler, che hanno scavato nella sua biografia e imputato le sue ossessioni antisemite al ricordo della madre morta mentre era in cura da un medico ebreo; alla base delle sue scelte ci sarebbe, inconfessato e magari inconsapevole, il bisogno di liberarsi da un complesso di inferiorità da lui nutrito nei confronti di una famiglia di ebrei di Linz.

Naturalmente queste spiegazioni non vogliono né possono esaurire tutta la problematica suscitata dalla mostruosa politica di annientamento messa in atto dal nazismo, sulla base di precise scelte di classe e di motivazioni economiche. La storia personale di Hitler serve semmai a farci capire meglio certi particolari difficilmente interpretabili da un punto di vista razionale. In ogni caso, ci mette in contatto con la mente patologica di uno dei più grandi assassini «legalizzati» che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. Può darsi che le interpretazioni basate sui suoi rancori giovanili abbiano un senso, ma non possono spiegare la forza plurisecolare dell’antisemitismo in Europa, sviluppatosi ben oltre i confini della Germania, soprattutto nell’Europa orientale, in Russia e in Francia, e ben prima della nascita di Hitler, con radici religiose che affondano nel fanatismo cristiano. Né possono  spiegare il consenso di massa offerto dal popolo tedesco alla propaganda nazista, le complicità e collaborazioni al progetto di sterminio da parte di molti paesi europei, compresa l’Italia. Nel testamento che lasciò ai posteri, prima di togliersi la vita nel bunker berlinese assediato dall’Armata rossa, Hitler fu molto chiaro sulla centralità della pulizia etnica antiebraica nel programma nazista: “Soprattutto impongo ai dirigenti della nazione di mantenere rigorosamente le leggi razziali e di opporre una resistenza inesorabile all’avvelenatore di tutti i popoli, il giudaismo internazionale”.

La centralità dell’antisemitismo nel disegno nazista non venne tuttavia riconosciuta da quegli storici che interpretarono il nazismo come rivoluzione conservatrice al servizio dei potentati capitalistici. Secondo questa lettura la persecuzione antisemita era infatti soltanto una parte della persecuzione condotta dal regime nei confronti delle classi popolari e dei partiti di sinistra. Era interesse del Terzo Reich perseguitare gli ebrei per trarne un vantaggio economico: mettere le loro case e i loro posti di lavoro  a disposizione del popolo tedesco, requisire i loro patrimoni,  schiavizzarli  come manodopera industriale al servizio dello sforzo bellico con costi vicini allo zero. Ma la logica razziale dello sterminio non era solo la maschera di interessi economici, bensì il fulcro dell’intero sistema. Tanto è vero che gli ebrei dei ghetti dell’est che affidarono a questa logica economica la propria sopravvivenza – “finché siamo utili lavorando, non ci uccideranno” – furono tragicamente disillusi e morirono a migliaia trascinati a loro volta nei lager. In realtà il progetto nazista di uno Stato fondato sulla pulizia etnica va preso sul serio: non era semplicemente propaganda. I criteri del miglioramento della razza furono applicati con vigore nel campo dell’eugenetica, dell’eutanasia, della sterilizzazione femminile, della pianificazione familiare. Per questa ragione vi sono storici cosiddetti intenzionalisti, che attribuiscono a Hitler fin dall’inizio il disegno di un’elimina-zione delle minoranze da perseguire con ogni mezzo. A questa interpretazione si è contrapposta la schiera composita degli storici cosiddetti funzionalisti, che hanno sottolineato l’esistenza di più centri di potere all’interno della dittatura hitleriana; essi individuano nei rapporti tra gli apparati di governo nazisti la manifestazione di tendenze diverse: le scelte del regime, a loro parere, sarebbero il frutto dei conflitti tra i vari centri di potere. Tutti questi storici concordano con gli intenzionalisti sull’esistenza di un disegno centralizzato di eliminazione degli ebrei dalla comunità razziale, ma individuano modi e tappe differenti nel processo di formazione di una scelta definitiva a favore dello sterminio di massa.

Nella sua opera monumentale, La distruzione degli ebrei d’Europa, Raoul Hilberg descrive i mezzi diversi dall’uccisione fisica, impiegati dal nazismo almeno sino al 1941 per allontanare gli ebrei dai territori controllati dalla Germania e separarli nei ghetti delle città polacche. Egli, inoltre, sottolinea il nesso tra il genocidio e il nuovo tipo di guerra che il regime nazista introdusse con l’invasione dell’Unione Sovietica: una guerra finalizzata all’instaurazione di un dominio coloniale e all’asservimento di interi popoli. Altri storici, come Arno Mayer, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, e P. Burrin, Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio, collocano invece la decisione delle uccisioni in massa nell’autunno del 1941 e la interpretano come conseguenza dell’arresto dell’avanzata tedesca sul fronte russo e del rapido peggioramento delle fortune militari del Terzo Reich. Secondo Mayer, quindi, la politica antisemita del regime nazista assume un’importanza subordinata rispetto alla funzione antibolscevica e anticomunista del nuovo ordine europeo progettato da Hitler.

Una versione più estrema dell’ipotesi funzionalista è stata infine proposta da storici tedeschi come M. Broszat, C. Streit e H. Mommsen, che negano l’esistenza di un ordine centrale di sterminio impartito da Berlino e interpretano le origini del genocidio come un processo di “radicalizzazione cumulativa” che avvenne in periferia per iniziative autonome locali. Iniziative che – secondo questi storici – maturarono nel contesto del fallimento dell’offensiva nazista e di un imbarbarimento globale della guerra ad est: nelle retrovie del fronte, così come nei ghetti urbani, quella dello sterminio divenne gradualmente la scelta più facile ed efficace in una situazione di crescente scarsità delle risorse e di sconfitta militare.

La convivenza tra Ebrei e Tedeschi era secolare eppure venne frantumata. All’inizio di aprile del 1933, disperando per l’avvenire, la Zentral Verein Zeitung, organo degli ebrei assimilazionisti, pubblicò un articolo che richiamava la celebre frase dell’eroe goethiano che esprime la propria frustrazione amorosa: “Se io ti amo, fino a che punto la cosa ti riguarda?”. La rivista sionista Judische Rundschau rispose: “Se io ti amo, ciò ti riguarda. Bisogna che il popolo tedesco lo sappia: non è così semplice rompere un’alleanza secolare”. Eppure quell’alleanza venne rotta.

Il Faraone, guardando gli ebrei, decise subito «Tormenterò questi lazzaroni, mi fabbricheranno i mattoni».

Il Faraone esprime bene l’idea del lavoro come tormento per gli ebrei, soprattutto il lavoro inutile; i Tedeschi, veri eredi del Faraone, erano contenti quando potevano costringere gli ebrei a faticare inutilmente; nel campo di Buchenwald si costruivano muri, per abbatterli il giorno dopo. Quando, nel marzo del 1938, l’Austria venne annessa alla Germania, ci furono scene di grande entusiasmo a Vienna; gli Austriaci, convinti che gli ebrei avessero danneggiato la loro società, costrinsero, in mezzo a quell’entusiasmo, uomini, donne e bambini ebrei a lavare le strade e gli edifici di Vienna; nel quartiere di Wahring, uno dei più ricchi della città, i nazisti ordinarono alle donne ebree di pulire le strade con indosso la pelliccia, poi le fecero inginocchiare e urinarono sul loro capo. Il lavoro degli ebrei veniva visto dai nazisti come annientamento; essi li costringevano a fatiche finalizzate soprattutto a provocare sofferenze e morte. Gli internati nei campi di lavoro spesso non eseguivano alcun lavoro utile: ogni giornata iniziava con un appello che poteva durare ore e nel corso del quale molti venivano picchiati fino a restare mezzi morti. Il lavoro era visto in senso antieconomico, anzi potremmo parlare di autolesionismo economico dei nazisti. A loro interessava umiliare, far soffrire, uccidere gli ebrei e il lavoro doveva servire a questo. I nazisti sono arrivati al punto di togliere al lavoro l’essenza umana e lo hanno rovesciato in qualcosa di assolutamente inutile. Molti ebrei pensavano di essere utili ai Tedeschi come lavoratori; appena giunti nel campo si rendevano conto della verità: il lavoro era uno dei mezzi per sterminarli.

Christian Wirth, Sturmbannführer (Maggiore) e ispettore dei campi, al tempo dell’operazione “Reinhard” aveva come unico obiettivo il massacro sistematico degli ebrei. Il Flughafenlager, fondato nell’autunno del 1941, si trovava sulla via che porta da Lublino a Majdanek; in questo campo, come negli altri, si consumarono le più atroci crudeltà a danno degli ebrei. Di regola nei campi i bambini venivano eliminati subito anche perché erano il simbolo della sopravvivenza del popolo ebraico. Uccidere i bambini significa uccidere il futuro. Un’unica eccezione era permessa nel panorama desolato del Flughafenlager: un ragazzino ebreo di circa dieci anni che Wirth colmava di attenzioni gentili. La sua cortesia era in funzione di una ben studiata crudeltà. Wirth aveva donato un pony al bambino ebreo, gli aveva fatto confezionare una divisa da ufficiale nazista, adatta al suo piccolo corpo e lo aveva dotato di una mitraglietta simile alla sua. Spesso cavalcavano in mezzo ai detenuti e, all’improvviso, Wirth invitava il bambino a sparare sui suoi simili uccidendo due o tre persone per volta, ricompensandolo poi con alcune leccornie. Tra le vittime ci furono pure il padre e la madre del bambino completamente plagiato dal nazista. L’unico bambino del campo, quello che avrebbe potuto accendere un minimo di speranza nelle vite miserabili degli ebrei, era un uomo delle S.S. in miniatura; nessun messaggio poteva riuscire più dolorosamente drammatico e chiaro: il mondo è stato capovolto, per voi non esiste possibilità di sopravvivenza.

Uno dei medici tedeschi di Auschwitz, Heinz Thilo, definì il lager anus mundi, l’orifizio mediante il quale i Tedeschi evacuavano ciò che essi ritenevano l’escremento sociobiologico dell’umanità: gli ebrei.

Lo sterminio non aveva una natura pragmatica, ma rispondeva alla brutalità volontaria, motivata dalle crudeli passioni individuali. Dopo la conferenza del Wannsee del gennaio ‘42, i treni iniziarono a viaggiare da est e da ovest diretti verso i campi di sterminio costruiti in Polonia. L’operazione Reinhard – nome in codice del piano approntato per eliminare gli ebrei del Generalgouvernement della Polonia – iniziò nel mese di marzo. Nel ‘43 il serbatoio polacco di ebrei dell’Europa orientale venne svuotato e i nazisti si volsero alla ricerca di nuove vittime in Europa occidentale; e tutto ciò mentre la situazione militare andava peggiorando. Addirittura, quando le armate sovietiche iniziarono la controffensiva e alcuni campi vennero frettolosamente abbandonati, i nazisti  ricorsero alle marce della morte per annientare gli ebrei che non erano stati gasati per mancanza di tempo. Nel 1944 vennero uccisi più di 400.000 ebrei ungheresi. L’ingranaggio della distruzione fu efficacissimo in Polonia e nelle zone occupate dell’Unione Sovietica, dove gli ebrei erano a portata di mano e i nazisti controllavano completamente il territorio; in occidente le S.S. dovevano invece appoggiarsi a migliaia di poliziotti locali e burocrati stranieri che sbrigassero una considerevole mole di lavoro cartaceo occorrente alle deportazioni. Sino al 1942, anno dell’inversione di tendenza sul piano bellico, i paesi collaborazionisti fornirono senza esitare questo supporto, ma, a partire da quell’anno, rallentarono il ritmo. Il numero dei deportati e quindi delle vittime calò sensibilmente.

 (Da Nicolò Scialfa, Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare, Roma, 2002)

J.V.

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