Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare. Capitolo 6

Capitolo sesto

Il revisionismo storico

La verità nulla menzogna frodi

(Dante, Inferno, c. XX, v. 99)

6.1. Il processo di Norimberga e la colpa della Germania

Nel 1945 era comune a tutti i sopravvissuti la convinzione di essere scampati ad un disastro senza precedenti nella storia umana. La guerra appena finita era stata una guerra totale che aveva causato morti, feriti e sofferenze in proporzioni incalcolabili. Hiroshima e Auschwitz erano i nomi-simbolo di questa nuova tragica realtà: come poteva il mondo premunirsi contro il loro ripetersi? Le nazioni vincitrici si posero questa domanda nell’affrontare i problemi dell’assetto da dare alla Germania post-nazista e del trattamento da riservare ai responsabili dei crimini di guerra.

La costituzione di un tribunale militare che giudicasse il Terzo Reich si presentava come una soluzione problematica, che non mancò di sollevare opposizioni, soprattutto da parte di Churchill. Fino ad allora gli accordi sottoscritti dalle maggiori potenze del mondo si erano limitati a regolare il trattamento di militari prigionieri di guerra. Il diritto internazionale s’infrangeva infatti contro la barriera della sovranità nazionale degli stati e quindi contro la loro legislazione, ma soprattutto si limitava a fissare un “galateo” che la nuova e terribile realtà della guerra totale emersa con il secondo conflitto mondiale aveva mandato in frantumi. Era chiaro che i principi fissati all’Aja nella convenzione del 1907 e a Ginevra nel 1929 erano stati violati dagli eserciti hitleriani con il trattamento riservato ai deportati nei lager e con le rappresaglie ai danni di civili in risposta alle azioni partigiane. Ma, come rilevò la difesa tedesca al processo di Norimberga, anche inglesi e americani avevano bombardato intere città tedesche e giapponesi come Dresda o Hiroshima; i sovietici si erano spartiti la Polonia con Hitler e avevano fucilato quindicimila soldati polacchi a Katyn. La soluzione giudiziaria appariva quindi come una soluzione dotata di basi giuridiche internazionali solo sul terreno dei crimini di guerra. Per i crimini commessi da uno Stato contro i propri cittadini, come nel caso delle persecuzioni antisemite perpetrate dal nazismo, tale soluzione si rivelava del tutto inadeguata. Era però altrettanto chiaro che Hiroshima e Auschwitz rendevano indispensabile e urgente un nuovo diritto internazionale che limitasse la facoltà degli stati di perseguitare una parte dei propri cittadini, come anche di ricorrere alla guerra e di estenderla senza ritegno alle popolazioni civili.

Attraverso un lungo e complesso negoziato, Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna si accordarono nell’agosto 1945 per stendere una Carta che stabilisse le basi dell’azione giudiziaria delle potenze vincitrici e la tipologia dei reati perseguiti. Accanto ai crimini di guerra, definiti nei termini tradizionali di «assassinio, maltrattamento o deportazione» di popolazioni civili e prigionieri nemici così come di saccheggio e devastazione di abitati non giustificati da necessità militari, erano individuati altri due generi di reato: i crimini contro la pace, intesi come pianificazione di una guerra di aggressione, e i crimini contro l’umanità, vale a dire «assassinio, sterminio, schiavizzazione, deportazione e altri atti inumani commessi ai danni di ogni popolazione civile, prima o durante la guerra, o persecuzioni su base politica, razziale o religiosa in esecuzione o in connessione di ogni altro crimine sottoposto all’autorità del tribunale, siano esse compiute in violazione o meno delle leggi vigenti nel territorio dove sono perpetrate». Lo strappo giuridico di questa formulazione, ossia la sua novità saliente, non era indifferente. Per la prima volta il diritto internazionale oltrepassava i confini territoriali dello stato di diritto, sostituendosi esplicitamente – con l’ultima frase – alle leggi in vigore nella Germania nazista. Non solo: la Carta applicava in senso retroattivo nuove norme non ancora vigenti all’epoca dei reati. In conformità a questo strappo giuridico, ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi non fu riconosciuta l’attenuante dell’obbedienza ad ordini superiori, fissando un principio poi stabilmente osservato dalla giurisprudenza di molti stati: esistono principi morali elementari e universali superiori ad ogni legge e ad ogni consegna, la cui osservanza non solo consente, ma impone la disobbedienza.

I giudici di Norimberga e anche quelli del processo di Tokyo, intentato ai criminali di guerra giapponesi tra il maggio 1946 e il novembre 1948, difesero i principi della Carta, sostenendo la necessità di un diritto internazionale che garantisse la pace come un bene collettivo da proteggere con la legge. Norimberga e Tokyo, insomma, non si basavano sul passato e su una giurisprudenza consolidata, ma si appellavano al futuro di un nuovo ordine mondiale: lo stesso obiettivo che figurava in testa allo Statuto dell’Organizzazione delle nazioni unite, fondata a san Francisco nel giugno 1945. Proprio sulla base dei crimini contro l’umanità giudicati a Norimberga, la convenzione dell’Onu approvata nel 1948 definì il nuovo reato di genocidio, inteso come “azioni commesse con l’intento di distruggere per intero o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”. Lo strappo di Norimberga aveva insomma l’ambizione di prospettare un nuovo mondo, in cui l’esistenza stessa di un diritto internazionale implicasse un livello più alto di responsabilità umana.

Resta aperto il problema del mancato aiuto agli ebrei nel corso dello sterminio: il popolo ebraico, nel corso della Seconda guerra mondiale, fece propria la causa degli Alleati e contribuì alla vittoria finale; eppure le potenze alleate contro la Germania non diedero soccorso alle vittime. Il mondo ebraico europeo non aveva amici e quest’abbandono gettò in uno stato di confusione i dirigenti ebraici mondiali. Nel 1943 negli Stati Uniti, le principali organizzazioni ebraiche si erano raggruppate nell’American Jewish Conference; la terza sessione della Conferenza ebraica dimostrò ampiamente come gli Ebrei fossero stati traditi: il professor Hayim Fineman, del Partito laburista sionista disse:

“In termini di statistiche comparate, il numero degli ebrei annientati in quella che fu l’Europa hitleriana è pari a ventidue volte quello degli Americani che caddero in combattimento. Quello che rende la situazione così orribile, è il fatto che questa tragedia non era inevitabile. Molti di coloro che sono morti sarebbero ancora in vita se il nostro dipartimento di Stato, la Croce Rossa internazionale, l’organizzazione per i rifugiati di guerra e altri organismi non avessero rifiutato o ritardato l’azione di misure immediate.”

Piuttosto che esigere una vendetta di massa contro i tedeschi, i delegati alla prima sessione della Conferenza ebraica americana volsero i loro pensieri verso il futuro Stato d’Israele: questa fu la grande consolazione del Giudaismo. All’inizio non ci furono grandi commemorazioni, non si eressero monumenti, non si cercò di ricordare il significato di Auschwitz; poi, a poco a poco, si raccolsero documenti e, con un ritardo di vent’anni sugli avvenimenti, l’annientamento degli Ebrei ebbe un nome: Shoah. Così lo sterminio iniziò a far parte della coscienza ebraica e determinò, e determina ancora, l’identità ebraica. La reazione tedesca al processo di distruzione fu inversa ed esattamente di dissociazione e di discolpa; iniziarono così i tentativi grossolani di definire menzogne le testimonianze storiche; vennero riesumate vecchie fole concernenti la dominazione ebraica del mondo, leggende sul parassitismo ebraico: nasceva così il germe del revisionismo e quindi del negazionismo. Prendeva rilievo la questione della colpa tedesca e, conseguentemente, il rifiuto del proprio passato da parte di molti Tedeschi. Negli anni sessanta e settanta la Germania si risollevò economicamente, ma continuò ad essere isolata a causa del proprio passato. Nel 1985 il cancelliere Kohl invitò il presidente americano Reagan a recarsi nel cimitero tedesco di Bitburg, che racchiudeva le tombe di duemila soldati, quarantasette dei quali S.S.: Elie Wiesel, il sopravvissuto che presiedeva il Consiglio del memoriale dell’Olocausto, protestò perché un onore accordato in questo modo ai soldati delle S.S., copriva la Germania di un velo di innocenza collettiva, e chiese pubblicamente a Reagan di rinunciare alla visita. Kohl si ostinò nella sua idea, ma la sua vittoria venne pagata a carissimo prezzo, poiché il “passato” apparve agli occhi del mondo intero con una luce accecante. Emersero anche le responsabilità dei vincitori: nel loro sforzo di raggiungere la vittoria finale, le potenze vincitrici non avevano preso in considerazione un piano destinato a salvare una parte delle vittime della Germania. La decisione di punire i responsabili dei crimini veniva attuata troppo tardi e la liberazione dei sopravvissuti era un sottoprodotto della vittoria. Insomma, la parola d’ordine fu «prima la vittoria, poi la liberazione degli ebrei». Dopo la guerra, la questione della distruzione degli ebrei, urtava con gli sforzi che gli Alleati occidentali compivano per guadagnarsi i favori di quella parte di Germania che occupavano. Una situazione ambigua, in quanto la condanna della persecuzione cozzava con gli interessi degli Alleati. La rimozione si manifestò principalmente con il rifiuto di riconoscere il carattere particolare dell’azione tedesca o l’identità specifica delle vittime ebraiche: la dichiarazione di Mosca dell’ottobre 1943, firmata da Churchill, Roosevelt e Stalin, recita così:

“I tedeschi che partecipano alle fucilazioni sistematiche degli ufficiali italiani o alle esecuzioni di ostaggi francesi, olandesi, belgi o norvegesi o dei contadini cretesi, o che hanno partecipato ai massacri inflitti al popolo polacco o nei territori dell’Unione Sovietica, territori dai quali il nemico è stato spazzato via, sappiano che saranno riportati sulla scena dei loro crimini e giudicati sul posto dai popoli che hanno oltraggiato.” (Hilberg, La distruzione… p. 1143)

La questione della colpa dei tedeschi venne affrontata la prima volta nell’autunno del 1943, quando i dirigenti alleati iniziarono a pensare al trattamento che avrebbero riservato, dopo il conflitto, ai loro avversari dell’Asse; intanto si doveva chiarire cosa si intendesse per crimine e di conseguenza poter condannare i grandi criminali. Per gli ebrei il problema della definizione di crimine era di importanza capitale: la mancanza di punizione dei tedeschi per crimini commessi contro tutto un popolo, avrebbe significato che le nazioni democratiche approvavano l’annienta-mento degli ebrei. Per gli Alleati la nozione di ebreo ucciso per il solo motivo di essere ebreo, poneva grandi difficoltà. Nell’estate del 1945 le delegazioni dei vincitori si riunirono a Londra e i partecipanti presero in considerazione tre categorie di crimini. La prima era quella dei “crimini contro la pace”: inglesi e americani vedevano in questa l’essenza delle loro posizioni, in quanto dimostravano che Stati Uniti e Inghilterra, intervenendo contro l’aggressore tedesco, non avevano fatto nulla di illegale. La seconda era quella dei crimini di guerra, passibili di punizione secondo il diritto internazionale a cui potevano essere ricondotti anche molte delle atrocità compiute contro gli ebrei. Restavano, tuttavia, importanti segmenti di attività tedesche per le quali questa legge non si applicava. Essa non copriva automaticamente i provvedimenti antiebraici diffusamente applicati all’interno dei territori dell’Asse e, inoltre, non toccava i decreti del periodo precedente alla guerra. Le quattro delegazioni non avevano quindi ancora risolto il problema degli ebrei, perché le due categorie di crimini non coprivano la totalità delle azioni tedesche: in questo modo alcuni grandi criminali sarebbero sfuggiti alla condanna. Dopo molti tentennamenti e versioni preliminari, il tribunale fu investito del potere di giudicare gli accusati per crimini contro l’umanità, nei quali rientravano anche i crimini commessi a danno degli ebrei:

“l’assassinio, lo sterminio, lo schiavismo, la deportazione, e qualsiasi altro atto disumano commesso contro le popolazioni civili, prima o durante la guerra, o le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi quando questi atti o persecuzioni, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del Paese dove sono stati perpetrati , siano stati commessi in seguito a un qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale, a questo crimine collegati.” (Hilberg, La distruzione… p.1149)

Nel mese di novembre iniziò il processo a Norimberga, davanti ad un tribunale militare internazionale. Il principale accusato era Göring, oltre a Hess, Ley e Streicher, tutti uomini del partito. Come ministri erano accusati Schacht, Funk, Frick, Ribbentrop e von Papen; c’erano anche due alti funzionari della burocrazia centrale, Kaltenbrunner, Fritzsche, Speer e Sauckel in quanto responsabili della struttura degli armamenti e della mobilitazione della manodopera. Per quanto riguarda i militari erano presenti Keitel, Jodl, Raeder e Doenitz. A tutti questi si aggiungevano cinque capi territoriali: von Schirach (Vienna), von Neurath (Protektorat), Frank (Governatorato Generale), Rosenberg (Territori dell’est) e Seyss-Inquart (Paesi Bassi). Contro di loro esistevano prove scritte schiaccianti, corroborate da testimonianze verbali dei vecchi subordinati degli accusati, quali gli Staatssekretäre Bühler e Steengrachte le S.S. Ohlendorf, Wisliceny, Hottl, Höss e Pohl. La difesa poteva aspettarsi poco. Gli accusati dichiaravano di non essere a conoscenza dei fatti, malgrado avessero tutti ricoperto ruoli di primo piano durante lo sterminio; dichiaravano di non sapere,  e, se qualcuno di loro aveva partecipato al processo di distruzione, lo aveva fatto senza rendersene conto. Tutti affermavano di aver ubbidito agli ordini di Hitler, il quale non aveva avuto bisogno di assistenti altamente qualificati, perché lo stato totalitario, grazie alla tecnologia moderna, poteva farne a meno. I colpevoli erano semmai rintracciabili in Himmler – morto – , Heydrich – assassinato –, e Müller – scomparso –. Gli imputati cercarono di rivolgersi al mondo intero, difendendosi con le più astute argomentazioni, ma sapevano di non poter sfuggire al loro destino. Il processo finì il 1° ottobre del 1946 e qui di seguito riportiamo i giudizi emessi:

Pena di morte per Göring, Streicher, Frick, Ribbentrop, Kaltenbrunner, Sauckel, Keitel, Jodl, Frank, Risenberg, Seyss-Inquart

Ergastolo per Hess, Funk, Raeder

Venti anni di prigione per Von Schirach, Speer

Quindici anni di prigione per Von Neurath

Dieci anni per Doenitz

Liberati Schacht, Von Papen, Fritzsche

fonte: Hilberg, op. cit., p. 1152 In questa lista Hilberg elenca gli imputati eccellenti: seguono poi, nella sua opera, venticinque pagine contenenti nomi di criminali fuggiti o nascosti, e comunque non giudicati, tranne rare eccezioni come quella di Eichmann.

Sin qui il processo e le questioni del diritto, ma lo sterminio degli ebrei d’Europa presenta ben altre questioni.

“Quasi il mondo intero eleva la sua accusa contro la Germania e contro i Tedeschi. Della nostra colpa si parla con indignazione, con orrore, con odio, con disprezzo. Si vuole la punizione e la vendetta… La questione della colpa più che essere una questione posta dagli altri a noi è una questione che noi poniamo a noi stessi… Essa è una questione vitale per l’anima tedesca… Le imputazioni da parte dei vincitori possono avere sì le più grandi conseguenze per la nostra esistenza materiale… Ma non possono aiutarci a quello che riguarda la nostra conversione, che è poi la cosa più decisiva e fondamentale. In questa faccenda abbiamo a che fare soltanto con noi stessi. La filosofia e la teologia son chiamate a rischiarare la questione della colpa in tutta la sua profonda portata.” (Jaspers, La colpa della Germania)

Karl Jaspers, nato a Oldenburg nel 1883, è stato uno dei grandi protagonisti del novecento. Avvocato e medico, docente di psicologia e filosofia ad Heidelberg, fu esonerato nel 1937 dall’insegnamento universitario, a causa del suo matrimonio con Gertrud Mayer, di origine ebraica, contratto nel 1910. Jaspers aveva dedicato tutte le sue opere alla moglie ed era a lei legato da vivissimi sentimenti. I coniugi ripararono a Basilea, in Svizzera, dove a Jaspers era stato offerto un incarico di insegnamento. Tornarono in Germania otto anni dopo, all’università di Heidelberg, dove nel semestre estivo del 1946, egli tenne una serie di lezioni, che avevano per oggetto «la questione della colpa»: il loro centro era in una sentenza che non concedeva margini di innocenza: “che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”. Queste lezioni suscitano grande emozione tra gli studenti e, quindi, sulla popolazione. Per la prima volta, dal 1933, qualcuno parla chiaro della situazione tedesca. In una delle ultime lezioni, nel dicembre ‘46, Jaspers pronuncia pubblicamente l’accusa che qualche studente gli lancia in cuor suo: “Prima ha tenuto ben chiusa la sua bocca, ora invece fa il bravo a parlare”. In questo modo si esprimeva il risentimento di fronte a chi dice la verità, perché la verità in Germania, come in ogni parte del mondo, offende.

“Se mi si accusa, – egli infatti disse, – nel senso che ho fatto male a non gridare, quando c’era la certezza di essere ucciso, tutta la mia riprovazione per i delitti che si commettevano, allora io riconosco e accetto questa accusa. Ma se mi si accusa nel senso che ho fatto male a tacere, quando non mi era consentito di dire la verità e che faccio male a parlare ora, quando invece mi è consentito di dire la verità, allora io non riconosco e non accetto quest’accusa.”

Nell’aula ci fu un breve battito di piedi, segno di approvazione, ma molti avevano gli occhi torvi. Al tempo del regime nazista, infatti, bastava una frase detta alla leggera per subire le ire della Gestapo; il corpo insegnante era costituito da elementi ligi alle direttive del partito e non  esisteva materia di insegnamento che non fosse stata nazificata. L’importante era che ci fosse ordine nelle teste dei tedeschi e che tutti potessero avere incrollabili certezze: tutto ciò era alla base dell’intolleranza tedesca. Con la propaganda e il campo di concentramento, con le spie infiltrate all’univer-sità,  il regime nazista creava le condizioni necessarie per ottenere studenti fanatici e pieni di zelo nazista.

Con la fine della guerra le università cambiano: ora si può parlare e studiare liberamente. Gli studenti sono divisi tra ex-ufficiali, che  si distinguono per l’arroganza e il disprezzo nei confronti dei professori democratici: solo alcuni tra loro sono convinti che sia stato meglio cambiare la caserma con l’università e, in generale, vogliono emigrare. Gli ex persegui-tati politici rinnegano la loro nazionalità tedesca e si concentrano nel lavoro: anch’essi non aspettano altro che andar via dalla Germania, perché non nutrono alcuna speranza nella rinascita morale del loro paese. Gli ex-soldati cercano di tenersi lontano dagli ex-ufficiali e apprezzano il lavoro fatto dai docenti democratici, anche se non condividono la loro sottomissione ai vincitori; vogliono comunque formare una Germania pacifica e laboriosa, anche se non accantonano l’idea di andare via dal loro paese. Anche alcune vedove di guerra, volendo imparare le professioni dei mariti, si iscrivono all’università: in maggioranza mantengono la mentalità nazista, forse perché non possono rassegnarsi a considerare privo di senso il sacrificio dei loro mariti. Tutti questi studenti vivono in mezzo a grandi difficoltà economiche e materiali e vanno ad affollare l’aula dove parla Karl Jaspers, con la mente stanca e il cuore gonfio di amarezza. Ascoltano perciò le parole del filosofo con rancore, odio, amore, rispetto, entusiasmo, a seconda della loro storia personale. In mezzo a questi studenti Jaspers riprende il filo delle lezioni, là dove lo aveva interrotto, nel 1937, quando il governo nazista lo aveva posto di fronte alla terribile scelta: o divorziare e restare, o andare via dalla Germania. Era andato via e la sua ultima lezione era stata ascoltata da un folto pubblico; le sue ultime parole furono: “La mia lezione è finita, ma con essa non è finita la filosofia, la quale procede sempre e va più oltre nel suo cammino”. Lo addolorava molto il traviamento dell’anima tedesca. Come era stato possibile per tanti uomini dimenticare il loro passato, perdere la coscienza di ciò che è bene, scegliere deliberatamente il male? I tedeschi, durante il nazismo, avevano sorvolato sulle proprie responsabilità nei riguardi della vita, perdendo il contatto con la vera essenza dell’uomo e quindi smarrendo il senso della storicità. I tedeschi, secondo Jaspers, si erano allontanati da Dio ed erano caduti in un meccanismo ingiustificabile. L’etica sociale non può in alcun modo sostituire la vita morale e religiosa del singolo, perché  essa riguarda la situazione in cui il singolo vive, e non riguarda la vita stessa dell’individuo. Le forze del male erano state scatenate da una crisi dell’essere dell’uomo. Quando le forze del male vennero sconfitte, Jaspers tornò al suo magistero e, uscito dal suo isolamento, iniziò a combattere una nuova battaglia: quella della verità. Le sue lezioni sulla situazione spirituale della Germania erano ora affollatissime, e i motivi filosofici fondamentali sono riducibili a due: riportare l’uomo nella sua essenza, disintossicando le menti da tutto il ciarpame nazista, e riportare la vita dello spirito moderno alla sua funzione autentica, dimostrando quanto la libertà sia essenziale al progresso autentico delle scienze, considerate come movimento critico di indagine. Jaspers ha a cuore il ristabilimento del senso autentico della ricerca, intesa come verità, non-nascondimento, nell’accezione greca del termine (àletheia): solo la verità potrà salvare l’anima tedesca. Il suo compito consiste perciò nell’indicare ai tedeschi l’unica via possibile a loro rimasta: quella della assoluta onestà e lealtà di fronte al vincitore. I giovani prendono posizione contro di lui, non lo capiscono e non hanno il coraggio di essere sinceri con se stessi. Jaspers non è indulgente con gli studenti, è spietato nelle sue analisi. La sua vita privata è durissima, come quella di tutti i tedeschi: manca qualsiasi cosa in Germania, ma Jaspers stringe i denti e invita i tedeschi a fare altrettanto. I tedeschi sono chiamati a rendersi conto di essere stati corresponsabili di ciò che è accaduto durante la guerra. Egli deve, assieme al popolo tedesco, riconoscere la propria colpa e iniziare la salita del Purgatorio, riabilitandosi. Secondo Jaspers bisogna espiare la colpa e sono quattro le figure della colpa della quale egli parla:

– colpa giuridica: si riferisce alle azioni che trasgrediscono la legge e che possono essere provate oggettivamente; l’imputazione riguarda i singoli individui e la competenza spetta al tribunale

– colpa politica: si riferisce alle azioni degli uomini di Stato e a tutti coloro che appartengono a quello Stato perché ciascuno ha una parte di responsabilità per come viene governato; siamo responsabili degli errori e quindi colpevoli

– colpa morale: è individuale e riguarda la coscienza interiore, alla quale non si possono chiedere sconti di pena. Qui la giustificazione, «gli ordini sono ordini» forse tollerabile sul piano giuridico, non trova rifugio, non ha valore. Di fronte alla propria coscienza, i delitti rimangono delitti, anche se vengono ordinati dall’alto

– colpa metafisica: questa investe tutti gli uomini che tollerano l’ingiustizia. Colui che non impedisce un crimine a danno di un proprio simile, è colpevole. L’oggetto di questa colpa è l’infrazione del principio di solidarietà umana, offendendo la quale, si mette a repentaglio la base stessa del genere umano e cioè il riconoscimento di se stessi nell’altro.

Il fatto che uno sia ancora in vita dopo ciò che è accaduto negli anni della guerra, costituisce una colpa inaccettabile: pur di salvare la propria vita, egli ha rinunciato alla vita degna. Il nazismo ha ridotto l’uomo a cosa e in ciò consiste l’immane tragedia tedesca. La colpa metafisica consiste nell’aver accettato l’oggettivazione dell’uomo attuata dai nazisti; la forma che l’umanità ha assunto al tempo del dominio della tecnica, ha trovato il suo primo abbozzo proprio nell’organizzazione nazista. Il nazismo, secondo Jaspers, è stato la prova generale dell’apparato tecnico, dove è prevalsa l’insensatezza del fare. Höss, Stangl, Wirth, Himmler e tutti gli altri esecutori chiamavano lavoro lo sterminio degli ebrei. Per il capo del lager, lo sterminio era un lavoro manageriale, simile a quello del direttore di una fabbrica: non dovevano esserci intoppi nello sterminio. Wirth aveva previsto tutto: tempo due ore e i nuovi arrivati nei lager erano già morti. Dietro la maschera del fare e dell’efficienza si nascondeva l’abominio; tutto ciò era il rovesciamento dell’assunto kantiano «considera gli altri esseri umani come fini e mai come mezzi»; i nazisti attuano il massimo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnica moderna per attuare il più turpe dei fini. Il semplice fare trova la propria giustificazione indipendentemente da ciò che si fa. Essendo l’uomo un ente in mezzo agli altri enti, si può eliminare come si elimina un’ altra cosa qualsiasi; col nazismo la mancanza di senso si è palesata al mondo occidentale in tutta la sua tragicità. I nazisti hanno tolto ai morti persino la dignità della morte: Auschwitz non solo non possiede la grandezza dignitosa dei cimiteri, ma ne rappresenta l’esatto contrario, in quanto è soltanto una fabbrica di cadaveri, il luogo massimo dell’orrore, dove si producono, e poi si bruciano nei forni, cadaveri. Jaspers non si fermerà alla riflessione sulla colpa della Germania e sul totalitarismo nazista: egli compirà il passo successivo, riflettendo sulla bomba atomica, ovvero sul passaggio dal totalitarismo politico al totalitarismo tecnico. La sperimentazione atomica infatti ripropone il problema della colpa metafisica, perché anche le potenziali vittime, per quanto innocenti, divengono colpevoli, se non aprono gli occhi a coloro che non vedono. Come si è detto più volte nel presente lavoro, Jaspers ammonisce l’umanità, e non soltanto i tedeschi, a non diventare figli di Eichmann, funzionari impassibili dello sterminio tecnologico. Allora vennero sterminati in modo industriale nei lager, sei milioni di ebrei, di zingari e altri sfortunati, da parte di persone che accettarono questo lavoro come qualsiasi altro, giustificandosi con il dovere di eseguire gli ordini,  l’obbedien-za e la fedeltà all’organizzazione. Questi automi disumanizzati, come Eichmann, nel corso dei processi si sentivano sgomenti, offesi e sdegnati: la loro stupidità non aveva limite. La colpa metafisica nell’età della tecnica è fondamentale, perché la tecnica tende a sottrarre all’etica il privilegio della responsabilità personale. La mostruosità che l’apparato nazista ha inaugurato e che è oramai il modello di ogni produzione aziendale, è, secondo U. Galimberti, la discrepanza tra la nostra capacità di produzione che è illimitata e la nostra capacità di immaginazione che è limitata per natura, e comunque tale da non consentirci più di comprendere e al limite di considerare “nostri” gli effetti che l’inarrestabile progresso tecnico è in grado di provocare

“[…] Il richiamo jaspersiano al tratto metafisico e non storico della colpa è essenziale per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò che ha reso possibile il nazismo, e precisamente quell’indifferenza di fronte al mostruoso che nasce dalla discrepanza tra ciò che possiamo produrre con la tecnica e ciò di cui possiamo sentirci responsabili ogni volta che “irresponsabilmente” lavoriamo in un apparato che ci esonera dal farci carico degli scopi finali per cui l’apparato è stato costruito.” (U. Galimberti)

Quel che Nietzsche chiama nichilismo passivo è la colpa metafisica: il declino dello spirito, il mondo dei mezzi dove vengono aboliti i fini. La tecnica, nata sotto il segno dell’anticipazione, il cui simbolo è Prometeo (pro-métis: colui che vede in anticipo), ha impedito ogni capacità previsionale all’uomo, lo ha reso cieco nel mondo. La tecnica su vasta scala, inaugurata dal Terzo Reich, non è ancora totalitaria, ma questo non deve consolarci:

“l’orrore del regno che viene supererà di gran lunga quello di ieri che, al confronto, apparirà soltanto come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo agghindato da stupida ideologia.”

Per fare in modo che la cultura, la storia, la morale dell’uomo non vengano soppresse, occorre evitare che l’età della tecnica giunga al punto in cui non chiederemo più «che cosa possiamo fare della tecnica», ma «che cosa la tecnica può fare di noi». Ecco perché non bisogna rimuovere il tratto metafisico della colpa: in questo modo si mantiene qualche possibilità per il proseguimento della storia.

La fine del conflitto e il processo di Norimberga dovevano segnare l’inizio del rinnovamento dei tedeschi. Jaspers critica il processo e sostiene che su un punto decisivo si era sbagliato: la creazione di un diritto mondiale e di una forza comune delle maggiori potenze, attraverso la quale sarebbero stati puniti delitti chiaramente definiti. Nessuno avrebbe potuto più appellarsi alla ragion di stato o agli ordini ricevuti. Tutto ciò non è stato realizzato: la grande idea si è manifestata soltanto a livello ideale ma non reale. Il processo non ha fondato una situazione mondiale permeata su un diritto mondiale. Il revisionismo storico e la sua nefasta appendice negazionista affondano le radici proprio nel fallimento di Norimberga: un processo dei vincitori ai vinti, dove i grandi assenti furono la nuova concezione ideale del diritto e la tensione morale. A Norimberga si volle dimenticare che solo di fronte alla trascendenza, e quindi alla colpa morale, si comprende il senso del delitto e del castigo.

6.2. Revisionismo e negazionismo

Per revisionismo storico si intende comunemente una serie di orientamenti storiografici che mirano a rimettere in discussione alcune questioni fondamentali della storia moderna e contemporanea: solitamente legando in un unico filone reinterpretativo rivoluzione francese, fascismo, nazismo, sterminio degli ebrei, comunismo. Schematizzando, e cioè con qualche semplificazione,  si può dire che i revisionisti appartengono alla destra di tipo fascista e nazista, alla destra di matrice liberal-democratica, e in qualche misura, ad una sinistra libertaria o comunista di tipo gauchista-bordighiana. La parte più legata agli ambienti accademici e ai luoghi deputati al “fare storia”, è certamente quella degli storici appartenenti alla destra liberal-democratica: questi studiosi, sostanzialmente nemici dichiarati di tutta la cultura marxista, mirano a rimettere in discussione la nozione di lotta di classe e la storiografia che a questa nozione si ispira. Questa controrivoluzione (come la chiama Cesare Bermani), è iniziata sul finire degli anni Settanta, anche in opposizione alla contestazione sessantottesca. Bermani rileva che sul terreno della storia l’impegno militante della destra si fa vedere proprio mentre a sinistra gli storici si spogliano degli abiti della militanza.

Una delle prime riscoperte del revisionismo storico liberal-democratico è stato Augustin Cochin, morto nel 1916, interventista, cattolico reazionario e interprete della rivoluzione francese in chiave demoniaca: la ragione illuministica sarebbe stata la produttrice di tutti i mali della modernità. La sua opera più importante, L’esprit du jacobinisme, viene pubblicata in Italia nel 1981 con un’introduzione dell’ex ambasciatore italiano a Mosca, Sergio Romano, del quale si dovrà parlare anche in seguito, considerato il  suo ruolo di punta di diamante del neo-conservatorismo italiano. Romano, per molto tempo editorialista de La Stampa, assai vicino alle posizioni di Nolte, accanito fautore della riabilitazione di Franco – secondo Romano avrebbe avuto il merito di salvare la Spagna dalla seconda guerra mondiale e di aver combattuto il comunismo -, amico del «buon senso» e nemico giurato degli estremismi. Altro storico revisionista è Francois Furet, scomparso nel 1997, militante del Pcf  dal 1949 al 1956: egli critica la lettura marxiana della rivoluzione francese, l’impostazione economico-sociale data agli studi sulla rivoluzione da parte di storici marxisti come Soboul, Mathiez e Lefebvre; secondo Furet la rivoluzione francese è stata soltanto un’illusione della politica e, senza la rivoluzione, le riforme di Luigi XVI avrebbero portato il paese ad un maggior benessere. Furet contesta gli eccessi rivoluzionari – che comunque ci furono – e vuole offrire un’immagine edulcorata e tranquillizzante della rivoluzione francese: senza Robespierre e Saint-Just, senza il Terrore giacobino, la rivoluzione avrebbe avuto un senso e sarebbe stata in grado di attuare un progetto moderato, nel quale avrebbero potuto coincidere libertà politica, integrità e pace sociale. Furet auspica la liberal-democrazia e la sua opera, Penser la Révolution française, diviene uno dei pilastri su cui edificare i festeggiamenti per il bicentenario dell’89: festeggiamenti dai quali vengono esclusi soltanto i giacobini e dove si rivaluta la figura dei sovrani, come saggi riformisti, e, perché no, si offre una nuova verginità persino ai vandeani. Nel 1995 scrive Le passé d’une illusion, ovvero la storia dell’idea comunista nel XX secolo, dove critica in modo spietato, tipico degli ex adepti, i comunismi europei. Si tratta di un’opera probabilmente sincera e scritta con le finezze di uno storico di mestiere di alto livello (come Furet era sicuramente per consenso universale), e quindi, a mio avviso, i suoi difetti sono da rimarcare in modo netto: Furet non parla del comunismo extraeuropeo e, soprattutto, della Resistenza. Inoltre egli non descrive la realtà, il movimento reale, ma la presa dell’idea comunista sugli intellettuali. Secondo Furet il comunismo è stato un’illusione mentale, e fascismo e comunismo sono equivalenti perché entrambi si presentano come alternative al liberalismo e alla liberal-democrazia. I libri di Furet sono ormai patrimonio del senso comune e fanno opinione: forse al di là delle intenzioni dello stesso Furet, rappresentano il Vangelo anticomunista e a volte vengono distribuiti ai partecipanti a convegni delle destre europee. Prima di morire Furet era intenzionato a scrivere l’introduzione al Libro nero sul comunismo, centone propagandistico della destra aziendalista e neo-fascista, che illustra i crimini dello stalinismo e di altre esperienze dittatoriali senza un minimo di sforzo critico. Anche uno storico di alto livello come Furet, si era lasciato tentare dalla piattezza acritica.

Arriviamo ad un intellettuale, Ernst Nolte, che viene spacciato per storico, ma che in realtà è un filosofo della storia. Allievo di Heidegger, attento interprete di Carl Schmitt, a metà degli anni Ottanta, in Germania, prova a rovesciare, in tema di nazismo, la tesi della «colpa collettiva della Germania», dichiarando che se di colpa si può parlare, essa è quella di aver amato a tal punto la civiltà occidentale, da tollerare la dittatura nazista pur di difendere l’Europa dal bolscevismo. Da Nolte il nazismo viene anche visto positivamente nella sua forte composizione operaia e soprattutto nella sua funzione magistrale: quella di aver costituito la risposta violenta allo stalinismo, ormai prossimo a scatenare una guerra civile in Europa. Auschwitz viene così inserita in un contesto che ha come detonatore la rivoluzione d’ottobre, il nazismo viene ridotto ad una semplice risposta al bolscevismo e il fascismo europeo a una risposta al marxismo. Nolte, continuando a forzare il gioco, conclude sostenendo che l’antisemitismo si spiega con l’antibolscevismo e lo sterminio di razza viene spiegato come risposta allo sterminio di classe. Su tutto l’impianto noltiano si avverte l’ombra del pensiero di Schmitt: la rivoluzione d’ottobre è ciò che scardina lo Jus publicum Europaeum e da quel momento inizia la guerra civile europea e mondiale. Tutti coloro che aderiscono al nazismo, e ai fascismi, secondo Nolte, lo fanno per paura del bolscevismo, in una logica tipicamente schmittiana: quella di amico-nemico. Un’altra potente ombra che aleggia sul Nolte-pensiero è quella dell’economista liberale Ludwig von Mises, per il quale il fascismo ha avuto il grande merito storico di aver salvato l’Occidente dal comunismo bolscevico, visto da Von Mises, come una forma di terrore asiatico. Dopo il 1989 e la caduta di quell’impero burocratico, stupido e malato che era lo stato sovietico, assieme ai suoi satelliti, Nolte trionfa: il fascismo è soltanto una reazione al bieco bolscevismo e, al massimo, rappresenta un errore minore rispetto a ciò che ha combattuto. Attraverso il revisionismo storico, tendente all’assoluzione di tutto ciò che è accaduto, e quindi anche dei crimini nazisti, si può azzerare la situazione e rifondare lo stato liberal-democratico, vero centro positivo del progresso umano. A Nolte sono state mosse alcune giuste critiche: si può certamente parlare di guerra civile europea – più o meno simile alla guerra dei trent’anni del Seicento -, ma questa è iniziata nel 1914 e non nel 1917, per cui senza la prima guerra mondiale Lenin e i bolscevichi non avrebbero vinto.

Tanto Furet, quanto Nolte, commettono un grave errore di prospettiva: essi pensano al Novecento come al secolo bolscevico, quando si deve parlare di «secolo americano». Infatti sono gli americani i veri vincitori della Guerra dei trent’anni del XX secolo; sono gli americani a decidere, assieme agli inglesi, di allearsi con Stalin contro Hitler; sono sempre loro a decidere di non aiutare Gorbaciov nell’opera riformista, decretando la fine dell’impero sovietico e spianando la strada a politici di infimo ordine come Eltsin e Putin. Oggi gli Usa sono gli unici guardiani del mondo, nel bene e nel male. Purtroppo dal revisionismo al negazionismo il salto è breve, e a Nolte si sono rifatti anche alcuni teorici del nazismo come modernizzatore della società tedesca, di cui il più famoso è Reiner Zitelman, il quale si è spinto a rivendicare il carattere rivoluzionario e socialista del nazismo, sostenendo che, quello nazista, era un partito a base operaia. Le posizioni di revisionismo sullo sterminio sono dette anche negazioniste e tendono a presentarsi come una diramazione del revisionismo noltiano. I negazionisti, pur con alcune differenze tra l’uno e l’altro,  sostengono in linea generale che:  non esisteva la volontà di genocidio degli ebrei da parte del nazismo;  non esistevano quindi lager adibiti a questo compito;  ci furono dei morti, come in qualsiasi altro conflitto, ma il numero complessivo di questi non superava le duecentomila unità (Manfred Roeder) o al massimo il milione (Paul Rassinier e Arthur Butz);  non sono esistite le camere a gas. La cosa sconcertante è che queste tesi vengono sostenute non solo dalla destra neonazista o dagli anticomunisti di estrema destra, ma anche da alcuni  antisionisti marxisti, da alcuni stalinisti e persino da qualche pacifista libertario.

In effetti uno dei padri riconosciuti del negazionismo è stato Paul Rassinier, comunista, poi socialista, pacifista, resistente, arrestato dalla Gestapo nell’ottobre ‘43, torturato per 11 giorni, deportato nei campi di concentramento di Buchenwald e Dora, invalido al 95% in conseguenza della deportazione, detentore della medaglia Vermeil de la Reconnaissance Française e della Rosette de la Resistence e morto nel 1967. Rassinier era antisemita e convinto che esistesse un complotto ebraico internazionale; è stato così il primo a ridimensionare le cifre dello sterminio.  Quando a Rassinier viene chiesto che fine abbiano fatto i milioni di ebrei europei che mancavano all’appello, nel censimento fatto alla fine del conflitto, egli risponde che sono finiti in Siberia e da lì, almeno la metà, negli anni successivi, si sarebbero trasferiti in Usa. Attualmente il capofila del gruppo negazionista è Robert Faurisson, un professore cinquantenne, specialista di critica testuale, libero docente all’università di Lione-II: egli sostiene che le camere a gas non sarebbero esistite e che quindi non sarebbero esistiti neanche i campi di sterminio. Faurisson è stato espulso dall’università ed è stato vittima di un tentato omicidio. Venti suoi colleghi universitari hanno protestato contro il suo licenziamento, pur considerando aberranti le sue tesi. Lo storico francese sostiene inoltre che non esistono prove valide del genocidio, giacché tutti i documenti che ci informano sulle camere a gas  e lo sterminio programmato sarebbero falsi o apocrifi. Inoltre, sempre a suo parere, il termine Endlosung (soluzione finale), non significava lo sterminio degli ebrei, ma il progetto di deportazione, prima in Madagascar, e poi nell’Europa orientale. Gli ebrei morti nei campi di concentramento, a suo sciagurato parere, sarebbero stati trecentomila e non sei milioni: essi sarebbero morti di tifo e i forni crematori servivano solo «per disfarsi in modo igienico» dei cadaveri provocati dalle malattie. Infine Auschwitz, sempre secondo Faurisson, non sarebbe stato un campo di concentramento e sterminio ma «un vasto complesso industriale dove si fabbricava caucciù sintetico». In Italia il ruolo di Faurisson è interpretato da Carlo Mattogno, il quale ha rapporti frequenti con l’Institute for Historical Review californiano, diretto da Theodore O’Keefe e Thomas Marcelus, lautamente finanziati da ricchi americani di estrema destra. Al Salone del Libro di Torino nel 1989, uno stand intestato alla società di distribuzione “All’insegna del Veltro” esponeva vari libri di Mattogno, pubblicati dalle case editrici “La Sfinge” e “Sentinella d’Italia”, con titoli di questo tenore: Il mito dello sterminio ebraico oppure Auschwitz: due false testimonianze, e ancora Come si falsifica la storia. Inoltre lo stesso Mattogno, dal 1989, ha scritto diversi articoli pubblicati sulla rivista di destra Candido, su quella che lui chiama “la menzogna di Auschwitz”: in questi articoli compie lunghe analisi per dimostrare che la Shoah è una bugia, un’invenzione degli storici che egli chiama “sterminazionisti”. Saggi e ricerche gli vengono pubblicati all’estero grazie al già citato “Institute for Historical Review” californiano di Costa Mesa e alle Annales d’Histoire Révisioniste, distribuite clandestinamente in Francia (la pubblicazione è vietata dalla legge francese perché divulgano tesi antisemite). Mattogno, come altri negazionisti, è un erudito che guarda alla storia con gli occhi dei nazisti; i negazionisti operano un rovesciamento di prospettiva in mala fede e chiedono prove di ciò che è provato. Secondo lo storico francese Pierre Vidal Naquet, che da anni si occupa di antisemitismo, «I loro metodi consistono nel ripetere sulla carta quel tentativo di genocidio che si è verificato nella realtà»: in effetti questa è la tecnica specifica di Faurisson e Mattogno; quest’ultimo dice di non occuparsi di politica e sostiene:

“Non sono filonazista ma… ho studiato testi talmudici e la cultura ebraica della razza eletta è una cultura razzista… voglio demolire le cosiddette testimonianze oculari delle camere a gas e dello sterminio degli ebrei: sinora nessuno ha contestato i miei studi e le mie conclusioni: come mai?”

Si può rispondere a Mattogno, e a tutti i negazionisti con le parole di J.F. Lyotard:

“Veniamo a sapere che alcuni esseri umani dotati di linguaggio sono stati posti in una situazione tale, che nessuno di loro può riferire di quel che essa è stata. La maggior parte sono scomparsi in quel tempo e i sopravvissuti ne parlano raramente. Quando ne parlano, poi, la loro testimonianza verte soltanto su un’infima parte di tale situazione. Come sapere, allora, se questa stessa situazione è esistita? Non potrebbe essere il frutto dell’immaginazione del nostro informatore? O la situazione non è esistita come tale. O è esistita, e allora la testimonianza del nostro informatore è falsa, perché in tal caso egli dovrebbe essere scomparso o dovrebbe tacere… Aver realmente visto coi propri occhi la camera a gas, sarebbe la condizione che conferisce l’autorità di dire che essa esisteva persuadendo gli increduli. Ma si dovrebbe anche provare che uccideva nel momento in cui la si è vista. La sola prova ammissibile che uccideva è data dal fatto che si è morti. Ma, se si è morti, non si può testimoniare che lo si è per effetto della camera a gas.” (J.F. Lyotard, Le différend, p. 19).

Il paradosso di Lyotard, con amara ironia, risponde definitivamente alle sciocchezze dei negazionisti. Nella sostanza il negazionista non vuole ammettere ciò che è accaduto, e non vuole farlo perché è antisemita, o addirittura nazista: spesso il negazionista si paluda dietro il paravento del libero ricercatore che vuole accertare la verità, ma la Shoah è un evento senza testimoni, nel duplice senso che di essa è impossibile testimoniare a causa dell’assenza di voci: chi è morto non può parlare e chi è rimasto vivo non ha voce e sceglie il silenzio. Chi vuole ascoltare la testimonianza della Shoah deve ascoltare il non-detto, deve ascoltare la voce della propria coscienza e sentire la colpa metafisica. I nazisti degli anni Trenta e Quaranta hanno assassinato milioni di ebrei, i nazisti di oggi continuano il massacro offendendo il dolore e la memoria dei morti e dei sopravvissuti. Non ha molto senso continuare a rispondere alle tesi negazioniste con le parole: questi pseudo-storici non hanno alcuna voglia di conoscere la verità, una verità che peraltro già conoscono.

In Italia il principale centro dei negazionisti sembra essere Parma: qui il filonazista Donatello Ballabeni ha fondato la casa editrice “La Sfinge”, che pubblica quasi esclusivamente libretti antisemiti; Ballabeni ha pure negato l’autenticità del diario di Anna Frank. Sempre a Parma si trova “All’insegna del Veltro”, una piccola casa di distribuzione di materiale filonazista organizzata da Claudio Mutti, ex camerata di Franco Freda e incriminato per la strage di Piazza Fontana. A Parma viene anche stampato il giornale neofascita Ideogramma, che propaganda le tesi negazioniste più rozze e brutali. A Genova esiste la casa editrice “Graphos”, che ospita le opere dei negazionisti delle più diverse posizioni politiche. La più vecchia casa editrice neonazista e antisemita italiana, si trova a Monfalcone: si chiama “Sentinella d’Italia” ed è diretta da Antonio Guerin. A Milano si trova l’editrice “Le Rune” che ha pubblicato la traduzione di alcune opere di Rassinier. Infine Risguardo, un bollettino antologico di tutte le pubblicazioni negazioniste, stampato dalle “Edizioni Ar”, fondate da Franco Freda. Esistono comunque vari contatti tra l’oscuro mondo del negazionismo italiano e il neonazismo straniero: secondo Luciano Tass, direttore della rivista Shalom, edita dalla comunità ebraica di Roma: “Gli italiani sono solo una piccola frangia… è inutile dialogare con gente che, anche se ha un discreto livello culturale, è analfabeta moralmente”. Le parole di Tass sono da condividere pienamente: non ha senso il dialogo con chi, palesemente o in modo paludato, vuole la distruzione fisica dell’Altro in quanto diverso, sia esso ebreo, nero, omosessuale o quant’altro. Sull’introduzione poi, anche in Italia, come già in Francia, di una legge che configuri il reato penale, ove si verifichi vilipendio delle deportazioni e della Shoah, occorre valutare attentamente alcuni elementi: da un lato, forse, si ridurrebbero al silenzio alcuni neonazisti, ma dall’altro si rischierebbe di farne delle vittime ancora più pericolose. A quanti sostengono, con tipica ipocrisia di derivazione anglosassone, che le parole e gli scritti non hanno mai ucciso nessuno, si può rispondere che, purtroppo, le parole e gli scritti antisemiti sono già violenti di per sé, senza bisogno di applicazione pratica immediata: negli anni tra le due guerre furono proprio le parole dei nazisti e gli scritti di Hitler a preparare il terreno adatto allo sterminio degli ebrei d’Europa. Le parole contengono una carica di violenza inaudita e la prima educazione alla tolleranza dovrebbe passare proprio attraverso un linguaggio appropriato e non offensivo verso gli altri. Nella Germania nazista, proprio le parole e gli scritti contro gli ebrei, resero milioni di persone disponibili a trasformarsi in consenzienti assassini.

6.3. La “Lettera ad un amico ebreo” di Sergio Romano

“Vi sono paesi – ha scritto Sergio Romano – in cui revisionismo ha conservato un significato negativo e porta cucito sul petto, anche quando passa da un contesto all’altro, un marchio d’infamia. Sono quelli in cui il linguaggio politico è stato marcato da una lunga presenza comunista… Non credo di essere più revisionista di quanto debba essere abitualmente un qualsiasi studioso di storia. Ma se rifiutassi di fregiarmi della parola concederei un punto al gergo comunista e darei un contributo al cattivo uso che della parola si è fatto in Italia per molti anni.”

La prima osservazione riguarda l’uso del termine revisionista: è ovvio che fare storia significa ripensare il passato, rivedere le sistemazioni che ne sono state date. Ma non è lecito stravolgere il senso del passato o nasconderlo. Il compito di riscrivere la storia in forme popolari, secondo l’ottica della destra perbenista, nei termini rassicuranti di una “ragionevole” equidistanza tra vittime e carnefici, in modo che i sensi di colpa possono placarsi, è stato assunto in Italia dall’ex ambasciatore italiano a Mosca, Sergio Romano, che non è uno storico di mestiere ma un prolifico giornalista. Romano ripete, in linea generale, l’operazione noltiana di appiattire marxismo, leninismo e stalinismo in una stessa condanna, quali responsabili unici (o quanto meno principali) della “guerra civile europea” a cui si vorrebbe ridurre la storia del nostro continente nel Novecento. In questa guerra il fascismo servì, se non altro, a combattere il comunismo.

L’argomento imbarazzante per questi riscrittori della storia è, naturalmente, lo sterminio degli ebrei, che l’ex ambasciatore lega alla nascita di Israele e quasi nasconde dietro alla massa di sofferenze e di ingiustizie che quella nascita ha prodotto:

“La condanna e la fine del colonialismo coincidono con la nascita di un nuovo, piccolo “impero coloniale”, collocato nel cuore spirituale del mondo arabo e a breve distanza dalle sue maggiori città storiche. Mentre tutti gli Europei, di buona o malagrazia, escono dalle terre conquistate nei secoli precedenti, un gruppo di europei s’installa in Palestina, costringe 800.000 indigeni a fuggire dalle sue case e costruisce, in controtendenza rispetto a uno dei più forti orientamenti dell’epoca, uno Stato “bianco”… Le ragioni per cui lo Stato d’Israele divenne possibile alla fine della seconda guerra mondiale sono altre… La maggiore di esse fu il genocidio hitleriano.”

Secondo Romano, il genocidio degli ebrei, essendo la giustificazione storica della nascita dello stato israeliano, col passare del tempo, diviene sempre più visibile, incombente e ingombrante. Il genocidio si è trasformato in un genere storico permanente, e questa è la ragione per cui il passato non riesce a “passare”. Che è poi la stessa preoccupazione di Nolte: far passare un passato che non vuole “passare”. A questo proposito Romano scrive Lettera a un amico ebreo, la cui tesi fondamentale è che la Shoah, lo sterminio degli ebrei, è stato ed è tuttora un episodio largamente sopravvalutato. Il Novecento è, dice Romano, un secolo di massacri e di genocidi, ma non tutti questi genocidi hanno, agli occhi della pubblica opinione, la stessa importanza:

“Quello degli ebrei occupa, nell’immaginazione collettiva del mondo occidentale, uno spazio dominante. Mentre il ricordo degli altri impallidisce e si appanna, l’”olocausto” continua ad agitare le coscienze e a suscitare l’interesse degli studiosi”. (p. 27).

Romano fa insomma mostra di non vedere perché lo sterminio degli ebrei d’Europa debba essere considerato l’elemento centrale della storia del Novecento. Non è che gli ebrei “valgano” più degli altri popoli, come gli armeni o i curdi, che sono stati o ancora sono vittime di persecuzioni o massacri, ma contro gli ebrei è stata attuata una strategia di annientamento senza precedenti, connessa alla natura stessa dello Stato totalitario fascista.

6.4. Le cause del revisionismo di destra

Già a partire dagli anni Trenta, fra gli storici, i politici e più in generale nel mondo intellettuale, si è sviluppato un ampio dibattito sul problema delle cause del nazismo e dei fondamenti teorici della sua visione del mondo. Il nazismo è l’inevitabile prodotto della storia tedesca e dello spirito germanico, oppure rappresenta una folle e demoniaca eccezione, estranea alla vera tradizione tedesca? Inoltre, è solo una forma particolare del fascismo e dell’autoritarismo europeo, sviluppatosi nel nostro continente a partire dal primo dopoguerra? Infine, quale interpretazione dare, in relazione al nazismo, della profonda crisi economica del capitalismo degli anni ‘29-’32?

Una prima ipotesi interpretativa, sviluppatasi soprattutto nella storiografia francese ed anglo-americana, è quella che ritiene il nazismo il diretto erede della tradizione pangermanista tedesca. In questo modo viene sottolineata la frattura tra Germania e mondo occidentale. Autori come Peter Viereck, Metapolicts: from the romantics to Hitler, del 1941, o Edmond Vermeil, La Germania contemporanea del 1953, e ancora in parte William Shirer nel suo Ascesa e caduta del Terzo Reich del 1961 sostengono la tesi della continuità nella storia tedesca. In contrasto con questa ipotesi si è sviluppata, soprattutto in Germania, una linea interpretativa di stampo liberale che in modo più o meno netto sostiene la tesi della estraneità del nazismo alla tradizione tedesca, trovandone invece le origini in una generale crisi del liberalismo europeo ed accentuando il peso di elementi particolari nella genesi e nello sviluppo del nazismo, come, ad esempio, la figura di Hitler. Eminenti storici fanno parte di questa schiera: Friedrich Meinecke, La catastrofe tedesca (1946) o Gerhard Ritter, I cospiratori del 20 luglio 1944: Carl Gordeler e l’opposizione antinazista (1960). Altri hanno interpretato il nazismo partendo dal suo razzismo antisemita, sottolineando come la struttura portante dell’ideologia, e della prassi, nazista, sia la demonizzazione degli ebrei; è il caso di Mosse che in La crisi dell’ideologia tedesca sottolinea il peso dell’antisemitismo come strumento di consenso da parte dei nazisti che va a pescare nei bassi umori della borghesia tedesca. Agli occhi dei contemporanei, la determinazione e la carica di violenza esibite dal nazionalsocialismo, soprattutto negli anni della guerra, rinviavano alla solidità e all’efficienza di una macchina perfetta, capace di realizzare senza tentennamenti gli obiettivi più mostruosi del regime, come appunto lo sterminio degli ebrei. Un apparato di comando coerentemente strutturato anche nelle sue procedure di funzionamento – si pensava – era la condizione essenziale per realizzare, con mezzi razionali, i fini irrazionali del regime.

Un’immagine analoga venne presentata da quegli studiosi che utilizzarono nell’analizzare il nazismo, la categoria di “totalitarismo”: secondo questa interpretazione, il Terzo Reich era una società totalitaria, nella quale cioè i vertici politici e gli apparati dello Stato esercitavano un controllo totale sulla società. Già nel corso della guerra, tuttavia, era stata  avanzata un’interpretazione diversa: nel 1942 il politologo Franz Neumann aveva pubblicato un saggio, intitolato Behemoth, che fondeva l’analisi economica, istituzionale e sociale del nazismo, realizzando un modello d’indagine per certi aspetti tuttora insuperato. Leviathan e Behemoth sono due mostri della tradizione ebraica, ai quali Thomas Hobbes intitolò le sue grandi opere, raffigurando nel primo lo Stato, ovvero “un sistema politico di coercizione in cui sono ancora conservate le vestigia del dominio della legge e dei diritti individuali”, e nel secondo “un non-stato, un caos, una situazione di illegalità, disordine e anarchia”. Poiché indica la coesistenza nel nazionalsocialismo di quattro diversi poteri (partito, esercito, burocrazia e industria), Neumann può essere considerato il primo sostenitore di un’interpretazione “policratica”, vale a dire attenta a individuare una pluralità di poteri di quel regime. Il dibattito storiografico sulla struttura e la pratica di governo del nazismo, riconducibile alle due diverse proposte interpretative simboleggiate rispettivamente da Leviathan e Behemoth, ha assunto forme particolarmente accese nel corso degli anni settanta, grazie alla pubblicazione pressoché contemporanea dei lavori di Karl Dietrich Bracher e di Martin Broszat, che riassumono la già citata polemica tra intenzionalisti e funzionalisti. Il conflitto interpretativo non è, tuttavia, una semplice divergenza di opinioni, perché tocca questioni chiave per l’identità nazionale dei tedeschi. Gli intenzionalisti rimproverano per esempio ai funzionalisti di “banalizzare” il nazismo o addirittura di tesserne l’apologia: la loro interpretazione strutturale fa riferimento a forze astratte, a “funzioni” del sistema, e rinuncia – questa è l’accusa principale – al giudizio morale di condanna nei confronti del nazismo. A loro volta, gli intenzionalisti vengono accusati di ridurre la storia del regime all’ideologia demoniaca di Hitler, sottovalutando le corresponsabilità delle vecchie classi dirigenti nell’avvento del regime. Inoltre viene loro rimproverato di eludere il problema della continuità della storia tedesca: Hitler non nasce per caso, e il suo successo può essere spiegato solo se non lo si considera come una parentesi aberrante in un corso della storia tedesca sostanzialmente positivo. Che il conflitto interpretativo ne nasconda uno politico, viene confermato dal fatto che in seguito scoppierà l’Historikerstreit.

Negli anni Cinquanta e Sessanta si era rafforzata la tendenza, che risaliva in realtà agli anni Trenta, che usando le categorie di fascismo o di totalitarismo, ha interpretato il nazismo come una delle forme del vasto movimento antidemocratico e antiliberale che si è sviluppato in Europa nel primo trentennio del secolo: testi chiave di questa tendenza sono, ad esempio, J. Friedrich, Dittatura totalitaria (1958) o, ancor più, il famosissimo I tre volti del fascismo, di Ernst Nolte, tradotto in italiano nel 1966. L’idea portante dell’opera di Nolte è quella di legare nazismo, bolscevismo e fascismo in un’unica categoria che ne possa spiegare le somiglianze; ciò significa, ad esempio, ritenere che il bolscevismo possa essere stato il modello cui Hitler si ispirò e che lo sterminio degli ebrei non sia che un capitolo nella storia dei massacri e dei genocidi che hanno segnato il Novecento. Negli ultimi due decenni è andata sfumando la distanza che separa il peso puramente analitico-storiografico di questa impostazione da una inquietante politica di relativizzazione del nazismo e dei suoi crimini.

Accanto ai deliranti tentativi di negare lo sterminio degli ebrei d’Europa, si è delineata negli anni Ottanta in Germania una corrente storiografica favorevole a una possibile rilettura del nazismo. Storici come Hillgruber, Hildebrand o lo stesso Nolte – sul quale però gravano dubbi più pesanti, sia di ordine storico, che politico –, i cosiddetti revisionisti, non hanno mai inteso assolvere o giustificare in alcun modo i crimini nazisti; il loro intento è quello di storicizzare il nazismo, cercando di far crescere la comprensione storica del fenomeno al di là degli schemi interpretativi classici, cercando, per usare l’espressione di Nolte, di far finalmente «passare» il passato tedesco. Occorre notare come purtroppo, nel clima ideologico e politico della Germania degli anni Ottanta, ed ancor più oggi dopo la riunificazione, questa operazione ha rafforzato di fatto le ideologie di matrice neonazista, per cui in Germania il passato continua a ritornare. Nel corso del 1986, si è poi sviluppato un dibattito molto sentito su questi problemi, che ha fatto registrare interventi di storici, sociologi e filosofi; il fuoco è stato acceso provocatoriamente proprio da Nolte, con un articolo apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 6 giugno con il titolo Il passato che non vuole passare, nel quale domanda se «L’Arcipelago Gulag non precedette Auschwitz? Non fu lo sterminio di classe dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello sterminio di razza dei nazisti? Le radici di Auschwitz non stavano in un passato che non voleva passare?». Tesi in seguito corroborata da alcune opere di vasto respiro: al centro dell’interpretazione noltiana infatti sta il concetto di trascendenza, intesa sia come emancipazione dai limiti dell’individualità concreta, in direzione di un egalitarismo universalistico fondato sull’affermazione dei diritti dell’uomo alla libertà, sia come emancipazione dalla natura in direzione di un universo tecnologico fondato sul continuo ampliamento delle capacità di manipolazione tecnica. Le promesse di libertà e benessere per tutti implicite in questo progressismo liberale, secondo Nolte,  sono state raccolte e spinte all’estremo dal marxismo e dal comunismo; invece il fascismo sorge come opposizione e resistenza alla trascendenza, ossia come risposta all’angoscia che scaturisce dallo spaesamento-sradicamento proprio di quell’essere-senza-patria che è la condizione dell’uomo libero moderno. Di qui l’esaltazione, nel fascismo, del particolarismo, ossia delle radici etniche e nazionali in virtù delle quali gli individui non sono l’”uomo”, nel senso universale e astratto del termine, ma esseri concretamente finiti e definiti. Di qui ancora l’esaltazione di una natura concepita come forza primigenia e un atteggiamento di forte sospetto verso l’industrialismo macchinistico. Le ideologie del comunismo e del fascismo sono dunque collegate tra loro logicamente: ma lo sono anche storicamente, e in tal senso Nolte considera esemplare la vicenda di Mussolini, approdata dal marxismo al fascismo. Sul piano propriamente storiografico la tesi centrale di Nolte è che lo sterminio di classe operato dal comunismo, in nome dell’astratto principio del superamento della società divisa in classi, ha creato una situazione di panico sociale, ed è stato l’antecedente logico e cronologico dell’avvento al potere del fascismo. Nello scontro tra fascismo e comunismo sarebbe consistita la “guerra civile europea” che ha segnato la storia del XX secolo. Essa si concluse, necessariamente, con la sconfitta del nazismo hitleriano, il quale, puntando sull’esaltazione della tecnica e mirando a unificare tutta l’umanità sotto il dominio della razza germanica, non si sottrasse all’orizzonte della trascendenza e dunque rinunciò alle proprie stesse ragioni. In alcuni interventi successivi Nolte ha parlato, per il periodo posteriore alla seconda guerra mondiale, di una seconda fase di questa guerra civile, combattutasi tra liberalismo e comunismo e conclusasi con la vittoria del primo: una vittoria alla quale Nolte, per altro, non scioglie inni di giubilo, dal momento che in essa ravvisa il trionfo di un universale edonismo individualistico ancora tutto preso nella trascendenza. Le tesi di Nolte, che tra l’altro mirano a negare le radici specificamente tedesche del nazismo, facendo del fascismo un fenomeno universale, transpolitico, hanno incontrato forti riserve. Oggi si è disposti a riconoscere che egli ha almeno in parte ragione nel sottolineare quanto la vittoria del bolscevismo in Russia giovò alla popolarità e al successo del fascismo. E meno scandalo che in passato desta la tesi che tra comunismo staliniano e fascismo sia esistita una qualche parentela. Ciò che invece ha riacceso anche recentemente un dibattito violento, sono state alcune prese di posizione di Nolte circa la questione della politica nazista verso gli ebrei, in particolare la sua affermazione che l’arcipelago Gulag è l’antecedente di Auschwitz. Nolte, come si è già detto, non è un negazionista, tuttavia egli afferma che i crimini nazisti non sono affatto unici ed incomparabili, ma soltanto un capitolo di una storia che nel XX secolo ha visto molti altri episodi dello stesso tipo (ad esempio lo sterminio degli Armeni), e che i nazisti sterminarono gli ebrei perché avevano paura che il successo del bolscevismo giudaico potesse provocare anche in Germania massacri analoghi a quelli compiuti dai bolscevichi in Russia. Nolte riconosce che questo nesso bolscevismo-giudaismo non avesse fondamento; tuttavia egli sembra dare un certo credito all’ipotesi che effettivamente il giudaismo costituisse una minaccia per la Germania nazista, la quale perciò avrebbe agito contro gli ebrei nella convinzione, in parte giustificata, di operare per legittima difesa. Queste tesi hanno suscitato una comprensibile indignazione.

Una durissima risposta all’articolo di Nolte è venuta da Jurgen Habermas, celebre filosofo e sociologo tedesco, in un articolo, Una sorta di risarcimento danni, apparso su Die Zeit, l’11 luglio e in contributi successivi. Habermas denuncia apertamente i tentativi neo-conservatori di rimuovere il passato tedesco; il fine di questa operazione è, secondo Habermas, del tutto politico e si inscrive nel clima culturale e politico conservatore di destra che, dopo il 1982, anno in cui la SPD è uscita dal governo, si va imponendo in Germania. Habermas, al quale interessa l’europeizzazione della Germania, rimanda al giudizio morale, alla colpa metafisica, al senso di cui parlava Jaspers: un senso che non può essere eluso neppure in nome di una presunta oggettività storica. La Historikerstreit acquista un senso soltanto se serve, come ha scritto un grande storico inglese, Tim Mason a “odiare con assoluta precisione”: vale a dire che il giudizio morale, per essere legittimo ed efficace, deve giungere solo al termine di un’analisi storica esauriente e sistematica.

(Da Nicolò Scialfa, Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare, Roma, 2002)

J.V.

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