Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare. Capitolo 7
Capitolo settimo
Il revisionismo di sinistra
O what a noble mind is here o’erthrown!
(Oh qual nobile intelletto è qui offuscato!)
(W. Shakespeare, Amleto, a. III, sc. I)
7.1. Le cause del revisionismo di sinistra
Il revisionismo di sinistra, che per quanto riguarda gli esiti della discussione sulla Shoah, non differisce molto da quello di destra o, addirittura, dal negazionismo, presenta una tesi comune a tutti gli storici che ad esso si richiamano, che è grosso modo questa: il martirio reale degli ebrei è stato trasformato in mito, facendo passare in secondo piano tutti gli altri stermini del Novecento, dovuti alla violenza politica insita nei rapporti capitalistici. La mitologia sionista – così la chiamano questi storici – ha già causato cinque guerre in Medio Oriente e costituisce una permanente minaccia per la pace, a causa delle pressioni sull’opinione pubblica mondiale della lobby sionista americana.
Anche il revisionismo di sinistra prende le mosse dal Processo di Norimberga e dal suo sostanziale fallimento; inoltre mette duramente in discussione l’esistenza dello Stato israeliano e la sua politica nei confronti dei Palestinesi. Un’importante data di partenza per l’analisi di questo fenomeno può essere il 1960, anno nel quale viene pubblicato su “Il programma comunista”, un articolo di Amadeo Bordiga, “Vae victis, Germaniae”, per il quale smontare la ricostruzione storica della Shoah vuol dire distruggere l’antifascismo interclassista, considerato controrivoluzionario: il sionismo, a detta di Bordiga, amplificando lo sterminio degli ebrei, riduce il nazismo ad un semplice regime razzista, eliminando gli aspetti classisti a lui connaturati, e non consente di studiare l’universo dei lager come risultato del capitalismo, o meglio come una proiezione bellica dello sfruttamento capitalistico in tempo di pace.
La casa editrice francese “La vieille Taupe”, punto di riferimento del revisionismo di sinistra francese, riprende le tesi bordighiane e ad opera, in particolar modo, di Pierre Guillaume, esprime concetti analoghi: l’insistenza sui crimini dei nazisti ha come scopo principale quello di giustificare la Seconda guerra mondiale, contrapponendo democrazia a nazismo, Anglo-americani a tedeschi. Guillaume, convinto del carattere capitalistico e imperialista della Seconda Guerra mondiale, critica l’imposta-zione storica che vede in questo conflitto una lotta all’ultimo sangue tra civiltà democratica da un lato e barbarie nazista dall’altro. Quella di Guillaume è una posizione che contiene alcune verità, ma insiste troppo sulla negazione della volontà di sterminio dei nazisti a danno degli ebrei, sminuendo, di fatto, la gravità dei crimini tedeschi. In Italia tesi analoghe sono sostenute da Cesare Saletta che pubblica presso la casa editrice genovese Graphos, punto di riferimento dei negazionismi di destra e di sinistra. Posizione leggermente diversa è quella dell’ex stalinista Roger Garaudy, ora convertitosi all’Islam, il quale sostiene posizioni negazioniste in odio al sionismo di destra, da lui considerato il vero manipolatore dei dati reali sullo sterminio e responsabile primo delle strumentalizzazioni, atte a giustificare, sull’onda emotiva delle deportazioni e dei massacri, l’esistenza dello stato israeliano. Egli contrappone al sionismo di destra, un sionismo di sinistra, influenzato dal socialismo ebraico e dal rabbinismo universalista.
Altro esponente revisionista in materia di sterminio degli ebrei è Domenico Losurdo, per il quale nei lager nazisti si è consumato uno dei tanti massacri dovuti al capitalismo; la sua critica alla ricostruzione canonica della Shoah nasce dal fatto che il genocidio degli ebrei è sempre più oggetto di studio, solo perché è stato compiuto su uomini bianchi, invece che su arabi o neri d’Africa.
“È bene rimarcare che, al di là di opposte ideologie, i revisionismi e i negazionismi dell’una e dell’altra parte, portano sempre acqua al mulino dei neonazisti e dei facinorosi fascisti, smaniosi di poter contestare le “menzogne” ebraiche; per tutto ciò si assiste a strane alleanze, in nome dell’oggettività storica, tra neonazisti e marxisti di ogni sorta. Vale per costoro, ciò che vale per Nolte o per Romano: negare o anche soltanto mettere in discussione ciò che non ha bisogno di essere provato perché è stato “provato” da circa sei milioni di esseri umani, è una forma di analfabetismo morale.”
Chi partecipa emotivamente e moralmente al dramma della Shoah, non può non provare sincera commozione per il dramma palestinese: le donne e gli uomini che hanno fiducia nella giustizia e speranza in un’etica superiore, non possono non auspicare la pacifica convivenza tra palestinesi ed israeliani. Già nel 1961, ai tempi del processo Eichmann, la Arendt, con la lucidità che l’ha sempre contraddistinta, aveva messo il dito sulla piaga delle strumentalizzazioni sioniste, che di sicuro esistono ma che non tolgono nulla all’immensità della tragedia di Auschwitz.
7.2. Le tesi di Finkelstein
Norman G. Finkelstein, 46 anni, è docente di Teoria politica e relazioni internazionali alla New York University, ebreo e figlio di ebrei che hanno vissuto nel ghetto di Varsavia e rischiato di morire nei campi di Auschwitz e di Majdanek. Finkelstein è dunque, in apparenza, insospettabile di simpatie revisioniste o, peggio, negazioniste. Eppure è suo uno dei più violenti attacchi all’opera di Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, una delle più lucide analisi sullo sterminio degli ebrei d’Europa. Finkelstein ha dichiarato che il libro di Goldhagen è «un oltraggio alla memoria e alla verità», e ha tentato di confutarlo punto per punto con un saggio intitolato La folle tesi di Goldhagen, pubblicato dalla rivista inglese di estrema sinistra New left review e poi ripreso dal tedesco Spiegel. Il punto della discordia tra i due storici, non è sull’ieri, ma, ovviamente, sull’oggi: nel senso che a Finkelstein non interessa tanto il ruolo del popolo tedesco negli anni della Shoah, quanto l’attuale ruolo dello stato israeliano. Secondo Finkelstein, Goldhagen farebbe parte di ambienti sionisti che sfruttano la memoria della Shoah per giustificare l’azione di Israele; Goldhagen ribatte accusando Finkelstein di sentimenti filopalestinesi. Finkelstein ha scritto anche un libro, L’industria dell’olocausto, nel quale insiste sulla tesi della lobby ebraica insediatasi nel Congresso ebraico mondiale e nella Jewish Claims Conference, che ha trasformato l’olocausto in un affare e ha conservato posizioni di potere anche a danno delle stesse vittime del genocidio nazista. Peter Novick, storico dell’Università di Chicago, autore del libro L’Olocausto nella vita americana, sostiene che il genocidio diviene sempre più il centro dell’identità ebraico-americana; a suo parere, in un mondo sempre più secolarizzato gli ebrei avrebbero trovato nell’Olocausto un sostitutivo della religione. Il vero problema è che entrambe queste tesi rischiano di essere utilizzate in chiave antiebraica, anche perché i giovani tedeschi sono stanchi di sentirsi imputati di qualcosa che non hanno commesso; secondo un’indagine dello Spiegel, l’80% dei trentenni tedeschi si trova sulle posizioni di Finkelstein e critica violentemente il libro di Goldhagen: più o meno le stesse reazioni che si ebbero nel dopoguerra di fronte alle posizioni di Karl Jaspers.
7.3. L’antisemitismo oggi
Alcuni studiosi hanno osservato che nel mondo attuale esistono di fatto «bianchi negri» come i poveri, socialmente ridotti in schiavitù o costretti a morire di fame e di freddo nelle metropoli opulente, e «bianchi onorari» come i giapponesi, oggi ben accolti nel club esclusivo degli occidentali. Malcom X affermava che agli afroamericani spettava scegliere se essere neri perché poveri, o piuttosto essere poveri perché neri. Questo genere di riflessioni consente di comprendere le motivazioni del perdurante antisemitismo contemporaneo, malgrado il terribile esito della “soluzione finale”: in un’Europa con pochi ebrei, va trionfando il razzismo senza razza, e in questo modo l’antisemitismo diviene l’idealtipo del razzismo moderno. Essendo gli ebrei per definizione “una razza senza razza”, un frutto dell’antisemitismo, con totale assenza d’elementi oggettivi d’identità razziale, l’antisemitismo può essere considerato il paradigma del razzismo mondiale contemporaneo. A questo proposito si ricorderanno le parole di Karl Lueger, sindaco antisemita di Vienna, tra il 1897 e il 1910, che a chi gli rinfacciava l’amichevole frequentazione d’ebrei ribatteva: «Sono io a decidere chi è ebreo». L’ebreo viene caratterizzato dalla sua presunta lussuria, dal rapporto patologico col denaro e dall’appartenenza a movimenti rivoluzionari, visto il suo sradicamento e la sua naturale tendenza sovversiva. Alle spalle dell’antisemitismo nazista, si nascondeva una lunga tradizione, oggi di nuovo attiva, che vedeva nell’ebreo la personificazione dello spirito astratto e cosmopolita, del rivoluzionario sradicato, dell’intellettuale sovversivo o del capitalista finanziario: in ogni caso la classe straniera per eccellenza, e quindi il principale nemico dell’ordine sociale fondato sul dominio di una classe superiore. In questo senso è appropriata la battuta che era già stata dei primi socialisti: l’antisemitismo è il «socialismo degli imbecilli», ovvero l’antisemitismo trae la sua origine dalla lotta tra le classi, ma nasce da una concezione errata e perversa, che stabilisce un rapporto tra lo sfruttamento del proletariato e la confessione religiosa degli sfruttatori.
Oggi esiste comunque un diffuso antisemitismo legato alla costituzione di uno Stato ebraico: la creazione dello Stato d’Israele fu, prima d’ogni altra considerazione, la conseguenza della volontà degli ebrei di tutto il mondo di evitare il ripetersi del genocidio nazista. Sono passati cinquantaquattro anni dalla nascita dello Stato israeliano, nel quale ormai ha trovato un «focolare» circa un quarto della popolazione ebraica mondiale: i brillanti risultati raggiunti da Israele sul piano sociale e civile, dovrebbero aver fatto piazza pulita dei tristi e frusti luoghi comuni sugli ebrei, considerati senza terra, manipolatori di denaro, traditori e ipocriti. Certo i massacri nei campi profughi di Sabra e Chatila, non impediti dall’esercito israeliano, hanno contribuito non poco a far crescere l’antisionismo che non è antisemitismo!
7.4. Le vere finalità del revisionismo
Il momento cruciale della vicenda revisionista è la nascita della teoria del totalitarismo, elaborata da intellettuali tedeschi negli anni Trenta e ripresa da Hannah Arendt, nell’ormai famosa opera, e soprattutto rivista da politologi americani al tempo della guerra fredda. Ora, se risponde a verità che lo stato staliniano fu totalitario – e forse lo fu ancor più di quello nazista – come la Arendt ha ben spiegato, non è vero che l’esperienza nazista e quella comunista siano equivalenti; intanto perché il movente del bolscevismo consisteva nell’eguaglianza tra gli esseri umani, mentre quello del nazismo era esattamente l’opposto.
Stalin vinse, nella lotta per la conquista del potere, contro uomini ben più colti e onesti di lui, anche grazie alle responsabilità politiche dell’Occidente – Inghilterra e Francia in particolar modo -, ben contento di veder naufragare un’esperienza economico-politica differente da quella capitalistica; il calcolo politico delle classi dirigenti inglese e francese portò prima all’ isolamento sovietico, poi all’accordo di Rapallo tra URSS e Germania, che inaugurò una lunga cooperazione tra i reietti d’Europa, destinata a durare sino all’operazione Barbarossa; altra responsabilità grave dell’Occidente fu la vittoria franchista nella guerra di Spagna. L’alleanza con Stalin contro Hitler a partire dal 1941/42, dopo aver tollerato la resistibile ascesa dell’invasato leader nazista come antidoto al bolscevismo sovietico, si deve ai più accorti e pragmatici politici americani d’estrazione roosveltiana – piuttosto che ai francesi o agli inglesi -, ai quali apparve chiaro che senza tale accordo la Germania avrebbe potuto vincere la guerra e unificare l’Europa sotto l’egida nazista. Spesso le opere letterarie sono più utili dei saggi storici per comprendere un periodo storico, e questo è il caso del bel libro del giapponese anglofono Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno, nel quale si racconta degli errori commessi dalla classe dirigente inglese degli anni Trenta nei confronti della politica estera hitleriana, e dell’ atteggiamento ben più concreto dei diplomatici americani. Occorre dire che se l’intervento americano fu dettato da motivazioni squisitamente economiche, è altrettanto vero che per una volta una guerra venne vinta dai meno peggiori. Dopo la guerra, le voci critiche più giuste e sagge, come quella di Jaspers, vennero purtroppo superate dalle esigenze economiche dei nuovi padroni del mondo, abilissimi nell’ammantare di motivazioni etiche il loro predominio. E così torniamo al momento iniziale del revisionismo: il processo di Norimberga, nel quale proprio il manicheismo storiografico dei vincitori autorizzava la ricerca di verità alternative o, più spesso, ricostruzioni fantasiose ma altrettanto strumentali.
L’assunto essenziale del revisionismo consiste nell’equiparazione di nazismo e comunismo e quindi, come scrive Burgio, nella trasfigurazione della storia europea: l’Occidente liberaldemocratico ha vinto contro il totalitarismo hitleriano. La gloria è però offuscata dal passato: come spiegare infatti l’alleanza dell’Occidente con Stalin per vincere la guerra, e soprattutto il silenzio sullo sterminio degli ebrei? Ai vincitori risultavano ingombranti i ventuno milioni di morti sovietici e i sei milioni di ebrei sterminati nei campi. Scrive molto bene Burgio:
“le esigenze ideologiche della guerra fredda incoraggiano il rovesciamento delle posizioni storiografiche originarie, ponendo le premesse per la formulazione di una tesi fondamentale del revisionismo storico. Il suo compito risulta evidentemente agevolato da una nuova impostazione del conflitto internazionale che conferisce dignità alla tesi schmittiana della crociata contro la barbarie asiatica nel nome della comune appartenenza alla civiltà europea. E’ a questo punto che l’affermazione della responsabilità tedesca per lo scoppio della seconda guerra mondiale comincia ad essere ribaltata con il chiamare in causa il pericolo bolscevico; non sarà che uno sviluppo sistematico di questo motivo la tesi noltiana della natura preventiva dell’attacco di Hitler all’URSS, contro la quale in sostanza il nazismo avrebbe inteso ergere una trincea avanzata. Ciò che ancora mancava era l’altra componente del teorema giustificatorio (l’universo concentrazionario nazista quale variabile dell’archetipo del Gulag; la soluzione finale come mera ripetizione dei crimini staliniani), la cui paternità sembra doversi ascrivere per intero al Nolte. Ma la via era stata aperta, e suona come un esplicito riconoscimento al clima della guerra fredda quale contesto originario di tali posizioni il titolo del libro La Germania e la guerra fredda, appunto – in cui il Nolte formulava questa tesi per la prima volta.” (A. Burgio, L’invenzione delle razze, 1998)
In seguito Nolte radicalizzerà questa posizione, affermando che il Novecento è stato teatro di una guerra civile, scatenata dall’universalismo militante comunista contro il particolarismo militante capitalista, che si è visto costretto a difendersi, prima col nazismo, poi con la bomba atomica e con la guerra economica vinta a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
Detto questo, le razze, ammesso che esistano, col razzismo hanno poco da spartire e il razzismo biologico nei confronti degli ebrei, conclusosi con la morte di circa sei milioni di esseri umani, ha segnato il momento apicale della catastrofe derivante dalle teorie razziste. Ora se è vero che il razzismo consiste proprio nel teorizzare assurde pretese naturali, soltanto una nuova storia del razzismo, più consapevole, può e deve rispondere al revisionismo storico, la cui mira è quella di far dimenticare la responsabilità dell’Occidente nello sterminio delle popolazioni “di colore” e nella distruzione degli ebrei in Europa. Quanti oggi sostengono di voler essere revisionisti perché in quest’operazione consiste il lavoro dello storico, mentono sapendo di mentire; è vero che gli storici debbono continuamente interrogare il passato, e perciò sono naturalmente “revisionisti”, ma ciò che non è vero è che l’onestà intellettuale dello storico debba andare a rivedere e rimuovere ciò che milioni di esseri umani hanno veduto, sofferto e testimoniato.
(Da Nicolò Scialfa, Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare, Roma, 2002)
J.V.