L’ufficiale e la spia
L’ufficiale e la spia
L’ufficiale e la spia (J’accuse) è tratto dall’omonimo romanzo del 2013 di Robert Harris, co-autore della sceneggiatura con Roman Polański. Spiace che non sia stato mantenuto il titolo originale “J’accuse”.
Jean Dujardin: tenente colonnello Marie-Georges Picquart
Louis Garrel: capitano Alfred Dreyfus
Emmanuelle Seigner: Pauline Monnier
Grégory Gadebois: maggiore Hubert-Joseph Henry
Mathieu Amalric: Alphonse Bertillon
Melvil Poupaud: Fernand Labori
Éric Ruf: colonnello Jean Sandherr
Laurent Stocker: generale Georges-Gabriel de Pellieux
François Damiens: Émile Zola
Michel Vuillermoz: tenente colonnello Armand du Paty de Clam
Denis Podalydès: Edgar Demange
Wladimir Yordanoff: generale Auguste Mercier
Didier Sandre: generale Raoul Le Mouton de Boisdeffre
Vincent Grass: generale Jean-Baptiste Billot
Hervé Pierre: generale Charles-Arthur Gonse
Laurent Martella: capitano Ferdinand Walsin Esterhazy
Vincent Perez: Louis Leblois
Luca Barbareschi: Philippe Monnier
Roman Polanski ci offre un film memorabile e i fatti narrati meritano un’accurata ricostruzione.
Dal 1894 al 1906, più o meno negli stessi anni in cui il governo russo fabbricava e metteva in circolazione i falsi Protocolli dei Savi di Sion, la Francia fu sconvolta da un caso giudiziario – il caso Dreyfus – che riuscì a scatenare nella gente violente passioni coinvolgendo grandi temi quali il rapporto tra Stato e Chiesa, la lealtà repubblicana di magistratura e esercito, il nesso fortissimo tra antisemitismo, cattolicesimo, militarismo, golpismo. Col caso Dreyfus nacquero l’antisemitismo “scientifico” e il sionismo, la figura dell’intellettuale moderno e l’uso propagandistico dell’im-magine. Il 26 settembre 1894 il controspionaggio francese, il cosiddetto “Ufficio Statistica”, entrò in possesso di un foglio di carta quadrettata – una nota (bordereau) destinata al colonnello tedesco von Schwartzkoppen, addetto militare all’ambasciata tedesca a Parigi – che conteneva informazioni militari di modesto interesse ma che certamente proveniva da un ufficiale francese forse appartenente allo Stato Maggiore. Il maggiore Hubert Joseph Henry, membro della sezione statistica e in seguito direttore della stessa, aveva più il fiuto del poliziotto che dell’ufficiale. Di scarsa cultura, era però dotato di grande furbizia ed era esperto nella manipolazione di documenti al punto da trarre in inganno colleghi e superiori. Henry informò il suo superiore diretto, colonnello Jean Sandherr, e gli tracciò subito un possibile profilo del colpevole: ufficiale di artiglieria, che si trovava allo Stato Maggiore nel ruolo di stagiaire, cioè ufficiale in prova, nella condizione ideale per essere informato di questioni interessanti. L’elenco degli stagiaires era corto e tra i pochi nomi Henry si soffermò su quello di Alfred Dreyfus, capitano di artiglieria che aveva fatto esperienza in vari settori dello Stato Maggiore, alsaziano, dal nome tedesco e soprattutto ebreo. Henry conosceva bene i pregiudizi nutriti da Sandherr verso gli ebrei e non gli fu difficile indirizzare i sospetti verso Dreyfus. Alcuni documenti scritti da Dreyfus furono confrontati con il bordereau e due calligrafi su tre dissero che le calligrafie erano molto somiglianti, mentre un terzo esperto era di parere diverso. In realtà il tipo di scrittura in esame era molto diffuso all’epoca: esisteva allora una sorta di moda nella grafia epistolare. Le indagini sul passato dell’ufficiale furono del tutto negative: non c’era niente contro di lui; Dreyfus, come tutta la sua famiglia, era legatissimo alla Francia, di sentimenti antitedeschi; le sue condizioni economiche floride non giustificavano un tradimento per lucro; la sua condotta in privato e nell’esercito era sempre stata irreprensibile. Eppure si volle vedere in lui il colpevole. Il mattino di sabato 13 ottobre 1894 un sottufficiale recapitò a casa del capitano Dreyfus, una comunicazione di servizio con l’ordine di presentarsi il lunedì successivo 15 ottobre alle ore nove al ministero della Guerra, vestito in borghese per una “ispezione generale”.
Arrivato al ministero fu introdotto nell’ufficio del capo di Stato Maggiore dove trovò il sostituto dell’ufficio, maggiore marchese Ferdinad Du Paty de Clam in divisa e tre sconosciuti in borghese. Du Paty de Clam dopo aver fatto scrivere alcune righe a Dreyfus, gli comunicò che era in arresto, accusato di alto tradimento. Poi gli tese una pistola perché concludesse “da ufficiale la sua vergogna”. Il capitano Dreyfus respinse l’accusa – e l’arma – con sdegno. Venne trasferito nel carcere di Cherche-Midi. Il direttore del carcere militare, il maggiore Ferdinand Forzinetti, uomo intelligente e sensibile, ebbe subito la certezza dell’innocenza del capitano ebreo. I poteri di Forzinetti erano limitati, ma il maggiore fece quanto possibile per alleviare la pena del presunto reo. Il generale Mercier, ministro della Guerra, aveva ordinato nell’affare la massima segretezza, senonché il 29 ottobre, sedici giorni dopo l’arresto, La Libre Parole, un quotidiano antisemita, legato agli ambienti militari, si chiedeva se fosse vera la notizia dell’arresto di un traditore. Qualcuno evidentemente aveva interesse a far scoppiare uno scandalo. Direttore del giornale era Edouard Drumont che, otto anni prima aveva avuto un clamoroso successo con un libro intitolato La France juive, nel quale indicava gli ebrei come i massimi responsabili dei mali della Francia ed in particolar modo della pesante recessione economica che attanagliava il paese. Drumont interpretava tutta la storia occidentale come lotta tra ariani e semiti, anticipando di mezzo secolo le teorie hitleriane. Il libro ebbe successo anche grazie all’appoggio della Chiesa e degli ambienti cattolici: i parroci francesi ne raccomandavano la lettura ai fedeli. Visto il successo del libro, Drumont comprese che esisteva lo spazio per un quotidiano antisemita e così fondò La Libre Parole che negli anni del caso Dreyfus raggiunse una tiratura di oltre duecentomila copie. Il tradimento di un ufficiale ebreo era quel che ci voleva per scaldare il clima politico e realizzare in Francia una decisa svolta a destra. Le esitazioni del perito calligrafo che aveva rilevato notevoli dissomiglianze tra la grafia di Dreyfus e quella del bordereau, vennero accantonate e si presero per buone le conclusioni di un nuovo esperto, del tutto conformi ai desideri del ministro Mercier e dei capi dello Stato Maggiore. Drumont scatenò una campagna di stampa furiosamente antisemita; un altro giornalista, Henry Rochefort, scriveva sull’Intransigeant che i ministri non erano che “gli uscieri di Rothschild”. Altri giornali antisemiti o cattolici quali il Triboulet, il Pèlerin, La Croix soffiarono sul fuoco sostenendo che bisognava farla finita con gli ebrei. Dreyfus, aveva nominato suo difensore uno dei più stimati penalisti di Parigi, ma persino un grande avvocato era impotente di fronte alla violenza della campagna antisemita. Dreyfus era disorientato: continuava a sostenere la propria innocenza ma non riusciva a capire come fosse finito in quell’orribile macchinazione. Quando, il 19 dicembre si aprì il dibattimento di fronte al Consiglio di Guerra, la sorte del capitano ebreo appariva già compromessa. Le sedute, a porte chiuse, durarono tre giorni. La sentenza, unanime, fu di colpevolezza. Dreyfus fu condannato alla deportazione perpetua, il che comportava, naturalmente la degradazione. La cerimonia della degradazione avvenne il 5 gennaio 1895 alla presenza di una gran folla eccitata da cui si levava il grido “Morte agli ebrei”. Tra la folla c’era, quale corrispondente della Neue Freie Presse un giornalista ebreo arrivato da Vienna, che rimase sconvolto dal comportamento della folla: si chiamava Theodor Herzl, il futuro fondatore del sionismo. Il 17 gennaio iniziò il viaggio di Dreyfus verso l’isola del Diavolo, nella Guayana francese. Lungo il viaggio da Parigi a La Rochelle, nonostante la presenza di una forte scorta, folle tumultuanti tentarono di linciare “il traditore ebreo”. Dall’isola del Diavolo si usciva in due modi: o graziati o morti. Per due anni non accadde nulla, anche se la famiglia di Dreyfus si adoperava per farne riconoscere l’innocenza. Ai primi di novembre 1896 un intellettuale ebreo francese di idee libertarie, Bernard Lazare, fece stampare a Bruxelles – per non incorrere nella censura francese – un opuscolo di sessanta pagine, Une erreur judiciaire. La vérité sur l’affaire Dreyfus, che non fu messo in commercio ma spedito a giornalisti, uomini politici e magistrati. Il 18 novembre 1896 il deputato André Castelin presentava un’interpellanza per sapere se rispondesse a verità che “un ufficiale francese era stato condannato grazie ad un documento prodotto ai giudici a sua insaputa e che non aveva potuto discutere”. Il nuovo ministro della Guerra Jean-Baptiste Billot dichiarò in Parlamento sul suo onore di soldato che Dreyfus era stato “giustamente e legalmente condannato” e tutto parve finire lì. Esisteva già allora un documento che avrebbe completamente scagionato il condannato ma che fu reso noto soltanto molto più tardi, nel 1930, dopo la morte del colonnello von Schwartzkoppen, il quale in un rapporto inviato a suo tempo a Berlino aveva scritto di non aver mai conosciuto Dreyfus e di ignorare l’esistenza del documento che aveva condotto alla sua condanna. Il colonnello Picquart, anch’egli alsaziano, aveva sostituito Sandherr a capo dell’Ufficio Statistica. Nel mese di marzo del 1896 aveva intercettato un telegramma molto compromettente che proveniva dall’ufficio del colonnello von Schwartzkoppen, preparato ma non spedito, e indirizzato a un ufficiale francese di nobile famiglia, il Comandante Esterhazy. Un altro traditore? Picquart, informato il capo di Stato Maggiore, avviò un’inchiesta. La calligrafia del bordereau che aveva fatto condannare Dreyfus, risultò identica a quella di Esterhazy. Ma molti alti ufficiali erano del parere che si trattasse di un complotto ebraico per salvare Dreyfus e gettare discredito sull’esercito. Picquart, convinto dell’innocenza di Dreyfus, inviò un rapporto al capo di Stato Maggiore, che, turbato e irritato passò la questione al suo vice. Quest’ultimo convocò Picquart e gli disse a muso duro che bisognava tutelare il buon nome dell’esercito e che quindi era escluso che il caso potesse essere riaperto. Picquart fu trasferito nel Tonchino prima e in Africa poi, ma nell’estate del ‘97 consegnò l’intera documentazione, ad un amico, l’avvocato Leblois vincolandolo però al proprio consenso prima di avviare qualsiasi azione. Leblois nel luglio del ’97 consegnò l’incartamento al vicepresidente del Senato Scheurer-Kestner, il quale però poté fare ben poco, legato com’era all’impegno di non rivelare le fonti delle sue informazioni. Alla fine d’ottobre l’anziano senatore incontrò il presidente della Repubblica Félix Faure che lo ascoltò distrattamente e con atteggiamento malevolo; poi si recò da Méline, primo ministro, legato ai circoli militari e quindi contrario a rimettere in discussione il caso. Alla fine si recò a cena col suo vecchio amico generale Billot, ministro della Guerra, che dopo averlo ascoltato per tre ore tagliò corto: “Dreyfus è colpevole”. Solo a questo punto Scheurer-Kestner decise di uscire allo scoperto. Scrisse una lettera al Temps dichiarando di aver inoltrato al governo i documenti che scagionavano completamente Dreyfus. I giornali antisemiti gridavano al complotto anticattolico (Scheurer-Kestner e Leblois erano protestanti), insinuavano dubbi sulla lucidità mentale del vecchio parlamentare. Il governo riaffermò la sua contrarietà alla revisione del processo. I socialisti erano indifferenti al caso di un ufficiale alto-borghese, esponente di una classe sociale nemica. Quando si cominciò a parlare di Esterhazy come del vero autore del bordereau i vertici militari ordinarono un’inchiesta, il cui risultato fu l’incriminazione di Picquart e la proclamazione dell’innocenza di Esterhazy. Picquart, accusato di aver divulgato documenti militari riservati, fu radiato dall’esercito e arrestato.
Quando la situazione pareva volgere al peggio, avvenne un fatto clamoroso che riaprì la partita: l’incontro tra l’avvocato Leblois e il noto scrittore Émile Zola. Da tempo Zola si era convinto dell’innocenza di Dreyfus e il giornale Le Figaro aveva ospitato qualche suo intervento in questo senso, ma ora appariva restio a continuare su posizioni dreyfusarde. Zola si rivolse allora a Georges Clemenceau, caporedattore de L’Aurore. Anche Clemenceau riteneva che non ci fossero possibilità di riaprire il caso Dreyfus; poi, man mano che venivano fuori imbrogli e falsificazioni, e soprattutto l’impudenza di Esterhazy e dei suoi protettori, si decise a dar battaglia. Il 12 gennaio 1898 Zola consegnò a Clemenceau l’articolo intitolato Lettera al signor Félix Faure, presidente della Repubblica; Clemenceau lasciò immutato il testo ma cambiò il titolo in J’accuse che fu stampato a caratteri di scatola. Il giornale andò a ruba; un’enorme emozione s’impadronì di Parigi, poi di tutta la Francia, dell’Europa, degli Stati Uniti. Da quel giorno l’Affaire Dreyfus diventò L’Affaire e basta, la questione per eccellenza. La lunga lettera di Zola ripercorreva tutte le tappe del caso e concludeva con otto j’accuse. L’articolo portò Zola in tribunale, come lo stesso Zola aveva previsto e voluto con l’intenzione di riaprire in questa sede l’affare Dreyfus. Il processo si tenne dal 7 al 23 febbraio 1898. Tra i testimoni a suo favore sfilarono anche Anatole France e Jean Jaurès oltre a Scheurer-Kestner. Ottomila lettere di solidarietà allo scrittore, tra cui quelle di Giuseppe Verdi e di Lev Tolstoi, erano giunte da tutto il mondo a casa di Zola. Dentro e fuori il tribunale il clima era decisamente ostile a Zola e folle di scalmanati, sapientemente guidate da agitatori antisemiti, gridavano “Viva l’esercito” e “Morte agli ebrei”. La posta in gioco era molto alta: ragion di Stato contro società civile, conservazione sociale e difesa dell’onore dell’esercito contro l’innocenza manifesta di Dreyfus. La condanna di Zola era scontata. Intanto si era formato un nuovo governo nel quale ministro della Guerra era il generale Cavaignac, figlio del generale che aveva represso i moti operai del ‘48. Colpevolista convinto, Cavaignac si oppose strenuamente alla revisione del processo fino a quando, nel mese di agosto del ‘98, a causa di altri scandali piovuti sulla testa di Esterhazy, il dubbio non s’insinuò anche in lui e quindi decise di esaminare con più attenzione tutti gli incartamenti. Ne uscì convinto dell’innocenza di Dreyfus e della colpevolezza dell’uomo che aveva fabbricato le prove contro di lui: il tenente colonnello Henry. Convocato il 30 agosto e messo alle strette Henry confessò. Il 31 agosto fu arrestato e la sera stessa fu trovato esangue sul letto della sua cella: si era suicidato o, come molti sospettarono, era stato ucciso con due colpi di rasoio alla gola. Il 3 settembre Cavaignac si dimetteva mentre Esterhazy fuggiva in Inghilterra. L’istanza di revisione del processo presentata alle sezioni riunite della Corte di Cassazione non poteva essere accettata dagli ambienti militari perché la sua approvazione avrebbe segnato la superiorità dei tribunali civili su quelli militari, che era appunto il principio su cui aveva sempre insistito Clemenceau, e si parlò addirittura della possibilità di un colpo di stato militare. Comunque iniziò l’iter, lungo e faticoso, della revisione processuale e vennero alla luce tutte le malefatte dei vertici militari responsabili dell’affaire. Il 3 giugno viene annullato il verdetto del dicembre ’94 e Dreyfus rinviato a un nuovo processo da tenersi davanti alla Corte marziale a Rennes. Nello stesso giorno Esterhazy da Londra confessa di essere l’autore del bordereau, ma di averlo fatto dietro istruzioni superiori. L’indomani una grande manifestazione antidreyfusarda all’ippodromo di Auteil mostra come gli antisemiti non solo non si arrendevano di fronte all’evidenza ma sostenevano ancor più, dopo la confessione del vero colpevole, la tesi del complotto giudaico. Il 9 giugno Dreyfus inizia il viaggio di ritorno dall’isola del Diavolo verso la Francia: erano passati quasi cinque anni dal giorno del suo arresto.
L’11 giugno al campo di corse di Longchamp nel Bois de Boulogne un’immensa folla manifestò la sua decisione di difendere gli ordinamenti repubblicani contro le mene della destra reazionaria e antisemita. Il governo cadde e fu sostituito da un governo a maggioranza radical-socialista e dreyfusarda. Ma il caso Dreyfus non era ancora chiuso. La sentenza della Corte marziale a Rennes condannò di nuovo, scandalosamente, Dreyfus per tradimento ma gli concesse circostanze attenuanti non meno insussistenti dei capi d’accusa. In tutto il mondo ci furono indignazione e sgomento. Il governo era propenso a ricorrere alla Cassazione ma il ministro della Guerra, volle tentare come al solito di salvare capra e cavoli e si oppose al ricorso ricordando al governo che la Francia “è nella sua maggioranza antisemita”. A questo punto il presidente del Consiglio Waldeck-Rousseau, fece sapere alla famiglia Dreyfus che il governo avrebbe sollecitato il capo dello Stato a concedere la grazia purché Dreyfus accettasse il provvedimento. Accettare la grazia significava riconoscersi colpevoli. Dreyfus, stanco e amareggiato, accettò pur di farla finita. Un convinto dreyfusardo, Charles Péguy, scrisse in proposito: “Noi saremmo morti per Dreyfus, ma Dreyfus non è morto per Dreyfus”. L’atto di clemenza fu firmato dal presidente della Repubblica Loubet il 19 settembre 1899; tre giorni dopo Dreyfus uscì dalla prigione. Waldeck-Rousseau il 17 novembre propose un’amnistia generale che, come disse Zola, avrebbe messo nello stesso sacco vittime e carnefici, onesti e farabutti. Solo nel 1904, sotto la pressione del leader socialista Jean Jaurès, il verdetto di Rennes venne riesaminato. Nel luglio 1906 il Parlamento approvò la reintegrazione di Dreyfus nel grado di maggiore e il rientro nei ranghi di Picquart col grado di generale: il 21 luglio nel cortile dell’École Militaire Dreyfus ottenne la Legion d’onore. Il 25 ottobre Clemenceau venne eletto primo ministro e nominò Picquart ministro della Guerra. Il 4 giugno di due anni dopo, con una solenne cerimonia, le ceneri di Zola, che era morto nel 1902, furono trasferite al Pantheon; nel corso della cerimonia un attentatore ferì Dreyfus ad un braccio. Di fatto, le forze reazionarie non si erano rassegnate e avevano continuato a considerare Dreyfus un traditore e a soffiare sul fuoco dell’odio antisemita. Ecco il punto: l’antisemita nega l’evidenza, a lui non importa dove stiano il torto e la ragione, la verità e la menzogna, a lui importa soltanto vedere la propria verità; l’ebreo, in quanto tale, è in ogni caso colpevole. Tra il 1940 e il 1944, i nipoti degli antisemiti sconfitti nel 1906, collaboreranno con i nazisti a deportare gli ebrei nei campi di sterminio.
Non è il primo film su ”l’affaire” ma è sicuramente il più rigoroso, duro e incisivo. Il regista usa il mezzo Cinema, un mezzo che padroneggia da maestro, per invocare giustizia pubblica e privata. Roman Polanski mette in luce quelle che Marc Bloch chiamava Fausses Nouvelles e che oggi più che mai inquinano la nostra esistenza. Dujardin sembra nato per interpretare Picquart, un uomo che oltrepassa le proprie convinzioni per affermare la verità e la giustizia. Non stima Dreyfus né come uomo né come soldato, però sa che è innocente. Mette a rischio vita e carriera, finisce in carcere ma non arretra di un passo. Un film necessario, di grande nitore formale, pulito, asciutto, tagliato con l’accetta, paragonabile ad Orizzonti di gloria di Kubrick. La colonna sonora accentua i toni cupi e oppressivi, così come la finestra chiusa dell’ufficio di Picquart. Un antidoto contro il veleno delle gogne mediatiche oggi presenti in modo massiccio, contro la propalazione di false notizie e l’uso distorto dell’informazione. Un film che suona come un avvertimento, un grido, un allarme contro i falsi moralisti, i fomentatori di odio, le piccole persone rancorose ed invidiose, contro coloro che vogliono carceri e manette in modo indiscriminato invece che giustizia e verità. Abbiamo urgente bisogno dei Picquart per sconfiggere i pigmei rancorosi e ottusi, e sono molti, che ci circondano.
J.V.