Morselli
Morselli
La notte tra il trentuno luglio e il primo agosto 1973 Guido Morselli si spara un colpo di rivoltella alla testa. Per tutta la vita aveva cercato, senza trovarlo, un editore che pubblicasse i suoi libri. Dopo il suicidio esplode il “caso Morselli”. Autore di razza, autore incompreso, autore dalla beffarda fama postuma. Un anno dopo la morte Giulio Nascimbeni lo definisce “il Gattopardo del Nord”, Giancarlo Vigorelli lo accosta a Dostoevskij. In cinque anni vengono pubblicati nell’ordine Roma senza papa, Contro-passato prossimo, Divertimento, Il Comunista, Dissipatio H.G., Un dramma borghese. E poi ancora lodi da Giorgio Manganelli, Vittorio Spinazzola, Giovanni Raboni. Geno Pampaloni lo definisce “straordinario scrittore”. Vittorio Coletti mette in risalto il tratto illuminista dello scrittore. Eppure in vita Morselli frequentava il mondo culturale, da Antonio Banfi a Guido Calogero, da Italo Calvino a Dante Isella. Però gli editori respingevano ostinatamente ogni suo libro. Erede testamentaria dei manoscritti è l’amica Maria Bruna Bassi. Morselli, in grado di vivere decentemente di rendita, era lettore onnivoro ma seguiva un suo ordine. Autodidatta talentuoso, affascinato da Proust “Esiste la fantasia creativa o abbiamo soltanto la memoria?” si chiede Morselli. Poi trae ispirazione da Goethe, Amiel, Tolstoj, Leopardi. Legge i filosofi. I suoi livres de chevet sono Stendhal, Montaigne, Lucrezio. Odia i luoghi comuni e riflette seriamente sul problema del Male, sulla Teodicea, sulla Bellezza.
Annoiato dalla letteratura contemporanea (come non comprenderlo?), studia le diverse forme di romanzo. Esigente ed insoddisfatto, scrive molto e pensa ancor di più. Irruente, poco diplomatico ai limiti dell’arroganza come sanno esserlo soltanto le anime innocenti che possiedono una concezione idealistica della cultura. Litiga con la Casa editrice Einaudi, inizia ad essere tormentato dal pensiero del suicidio. Vive quasi come eremita. Unica consolazione l’amica, musa e compagna Maria Bruna Bassi. Solitudine, silenzio, natura, esercizio fisico, abitudini rigide. Scrive, spesso senza risposta, a celebrità del mondo artistico, letterario e politico, da Gassman ad Arpino e persino a Spadolini. Poi inizia la delusione del perfetto disadattato, della voce inascoltata. Singolare la vicenda editoriale del romanzo “Il Comunista” e lo scambio epistolare con Italo Calvino.
Lettera di Calvino del 5 ottobre ‘65
“Torino, 5 ottobre 1965
Caro Morselli,
finalmente ho letto il Suo romanzo. So d’aver tardato oltremisura e che non c’è nulla che spazientisca un autore quanto queste lunghe attese: ma la lettura dei manoscritti è un lavoro supplettivo per cui devo rubare del tempo al lavoro e alle altre letture che riempiono – ahimè senza margine – le mie giornate feriali e festive, inverno ed estate. Ed è anche un lavoro – devo dirglielo subito – che, quando si tratta di romanzi politici, faccio senza nessuna speranza. La politica continua a interessarmi, e così la letteratura (con tutto ciò che questo nome implica) ma dal romanzo politico non mi aspetto nulla, né in un campo d’interessi né nell’altro. Credo cioè che si può fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo… direi che ci vorrebbe più consapevolezza dell’operazione linguistica che sta facendo; dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo “inventare”. Qui è la grande delusione a cui necessariamente va incontro il “genere” che Lei ha scelto, il romanzo di rappresentazione quasi fotografica d’ambienti diversi, il romanzo storico-privato… L’unica via possibile è l’autobiografia, o comunque la riflessione in cui sia ben chiaro chi è il soggetto e qual’è il suo rapporto coll’oggetto che tratta; inventare – se non si tratta d’invenzione pura, cioè sempre d’autobiografia – è impossibile… Come vede il libro ho cercato di leggerlo in tutte le sue dimensioni, e mi sono accanito a smontarlo e rimontarlo: insomma ci ho preso gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo (un viaggio a Milano in treno, andata e ritorno) che ho impiegato a leggerlo, posso dire che mi ha mosso pensieri e ci ho imparato.
Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o “aver successo”.
Un cordiale saluto
Suo Italo Calvino”
Pochi giorni dopo la composta risposta di Morselli
“9 Ottobre 65
Caro Calvino,
La ringrazio della Sua lettera. Il “successo” c’è e non speravo di averne tanto: in veste, magari involontaria, di critico Lei mi dedica una lunga, articolata recensione, in cui è implicita una premessa per il povero “Comunista”. Il quale si presta alle Sue critiche, si capisce, ma so che Lei non concederebbe l’imprimatur a un lavoro che non stimolasse e non provocasse. Lei editore non ammetterebbe un libro “pacifico” sul quale tutti fossero destinati a trovarsi acriticamente d’accordo, sia pure in senso elogiativo. Lo considererebbe insignificante… Quanto a me, aggiungo che se nella Sua lettera avesse parlato l’editore, avrei controbattuto, ma una recensione si accoglie e si gradisce, anche se è rigorosa. Perciò quanto dico ora, lo dico in tesi generale.
Quell’ “apriori” che Calvino fieramente premette, “il romanzo è organicamente falso”, Calvino autore di opere che sono narrativa e senz’altro romanzo e lo mettono fra i 10 e 15 italiani del dopoguerra di cui si parlerà nei manuali di lettere del 2000, quell’apriori anti-romanzo è condiviso da parecchi, e è respinto da parecchi altri, non solo “produttori” come, poniamo, Moravia o la Ginzburg, ma studiosi; da Lukàcs a Jean Bloch-Michel. La spiegazione sta forse nel fatto che il romanzo è un universale oggi, all’esterno del quale manca oramai un genus proximum, mentre dentro di sé include “generi” in numero imprecisato e reciprocamente incomparabili come potevano essere all’epoca del classicismo francese l’idillio e la tragedia e La Bruyère, ecc. Questo spiega anche la coesistenza e l’azione efficace di “poetiche” così opposte, che sembrerebbero doversi escludere a vicenda, e cioè che possano trovare udienza e seguito i “joyciani” e i nuovi esaltatori di Zola, che riescano altrettanto attendibili i più recenti sperimentalisti per es. i teorici del nouveau roman francesi, e un Lukàcs codificatore del realismo (socialista e no), quanti ammettono al massimo il romanzo saggio e quelli che lo vogliono invece effusione lirica, confessione; ecc. È facile che questa brava gente abbiano tutti ragione, parzialmente, unilateralmente; il torto degli uni e degli altri, Lei sa, è di assolutizzare, di negare validità alle opere che escano dagli schemi (e “generi”, piuttosto) da ciascuno preferiti.
Mi sono avvicinato al punto che, provvisoriamente, ci interessa. Tutto, Lei sa, dipende dagli scopi che uno scrivendo si propone e dai mezzi che a quegli scopi si adattano. Chi ha molte cose da dire, cose di una certa categoria, gli conviene (per parlare un po’ all’ingrosso) l’oggettività e la costruzione; e una volta adottato questo metodo, che adoperi la prima persona e la terza “storica”, che autobiografizzi e si trinceri dietro un fittizio distacco saggistico, alla resa ultima il suo andamento narrativo non può essere molto diverso.
[…] se dovessi dire oggettivamente il mio parere sulla Sua “recensione”, direi che è vero, il “Comunista” può dar luogo a discussioni, vivaci e lunghe. Il Partito, i suoi esponenti, i suoi organi, periferici e non periferici, sono bene descritti in questa tipologia così rapida, unilaterale? L’argomento era inesauribile, Lei ha ragione; da poterne discutere all’infinito. Finirei per concludere così: che nel “Comunista” è veduto un ambiente e soprattutto un “tempo” (il ’58: già lontano da noi) di un organismo che – in Italia! – è soggetto a frammentazioni (anche geografiche) e a evoluzioni frequenti e non di superficie. Non pretendo di dare un giudizio storicizzante, e nemmeno, nemmeno, un ritratto esauriente. La sua rappresentazione poggia su un personaggio che è, e del resto sa di essere, molto inadeguato a incarnare le ragioni e i caratteri della localizzazione italiana (sia pure) di un movimento politico e dottrinale di portata universale […].
[…] Ma queste sono osservazioni di margine; quel che conta ora è che Lei mi scriva che alla lettura “ci ha preso gusto e ci si è arrabbiato”, che la figura centrale, o unica, del libro “c’è e persuade” (sono le Sue parole) e che il libro “è gremito di fatti e di cose”. Di più, io sinceramente non avrei potuto chiedere per il mio lavoro. Se uscirà, ho una mezza idea che si meriterà altri éreintements, e magari solo éreintements e stroncature, il che farà molto onore all’editore e persino troppo all’autore. Ma sarei felice se i critici che lo attaccheranno sapessero arrivare alle stesse conclusioni di fondo cui è arrivato Lei, e che lo maltrattassero col gusto e la passione che ci ha messo Lei. La ringrazio dunque ancora, e La prego: quando ritorna a Milano me lo faccia sapere, verrò a salutarla e per me sarà incontrare un amico.
Per non essere, a Lei, del tutto uno sconosciuto: sono emiliano, autodidatta, vivo solo su un piccolo pezzo di terra dove faccio un poco di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne.
Mi creda
Guido Morselli
Si spara nella notte del 31 luglio 1973. Lascia scritto “Non ho rancori” e la volontà di essere sepolto in terra aperta nel cimitero di Giubiano.
J.V.