Morte a Venezia

« La storia di un uomo ossessionato dalla bellezza ideale. »

Morte a Venezia è un film del 1971 diretto da Luchino Visconti, tratto dal romanzo La morte a Venezia dello scrittore tedesco Thomas Mann. Presentato in concorso al 24º Festival di Cannes, grazie al quale Visconti vinse un Premio speciale del venticinquesimo anniversario. È il secondo capitolo della “trilogia tedesca”, di cui fanno parte anche La caduta degli dei (1969) e Ludwig (1972).

* Dirk Bogarde: Gustav von Aschenbach
* Romolo Valli: direttore dell’albergo
* Mark Burns: Alfred
* Nora Ricci: governante
* Marisa Berenson: signora von Aschenbach
* Carole André: Esmeralda
* Björn Andrésen: Tadzio
* Silvana Mangano: madre di Tadzio
* Leslie French: agente di viaggi
* Franco Fabrizi: barbiere
* Antonio Apicella: il girovago
* Sergio Garfagnoli: Jaschu, giovane polacco
* Ciro Cristofoletti: ragazzo dell’hotel
* Luigi Battaglia: Scapegrace
Questa volta partirei dalla musica, fondamentale nell’economia complessiva del film. Le musiche sono tratte dal repertorio di Gustav Mahler, con Adagietto, ossia IV movimento della Quinta Sinfonia, con il primo movimento che è una marcia funebre (in tema con il film), e Sehr Langsam Misterioso, la quarta parte del II movimento della Terza.
Il film è una sinfonia tragica, ricca di temi sommessi e struggenti. Siamo di fronte è un’opera di rara compattezza stilistica e di eccezionale eleganza. Visconti ha penetrato in profondità il racconto di Mann.
Thomas Mann pubblica La morte a Venezia (nell’originale: Der Tod in Venedig) nel 1912. La novella è indubbiamente uno dei testi più interessanti del corpus delle opere di Mann (tra cui I Buddenbrook e La montagna incantata). Sono presenti tutte le tematiche di Mann: la decadenza della società aristocratico-borghese, il conflitto tra arte e realtà materiale, la metafora della “malattia” per indagare la crisi dell’uomo nella modernità. Il testo è inoltre ricco di rimandi ai dialoghi platonici (in particolare il Simposio) e alla teoria nietzschiana sul conflitto tra Apollo e Dioniso nella Nascita della tragedia.
Il racconto lungo viene composto dopo un soggiorno con la moglie a Venezia, dove lo scrittore tedesco aveva avuto modo di conoscere ed osservare un ragazzino che sarà poi d’ispirazione per il personaggio di Tadzio. Si tratta probabilmente del barone polacco Wladislaw Moes (1900-1986), in vacanza con la madre e le sorelle al lido di Venezia. Per quanto riguarda il protagonista, lo scrittore von Aschenbach, molti critici lo identificano con il compositore Gustav Mahler (1860-1911), anche se quest’ipotesi non è confermata. Altri identificano il protagonista nel letterato omosessuale August von Platen (1796-1835).
La moglie di Thomas Mann, Katia, ricorda che l’idea della storia nacque durante una vacanza che fece nella primavera del 1911 con il marito a Venezia:
« Tutti i dettagli della storia, a partire dall’improvvisa apparizione del pittoresco straniero nel cimitero, sono frutto dell’esperienza… Il primissimo giorno nella sala da pranzo, vedemmo la famiglia polacca, che appariva esattamente nel modo in cui la descrisse mio marito: le ragazze erano vestite in modo abbastanza convenzionale ed austero, e il bellissimo e affascinante ragazzino di tredici anni indossava un vestito alla marinara con colletto aperto e merletti molto graziosi. Attirò immediatamente l’attenzione di mio marito. Quel ragazzo era straordinariamente attraente, e mio marito lo osservava in continuazione con i suoi compagni sulla spiaggia. Non lo inseguì per tutta Venezia – questo non lo fece – ma il ragazzo lo affascinò, e pensava spesso a lui… Ricordo ancora che mio zio, il consigliere privato Friedberg, un famoso professore di diritto canonico a Lipsia, era indignato: “Che scandalo! E perdippiù un uomo sposato e con famiglia!”
“La morte a Venezia racconta l’amore platonico e autodistruttivo che un vecchio scrittore tedesco prova per un ragazzino in villeggiatura con la famiglia a Venezia. Questo amore che porta un uomo assennato, riconosciuto dalla società benestante e benpensante come un punto di riferimento etico ed estetico, a far crollare progressivamente tutte le proprie certezze fino a rifuggere persino la propria salute fisica, rischiando il contagio del colera e quindi la morte. Thomas Mann fa così convergere nel personaggio di Aschenbach due aspetti della propria personalità e della propria attività artistica: da un lato la compostezza e la ricerca dell’ordine borghese e dall’altro la tensione spirituale dell’arte e dell’amore a rompere gli schemi e a contraddire la logica del successo materiale. Questa antitesi, insolubile per Mann (come si vede anche nei suoi romanzi maggiori), è alla base della crisi e della sconfitta di Aschenbach, su cui lo scrittore proietta in parte motivi autobiografici: la morte, quasi involontariamente cercata dal protagonista nel suo rifiuto di abbandonare Venezia, può essere letta come quella “pulsione di morte” indicata da Sigmund Freud come una tensione autodistruttiva del soggetto, correlata appunto alla coazione a ripetere.
L’atmosfera di morte è infatti dominante sin dalle prime pagine del libro. Aschenbach avverte il richiamo alla partenza nei pressi di un cimitero, dopo l’apparizione di una strana figura, che è metafora del destino che l’attende. Anche la visione del vecchio imbellettato sulla nave verso Venezia che si intrattiene con ragazzi molto più giovani di lui non è solo un dettaglio comico ma preannuncia la trasformazione di Aschenbach quando pedina Tadzio per le calli veneziane. La città stessa, d’altronde, ben si presta a rappresentare l’ambiguo connubio tra Amore e Morte: seducente erede di un passato glorioso e culla di artisti, Venezia è ormai l’oscuro fantasma degli sfarzi di un tempo. La sua estetica decadente con le strette calli, i portici e le acque ristagnanti si ricollega quindi alla funzione allegorica del colera, che rappresenta la crisi etica ed esistenziale del protagonista e la sua crescente mania morbosa. L’esito della vicenda indica per Mann l’impossibilità di risolvere l’enigma che lega realtà ed esperienza artistica (o pulsione dei sensi): se la prima sembra negare e proibire la seconda, tuttavia senza di essa perde valore; al tempo stesso, l’esperienza sensuale e aritistica, se vissuta pienamente, porta inevitabilmente ad una drammatica sconfitta. Non è allora casuale che nelle ultime pagine del testo Aschenbach sia sconvolto da un incubo tormentoso, che mette in luce tutte le sue contraddizioni. Lo scrittore sogna infatti di trovarsi in un baccanale, descritto con toni cupi e immagini carnali e violente, ben lontane dalla serena bellezza classica di Tadzio.” (Matilde Quarti)
Invano Aschenbach tenta di raddrizzare questa passione, di incanalarla verso un amore platonico, apollineo. Ma la morte a Venezia incombe e s’impossessa dell’artista (ormai ridicolmente imbellettato per sembrare più giovane) attraverso un frutto erotico, quasi afrodisiaco: la fragola, che il protagonista mangia senza lavare lasciando che i microbi e la sporcizia lo condannino a morte. Infine sulla spiaggia del Lido, dove Aschenbach ammira Tadzio giocare, trionfa il Dionisiaco grazie allo sguardo complice tra i due. Apollo viene sconfitto da Dioniso ed Eros si è unito indissolubilmente a Thanatos.
Film elegantissimo, raffinato e coltissimo ma, al contrario di tutti gli altri film di Visconti, spesso volutamente noioso (almeno per me). Decisamente quello, come il racconto del resto, che tocca meno le mie corde.

J.V.

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