POPULISMO E “TRIVIALIZATION”L’ERA DELLA BANALITÀ. COSÌ LA DESTRA PUNTA A VINCERE LE ELEZIONI
POPULISMO E “TRIVIALIZATION”
L’ERA DELLA BANALITÀ. COSÌ LA DESTRA PUNTA A VINCERE LE ELEZIONI
La cosiddetta società della conoscenza convive con margini di infantilizzazione visibili in fette rilevanti di pubblico. Anche nelle più consolidate istituzioni rappresentative penetra una degenerazione populista della parola trasfigurata come fuga dalla realtà
Queste elezioni italiane, che si celebrano nel segno degli slogan semplicistici fabbricati dalla destra radicale, costituiscono una ulteriore conferma per così dire sperimentale della tendenza delle democrazie contemporanee a precipitare nella banalizzazione del discorso pubblico. La cosiddetta società della conoscenza convive con margini di infantilizzazione visibili in fette rilevanti del pubblico. I presupposti assiologici classici, circa il fondamento dialogico-discorsivo della contesa tra i partiti entro la democrazia pluralista, vacillano tutti dinanzi alle effettive pratiche politiche escogitate con successo dalle destre nei diversi regimi occidentali per la cattura del consenso effimero.
A una società complessa la politica di destra risponde con la semplificazione drastica del messaggio. Anche nelle più consolidate istituzioni rappresentative penetra una degenerazione populista della parola trasfigurata come fuga dalla complessità. La destra avanza nei consensi grazie ad una efficace macchina di devianza semantica che seduce con la provocazione simbolica e la enfatizzazione delle paure. Non è solo italiana la costruzione di programmi elettorali contraddittori e densi di impegni mirabolanti (dai blocchi navali alla flat tax fino ai numerosi bonus) che confidano nella caduta drastica della soglia minima di rispondenza tra proposta programmatica e possibilità effettiva di realizzazione della promessa.
Le politiche pubbliche, che in campagna elettorale si configurano come una successione di parole del tutto indeterminate, vengono sganciate da ogni copertura finanziaria, da qualsiasi temporalità realizzativa e le vaghe proposte si diramano come sprovviste di supporti amministrativi efficaci. Nei programmi dei populisti le previsioni di grandi uscite sono invariabilmente congiunte con la miracolosa previsione di tagli giganteschi nelle entrate fiscali. Lo scambio politico che si prospetta prevede l’elargizione di cospicue offerte di denaro per il varo di riforme prive di ogni fattibilità e la concessione del consenso da parte di un pubblico distratto che cede alle esche della semplificazione. Il voto nell’età della infantilizzazione del pubblico in fuga dalla complessità serve per ottenere una delega alla quale seguono le complete mani libere del decisore.
Un’acuta riflessione sulle contraddizioni culturali che attraversano la politica della post-modernità, e penetrano anche nelle esperienze classiche del costituzionalismo liberale, è offerta dai due studiosi canadesi Oldrich Bubak e Henry Jacek. Nel loro saggio (Trivialization and Public Opinion. Slogans, Substance, and Styles of Thought in the Age of Complexity, Palgrave Macmillan, 2019) Bubak e Jacek propongono la categoria della “trivialization” come chiave esplicativa della innegabile deriva cognitiva che caratterizza l’età del pubblico di massa. Da una democrazia all’altra, si ripetono le scene disarmanti di un pubblico che viene sedotto dalle falsità, dalle pseudo-argomentazioni, dalle proposte superficiali e dalla narrazione traballante di leader deboli e privi di un autentico spessore.
Il libro riflette su un titolo molto curioso apparso nel 2016: “Qualche ora dopo aver votato per la Brexit, gli inglesi stanno freneticamente cercando su Google ciò che significa Ue”. Il ricorso allo strumento semplice del sì o no referendario, per sciogliere enigmi politici molto rilevanti, confidava nella capacità degli elettori (abituati, però, a navigare nella rete in solitudine piuttosto che a pensare in autonomia) di discernere la questione complessa relativa alla comparazione attendibile dei vantaggi e degli svantaggi connessi all’abbandono dell’Unione europea. Grazie alle implicazioni delle nuove tecnologie non si spalanca, con l’accessibilità alle informazioni, un automatico momento di cittadinanza critica.
La connessione rapida non conduce ad una democrazia ricaricata con l’adozione di forme dirette di deliberazione. Sedotti da slogan orecchiabili, banalizzazioni estreme, comodi capri espiatori, gli inglesi hanno optato per la fuga celere dagli imperativi dei burocrati di Bruxelles.
“Solo il giorno dopo, quando si sono svegliati, gli elettori hanno trovato la loro valuta ai livelli minimi da 30 anni, i mercati allo sbando. Esposti ai numerosi commenti internazionali di segno allarmato, gli elettori hanno iniziato la loro ansiosa ricerca di risposte ai dilemmi. Il rimorso è allora iniziato. Eppure le sorprese non avrebbero dovuto esserci, a portata di clic erano infatti i dubbi e le preoccupazioni degli effetti materiali e sociali della Brexit”. La caduta nelle sabbie mobili della demagogia rende di vita alquanto breve il mito della rete come ritrovamento della bella agorà, come occasione di una pratica orizzontale di riconoscimento reciproco, come garanzia definitiva della democrazia diretta conquistata in virtù dei social network. Quando la Trivialization vince alle urne, anche un modello antico di democrazia come quello inglese precipita nelle capacità di rendimento. Attraverso la democrazia referendaria un grande Paese è costretto a convivere con i gravi scompensi commerciali successivi alla fuga precipitosa dal più grande mercato mondiale. Come conseguenza della Brexit, il Regno Unito viene aggredito con una inflazione vicina a 20 punti, con il caro bollette, con la crisi del servizio sanitario e di quelli pubblici in generale, con forme di aspra conflittualità sociale, con istanze di secessione. La complessità sociale non viene in alcun modo decostruita grazie alla apparente trasparenza assoluta della rete, che, anzi, infittisce le catene di una oscura dipendenza, e nei suoi risvolti risulta intasata dai comandi provenienti da inaccessibili vertici del potere anonimo di influenza.
Un fenomeno analogo di Trivialization si ripresenta periodicamente in Italia. Invece della riflessione attorno a temi complessi, l’elettorato in vena di gioco si appaga di soluzioni apparenti: la flat tax viene accarezzata come una condizione di ricchezza individuale e di crescita nazionale. E l’autonomia differenziata non scalfisce la mistica patriottica dei Fratelli d’Italia. La madre-soldato seduce un vasto pubblico con capacità cognitive alquanto debilitate perché anche in Italia, come nel resto d’Occidente, la retorica populista può fare leva sull’anti-intellettualismo dormiente che caratterizza (non solo) la generazione Internet. Bubak e Jacek la descrivono come una generazione che gode di inedite conquiste tecnologico-materiali, ma che precipita nel vuoto di una arretratezza culturale (essenzialismo, riduzionismo, relativismo) ovvero in una palese “sottoperformance intellettuale”.
Nella spiegazione di questo oscurantismo da tastiera, che conduce al rigetto di ogni governance intelligente dei processi sociali, vanno considerati come correlati sia il fallimento delle élite che la rilassatezza cognitiva della moltitudine. In talune democrazie, dinanzi alla irruzione del paradigma della complessità cui il pubblico non intende arrendersi, si profila persino “una notevole erosione nella fiducia nella democrazia liberale e un aumento delle preferenze per la leadership autoritaria” (ivi). La disintermediazione grazie alla rete (“gli spazi online sono invasi dalle fake news e sono abitati da tribù di persone che la pensano allo stesso modo e rifiutano i presupposti del dialogo”, ivi) porta alla decadenza dello spirito pubblico, allo scetticismo verso la politica rigettata come arena disfunzionale, alla contestazione della legittimità stessa della rappresentanza democratica.
La banalizzazione dell’agenda al centro della governance espone la moltitudine alla presa della chiacchiera del semplicismo di leader pseudcarismatici la cui unica attitudine è quella dei venditori che disprezzano ogni impegno cognitivo dell’uditorio. Il processo, ormai molto avanzato, di banalizzazione della sfera pubblica costituisce una smentita delle ipotesi post-materialistiche relative alla comparsa di una splendida società degli individui colti e riflessivi, con altre aspettative rispetto a quelle meramente economiche, in grado di impostare il discorso pubblico su basi altamente informate e di adottare le decisioni entro un nuovo modello di governance.
Senza le fitte mediazioni (politiche, sociali, culturali e informative), l’apprendimento individuale e collettivo, alla base del processo democratico non alterato dalla demagogia populista, rimane un fenomeno sfuggente. Con la disintermediazione che scandisce la post-modernità, per il singolo (irrelato navigante, ma padrone della tastiera) non si registra un avanzamento delle capacità di comprensione dei processi reali che postula sempre nuovi strumenti cognitivi, ma anche pratiche collettive per la costruzione di nuove élite politico-culturali.
In democrazie nelle quali sopravvive la forma partito e vitale rimane l’associazionismo sindacale e culturale, il dilemma di Olson (“solo quando gli individui razionali ed egocentrici sono ricompresi in un gruppo abbastanza piccolo, o in presenza di coercizione o di qualche altro dispositivo speciale in grado di far agire gli individui nel loro comune interesse, agiranno per raggiungere il loro comune interesse di gruppo”) viene in qualche misura sciolto positivamente dalle pratiche conflittuali, dalle iniziative collettive che aggregano interessi e delineano vedute più generali. La cultura superficiale del consumo domina incontrastata non solo nel mondo liquido delle merci, ma penetra anche in quello, divenuto altrettanto fluido, della politica, con moltitudini che operano scelte cruciali di cui ignorano le ricadute sociali. Se in Italia si ripropone con regolarità il pendolo tra momenti di governo dati in appalto ai cosiddetti competenti (i “tecnici”) e assalto dei leader sovranisti e populisti privi di ogni cultura istituzionale che prendono la rivincita, l’anello mancante sta proprio nei soggetti della mediazione che dovrebbero mobilitare, socializzare e affinare criticamente le dimensioni cognitive delle masse. La produzione di un’élite che addestri un esercito di capitani rimane il problema fondamentale di una democrazia capace di innovazione. Per colmare le radici della Trivialization Gramsci indicava nel sindacato, più ancora del partito, la risorsa per conservare spiccate capacità critiche nei tempi di crisi. Sorprende perciò, ha ragione in questo Cofferati, l’apoliticismo dichiarato dalle organizzazioni dei lavoratori che non si schierano in elezioni che pure rischiano di concedere alla destra la maggioranza qualificata dei seggi.
(Michele Prospero, Il Riformista, sabato 10 settembre 2022)
Ad una società complessa ciò che resta della Politica risponde con la banalizzazione. Paura, blocchi navali, flat(ulenze)-tax, promesse alla Dulcamara sono pane quotidiano di alcuni leader politici. Promesse che non possono e non verranno mantenute. Alla compostezza silente e austera del Presidente Draghi risponde in modo greve e stonato il fastidioso cicaleccio degli imbonitori di piazza. Tornano a sproloquiare persino i pessimi Santoro & C., non paghi del danno arrecato al Paese col loro sciatto populismo giustizialista. La tanto decantata tecnologia non è accompagnata da cultura e buon senso. Puoi possedere tutti gli strumenti tecnologici che vuoi ma se difetti di intelligenza, cultura e buon senso non vai da nessuna parte. Il discorso di Prospero è centrato proprio su due fallimenti: Scuola e Sindacato, baluardi della vera democrazia. Se entrano in crisi questi nessuna asettica tecnologia potrà salvarci. E Scuola e Sindacato sono in crisi da troppo tempo. Le responsabilità non sono soltanto della Destra. Provo a prenderla da lontano.
Gli anni tra il 1943 e il 1945 furono decisivi per il nostro Paese. Da quella guerra civile poteva nascere una nuova nazione forte e davvero antifascista? La risposta è no! I resistenti attivi veri e propri furono pochi. Secondo Giorgio Candeloro non più di duecentomila. Dopo il 1945 divennero milioni come per magia. Un Paese ipocrita, vinto e diviso a metà da Storia e Guerra. La nostra storia patria, fuor di retorica, non è un granché. Il libro che meglio ci rappresenta è ancora adesso Pinocchio. Non possediamo politica energetica a causa di improvvisati ecologisti tanto ignoranti quanto pericolosi. Se il mondo occidentale è al tramonto noi siamo la quintessenza di quel tramonto. Invece di coalizzarsi per affrontare guerra, crisi economica e pandemia i nostri leader si azzuffano indegnamente giocando a chi le spara più grosse. Un tecnico-politico di valore come Draghi viene sfiduciato da ometti da operetta. I poveri cristi, abbandonati dal partito che dovrebbe rappresentarli e combattere per i diritti economici e sociali, si rivolgono alla Destra o ai chiacchieroni demagoghi per paura e disperazione. Senza salari adeguati nessun diritto civile attira l’interesse di chi deve mettere assieme il pranzo con la cena. Così, ciò che resta della Sinistra, diviene il partito dei benestanti ma perde sistematicamente al sud e tra i ceti più poveri, dileggiati e calpestati perché ignoranti. Un paradosso: si tengono le masse in uno stato di ignoranza e poi le si dileggia per questo, stupendosi che si affidino ai cialtroni. Tra l’altro quella di oggi è un’ignoranza peggiore di quella passata perché mascherata da diplomi e lauree spesso farlocchi. L’unico strumento serio di crescita sociale, la Scuola, è stato sistematicamente distrutto e ridotto spesso a parcheggio laddove la sua vera funzione, quella di ascensore sociale e crescita culturale giocate sul merito, viene ignorata, per motivi diversi, a Destra e a Sinistra. Questo è il quadro. Così come Roma venne abbandonata ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, così l’Italia di oggi non riesce a divenire davvvero adulta, resta bugiarda come Pinocchio. Tutta la nostra storia nazionale oscilla tra retorica e buoni sentimenti da libro Cuore e bugie da naso lungo e gambe corte. Il Sindacato, a sua volta, per problemi endogeni ed esogeni, ha progressivamente perduto la storica funzione di baluardo di diritti e stimolo di crescita sociale. Esistono ovviamente, e per fortuna, come nella Scuola, coraggiose e brillanti eccezioni.
Concludo: il suffragio universale senza crescita culturale dei cittadini non porta alla Democrazia ma a forme palesi o mascherate di Dittatura.
J.V.