RICORDO DI MICHAIL GORBACIOVNON FU UN RIFORMATORE MA UN RIVOLUZIONARIO(ANTILENINISTA) SCONFITTO

RICORDO DI MICHAIL GORBACIOV
NON FU UN RIFORMATORE MA UN RIVOLUZIONARIO
(ANTILENINISTA) SCONFITTO
Aveva il sogno del socialismo nella libertà ed era convinto che l’Occidente lo avrebbe aiutato. L’Occidente non lo aiutò perché all’Occidente non piace il socialismo. Non voleva il socialismo cinese, voleva decostruire il potere, ma il potere era la stabilità. E lo punì


Erano in pochi a rendere omaggio all’ultimo segretario, all’idealista comunista che sognava la ricomposizione del movimento operaio dopo lo scisma del 1914. Non basta conquistare il potere per meritarsi la gloria politica. Lo stabiliva un precetto di Machiavelli. Come giudicare allora Gorbaciov? Lui il potere assoluto lo aveva. E però, proprio con le sue riforme, ha visto sgretolare un impero. Per questo appartiene a quel momento tragico che scandisce i tempi della politica, sospesa sempre tra idea e forza, ragione e natura. L’ammirazione (ipocrita) dell’Occidente lo potrà ripagare dell’odio della sua terra che gli rimprovera la caduta di una grande potenza? Gorbaciov confidava in un diverso atteggiamento dei Paesi occidentali verso le sue riforme tese al superamento della “economia di comando”. Egli operava per una riformulazione del socialismo alla luce della democrazia, dello Stato di diritto, della trasparenza, delle libertà individuali e collettive della modernità europea. La sua convinzione era che l’Occidente non sarebbe rimasto indifferente dinanzi alla penetrazione delle istituzioni democratiche anche nel cuore del vecchio impero del male. Non ha percepito che proprio un socialismo nuovo, che finalmente si presentava con la piena democrazia politica, costituiva una minaccia competitiva per l’Ovest. Per questo le destre occidentali hanno preferito con cinismo attendere il crollo della potenza nemica piuttosto che ritrovarsi dinanzi al consolidamento di un modello altro di società. In questa sua aspettativa, Gorbaciov è rimasto vittima dell’ideologia dell’interdipendenza, che annunciava la fine dell’immagine del nemico. Con una nuova visione delle relazioni internazionali, che recideva ogni nozione di inimicizia, non ha organizzato le forze necessarie a sorreggere l’impresa titanica, e questo fare leva sulle idee a discapito delle forze lo consegna forse alla storia dell’utopia. Gorbaciov è stato ammirato dai politici d’Occidente finché con le sue decisioni distruggeva l’impero. Ad ogni suo viaggio nei Paesi satelliti seguivano grandi dimostrazioni di piazza. E immediata era la caduta dei regimi di cartapesta imposti dall’Armata rossa ma privi di ogni autentica base consensuale. E quando occorreva destinare risorse e capitali per salvare l’economia sovietica alla deriva, le destre occidentali alzarono le spalle.
Perché fallisce il progetto di Gorbaciov di riformare quella che è stata definita una “superpotenza incompleta” (P. Dibb, The Soviet Union:
The Incomplete Superpower, London, 1988), competitiva sul piano militare ed evanescente sul terreno economico-culturale-egemonico? Malgrado una grande penetrazione geopolitica in ogni angolo del mondo, con la vicinanza verso i movimenti di liberazione cui fornisce armamenti e assistenza militare, il blocco sovietico ha coinvolto nel proprio seguito soprattutto Paesi di aree periferiche. Molti di questi Stati comportavano per Mosca più costi economici (forniture di materie prime e di energia con prezzi assai inferiori a quelli di mercato) che benefici tecno-cognitivi apprezzabili nella grande competizione di sistema ingaggiata con il capitalismo.
L’America costringe i russi alla contesa senza limiti di spesa per le guerre stellari e vince la competizione. L’economia di comando (eccessive spese militari, lavori monumentali, grandi opere, megaprogetti di impianti civili e scarsa attenzione ai consumi) cade come anacronistica dinanzi alle invocazioni di consumo e alle nuove tecnologie della società post-industriale. Malgrado i nodi strutturali che ne rallentavano il rendimento qualitativo, il meccanismo economico sovietico appariva però stabile agli studiosi di cose russe. I cittadini nel complesso accettavano i modici vantaggi del conformismo e del regime della sicurezza sociale (T. Crump, Brezhnev and the Decline of the Soviet Union, London, 2014).
I sovietologi registravano una sostanziale tenuta del sistema pur nella chiara tendenza che spingeva nella direzione di una congenita stagnazione. Ancora alla vigilia del crollo, l’Urss presentava evidenti limiti di crescita, segni nitidi di destabilizzazione nelle periferie, eclatanti carenze competitive nel sistema globale, ma la previsione era che «non è ora, e né lo sarà nel prossimo decennio, al centro di una vera crisi sistemica» (Crump, p. XII). Il collasso del regime sovietico è quindi giunto del tutto inatteso. La perdita di una apprezzabile capacità produttiva del meccanismo economico pare la conseguenza ravvicinata, e non voluta, delle riforme politiche e costituzionali varate da Gorbaciov nella metà degli anni Ottanta. Lo chiarisce bene A. Brown (The Myth of the Strong Leader, p. 399): «L’URSS non era in crisi nel 1985. È stata la riforma radicale che ha prodotto la crisi e non la crisi a determinare la riforma radicale». L’ascesa a 55 anni del «giovane e energico Gorbaciov» sembrava offrire una efficace risposta al declino di capacità di governo della gerontocrazia sovietica abituata all’equilibrio del potere nella lunga stagnazione dell’economia. Il nuovo segretario voluto da Andropov rompeva gli schemi del conformismo verso il capo e nel congresso rimbrottava un oratore che, secondo le consuetudini del regime, lo aveva più volte citato (M. McCauley, The Soviet Union under Gor- bachev, London, 1987, p. 35).
Gorbaciov costruisce l’immagine di sé come un «a-leader». Respinge i simboli del potere e si scaglia contro la casta burocratica considerata profondamente corrotta. Egli mobilita il civismo urbano contro l’oligarchia del potere che invade i compiti dello Stato. Ricusa «il complesso di infallibilità del partito», che è però il cuore autentico del sistema. La determinazione del segretario del Pcus nel demolire il carisma simbolico del partito, racchiuso nella formula leninista «il partito è la mente, l’onore e la coscienza della nostra epoca» (Y. Glazov, To Be or Not to Be in the Party, London, 1988), è all’origine di un cortocircuito sistemico.


Gorbaciov adotta uno stile di leadership che non pare attento alle stringenti compatibilità interne del sistema sovietico. Egli cerca di scuotere il meccanismo per rigenerarlo. Discute perciò la supremazia del partito e così tocca dei nervi scoperti che fanno saltare le coerenze del regime. Alla fine risulterà impossibile la convivenza con una logica (il pluralismo politico) estranea ad un sistema che postula come invariante il comando di partito. Il fondamento della legittimazione del regime è scolpito da Lenin. Il principio legittimante del comando poggia non sulle verifiche elettorali periodiche, ma sulla originaria vittoria riportata dal partito in un processo rivoluzionario e confermata nel trionfo nella guerra civile celebrato come prova del radicamento profondo dei soviet.
Per chiarire la natura del sistema Lenin dichiara: «sí, la dittatura di un solo partito! Esiste e non ci discostiamo da essa perché il partito in una battaglia lunga ha vinto e ha conquistato la funzione di avanguardia del proletariato». Manca, nello schema leninista del politico, la possibilità che, dopo la conquista del potere, si possa cedere lo scettro. Il fatto etico-politico della rivoluzione esclude un metodo di competizione aperta alla reversibilità delle posizioni istituzionali (non è ipotizzabile «una tattica che contempli l’eventualità di perdere il potere sovietico»).
Proiettandosi ben oltre i precetti di Lenin, Gorbaciov invoca un coerente pluralismo socialista. Egli quindi non disegna un modello di regime come quello che oggi si presenta in Cina. Cioè non resta imbrigliato nelle forme di un “leninismo di mercato” che recupera il fondamento originario della Nep: economia di mercato e saldo controllo politico del partito sovrano unto dalla Rivoluzione. Con la sfida rivolta alla sovranità del partito, Gorbaciov mina il vero fondamento dell’obbedienza al regime e demolisce negli aspetti simbolici e gestionali un sistema che da lui viene delegittimato proprio nel suo principio di comando.


Con 1800 funzionari presenti nella sede di Mosca, e centinaia di migliaia di quadri professionali dispersi nelle periferie, il Pcus si rivela il nerbo di un sistema e il garante della sua riproduzione regolare. La distruzione della funzione dirigente del partito produce il vuoto politico improvviso e un sistema acefalo disarma ogni velleità di una efficace riforma economica. Gli effetti delle riforme di Gorbaciov contengono, secondo gli osservatori, il palpabile rischio di «perdere la cooperazione e la fiducia del partito» sino a rendere «imprevedibile il corso delle radicali riforme politiche» (R. J. Hill, State and ideology, p. 58).
Le misure degli anni ’80 immettono un forte elemento di incertezza negli ingranaggi del potere che si è costituito come il governo del partito sovrano. I rischi di una riforma radicale progettata dall’alto, che antepone la democrazia alla questione economica e interviene per accompagnare un passaggio pacifico da un sistema a un altro, superano i benefici incamerabili (Brown, The Myth of the Strong Leader, cit., p. 300). Il crollo del rendimento economico del sistema, le disfunzioni riconducibili al tramonto dei simboli del potere che lo rendevano accettabile, accentuano il cammino verso una sorta di estinzione caotica del potere. L’impero d’un tratto si ritrova senza più centro di comando e una direzione vincolante. I vecchi signori dell’apparato entrano ben presto in lotta per accaparrarsi le risorse naturali ingenti e appropriarsi di una macchina militare-industriale in dismissione. Per certi versi, le riforme che avrebbero dovuto immettere efficienza e calcolo economico favoriscono la rapida ripresa di un mercato illegale e del «racket burocratico». Si percepiscono le manifestazioni di una seconda economia caratterizzata da una profonda informalità e disponibile alle mire del crimine organizzato (tendenze esplose con la successiva presidenza di Eltsin). I capi locali acquisiscono un potere autonomo di contrattazione e, nella disgregazione completa del sistema politico, giocano una corsa privata verso la sopravvivenza e l’accaparramento delle risorse economiche.
La difficoltà delle transizioni post-sovietiche con mafie, rigurgiti nazionalisti e tentazioni belliciste verso le periferie sembrano dire che oltre all’alternativa tra totalitarismo e democrazia ne operava un’altra non meno insidiosa, quella tra governo di partito e caos illiberale. Gorbaciov non è stato un riformatore del sistema, ma un rivoluzionario sconfitto nella sua idea di un nuovo socialismo come altro sistema rispetto a quello tratteggiato da Lenin.

Michele Prospero, Il Riformista, mercoledì 7 settembre 2022

epa06147151 Russian President Vladimir Putin attends a meeting on the development of transport infrastructure of Northeastern Russia in the town of Pionersky in the Sambia peninsula on the southeastern shore of the Baltic Sea in Kaliningrad region, Russia, 16 August 2017. EPA/ALEXEI DRUZHININ / SPUTNIK / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT


Articolo eccellente del Professor Michele Prospero. Tocca tutti i nodi drammatici e teorico-pratici della sofferta storia russo-sovietica. Gorbaciov commette errori (e chi non li avrebbe commessi in quel ruolo e con quel peso sulle spalle?) ma il suo sforzo è stato encomiabile. Le Destre occidentali lo hanno abbandonato e la vittoria “senza prigionieri” del Capitalismo non ha consentito l’attuazione del “modello Gorbaciov”.
Questo è quanto. La tragedia di oggi è figlia anche della mancanza di generosità occidentale.

J.V.

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