Riflessioni sul calcio
Di solito alle feste ci si annoia terribilmente. Matrimoni, comunioni, compleanni e simili sono banchi di prova difficili da superare. Donne e bambini, per motivi diversi, si divertono, ma gli uomini decisamente no. Poi all’improvviso un cinquantenne meno ipocrita di altri lancia il segnale, l’eribanno, il grido di battaglia, l’urlo di liberazione: calcio! Si crea immediatamente un consiglio di guerra, uno stato maggiore, un comitato di liberazione. Gli uomini, fino a quel momento spenti e amorfi, vittime delle chiacchere sulla moda o sulla scuola dei figli, riprendono coraggio, si animano e mossi dal wille atavico e guerriero impugnano le armi e, finalmente, vanno all’assalto in un’ orgia di citazioni calcistiche su Genoa e Sampdoria, Inter e Milan, il grande Torino. Alcuni bardi recitano a memoria formazioni di squadre perdute ormai nella notte dei tempi. Un’aura religiosa circonda i nuovi guerrieri-sacerdoti e nessun bambino rompiscatole ha il diritto di disturbare la magia. Le donne vengono allontanate in modo più o meno brusco e ciò che era latente nell’aria viene finalmente allo scoperto: il calcio! I più intrepidi si avventurano a raccontare mitiche imprese personali sui campi in terra battuta, carriere folgoranti stroncate da infortuni malvagi… sennò ero da serie A o forse, anzi probabilmente, sicuramente da nazionale. Altri si lanciano in disquisizioni tecniche su complicati 4-4-2, 3-4-3, 9-1-1, 10-0-0 e chi più ne ha più ne metta. Poi il silenzio grave. Si alza il vate e pronunzia la parola fatidica, magica, solenne: metodo! I più giovani si guardano inebetiti ma affascinati, non capiscono ma intuiscono che qualcosa di terribile e misterico sta per avvenire. Non fanno in tempo a realizzare, che le loro ingenue orecchie ascoltano un’altra parola metafisica: Vuemme! Nessuno degli anziani sa spiegare loro di cosa si tratti, ma li guarda con compiaciuta altezzosità: cosa vuoi capire tu, pivello, io sì che sono depositario del verbo. Dopo ore di appassionate discussioni accompagnate da abbondanti libagioni i sacerdoti vengono trascinati via a forza da familiari comprensivi. Alcuni portano i segni della battaglia: hanno perso la voce, sono paonazzi, ma si sono coperti di gloria, hanno combattuto battaglie asperrime delle quali si conserverà il ricordo a perenne memoria. Questo è il calcio o almeno … lo era. Era il calcio del freddo delle domeniche invernali, quando le squadre giocavano tutte allo stesso orario; era il calcio del caffè corretto, del pacchetto di sigarette consumato in tre ore. Gli amici e i nemici veri, autentici, forti e coraggiosi, capaci di inventarsi qualsiasi menzogna pur di difendere la propria squadra. Non esistevano i commentatori di calcio, gli opinionisti, Vialli, Mauro et similia. Il non detto di allora diceva molte cose; la pornografia calcistica di oggi non dice nulla. Allora si assisteva a qualcosa che assomigliava ad un bel film di Truffaut, oggi bisogna fare i conti col porno che, come si sa, col sesso sano acchiappa poco. Non esistevano le maledette moviole ed era implicito che la squadra forte venisse aiutata in modo spudorato dall’arbitro. Era giusto così. Allora era tutto chiaro: sei un insicuro meridionale? Stai con Juve, Inter o Milan. Sei meridionale e tosto? Stai con la Sampdoria. Sei genovese e masochista? Non devo neanche dirti con chi stai. Laudatio temporibus actis: si stava meglio quando si stava peggio. Immaginiamo ciò che è stato: Londra, stadio dell’Arsenal, anni sessanta. Un bambino accompagnato dal padre trova soluzione alla sua tristezza esistenziale aggrappato agli adulti sulle tribune. Prima della partita ha divorato pesce fritto, durante la partita ha gridato e sofferto, dopo la partita ha commentato con gli altri le azioni dei suoi eroi. Il bambino oggi è un affermato scrittore inglese. Si chiama Nick Hornby. Leggetevi il suo “Febbre a 90” e capirete quante cretinate scrivono alcuni sociologi sul calcio. C’è più verità nel romanzo di Hornby che in tonnellate di saggi seriosi sul calcio. Il calcio è un rito misterioso, ciò che unisce il diviso, alla cui memoria ci si aggrappa nei momenti difficili. Perché si diventa genoani piuttosto che sampdoriani? Ma a chi importa? Ciò che conta è diventare tifosi, avere la febbre, sentire battere forte il cuore, amare Maradona e Van Basten, Trevor Francis o Aguilera. Conoscere a memoria tutte le formazioni degli squadroni, inventarsi fantastici calcio-mercato per la propria squadra. Il calcio è come la musica di Puccini, si ama e basta, senza tante storie. Il calcio è la capacità di dare un senso attraverso il gioco che è serissimo. Nulla è più serio di una partita di calcio. Chiudete gli occhi e immaginate il Maracanà con 120.000 spettatori. Siamo nel 1950. Il Brasile conduce 1-0 sull’Uruguay. Alla fine l’Uruguay vincerà 2-1. Dramma nazionale. Pianti, suicidi, scene di panico. Berna 1954. Finale del mondiale. La grande Ungheria conduce 2-0 sulla Germania Ovest. Nel girone eliminatorio l’Ungheria ha già vinto 8-3. Poi avviene l’incredibile. Alla fine della partita la Germania vince 3-2. Tutto questo potete vederlo in un film di Fassbinder, “Veronica Voss”. I tedeschi, per ammissione tardiva del capitano Fritz Walter, erano drogati. Una regola dei mondiali è che non vincono quasi mai le squadre migliori. Non ha importanza. Noi sappiamo chi sono stati i migliori e che non abbiano vinto non è determinante. Nessuno un tempo era tanto presuntuoso da pensare che la giustizia dovesse trionfare nella vita e tanto meno sui campi di calcio. Ma nel nostro cuore e nella nostra mente noi sapevamo, abbiamo sempre saputo chi era più forte: Olanda e Ungheria non hanno vinto ma erano le più grandi del loro tempo, così come l’Austria degli anni trenta. Ecco vorrei finire con l’Austria e il suo capitano: Matthias Sindelar, il campione che non si piegò a Hitler. Lunedì 11 dicembre 2000 venne assegnato a Edson Arantes do Nascimiento detto Pelé e a Diego Armando Maradona il premio “Calciatore del Secolo”. La salomonica e ipocrita decisione giunse al termine di una lunga discussione: i critici volevano Pelè, il pubblico, via internet, Maradona. Di Matthias Sindelar nessuno parlò. La sua candidatura avrebbe portato a considerare altri valori, ben più consistenti per la vita degli uomini. Matthias era il capitano del Wunderteam, la più forte squadra degli anni trenta. L’Austria, come al solito, essendo la più forte non vinse il mondiale. San Siro, 3 giugno 1934. Il codardo e venduto arbitro svedese Eklind permette qualsiasi cosa ai camerati italiani . Il “boia” Luisito Monti picchia e prende a sputi Sindelar. Si tratta di una vera e propria caccia all’uomo. Sindelar verrà ricoverato in ospedale. L’Italia vincerà il mondiale con un gol di Guaita in palese fuorigioco dopo la respinta di Platzer su un tiro di Schiavio. Ricoverato a Milano Sindelar, detto “I piedi di Mozart” o “Cartavelina” conosce Camilla, insegnante di origine ebraica e sua futura compagna. Alto, elegante, una candela che illuminava il gioco, unico calciatore a cui i maestri inglesi avessero offerto un posto in squadra come scrive nel suo bel libro “La partita dell’addio” Nello Governato. Vienna, il giorno dell’Anschluss, 12 marzo 1938. Piove, cade neve mista a ghiaccio. Dalla finestra di casa Matthias vede sfilare le truppe naziste. Il suo mondo sta per scomparire, tutto è a rischio. Sindelar pensa se potrà esserci un futuro mentre ascolta la 7^ sinfonia di Schubert. Decide: non farà ciò che vorrebbe Goebbels, cioè giocare per la nuova nazionale tedesca. Decide di essere campione non solo in campo, decide di far capire a tutti che lui odia i nazisti e che non giocherà per la squadra di Hitler. 23 gennaio 1939. I corpi senza vita di Matthias Sindelar e Camilla Castagnola vengono trovati distesi sul letto dalla polizia tedesca. Nessuno seppe mai perché fu la Gestapo a trovare i corpi. Quando penso al calcio e alla mia vita che, come il calcio, si avvia al tramonto, comprendo bene che si tratta di un gioco, ma di un gioco che – come diceva Huizing
a – ha le caratteristiche di una tremenda serietà. Il mio calcio è in bianco e nero, senza stadi blindati, senza Sky e gli opinionisti. Il mio calcio non esiste più e non tornerà più. Resta la nostalgia di stadi con le persone assiepate ai bordi, dell’odore e del sapore dello sciroppo di rose caldo, dell’alcol canforato per scaldare i muscoli, di 90° minuto, di Sandro Ciotti e della sua sintassi confortante. In questi momenti di cupio dissolvi occorre aggrapparsi alle cose certe: la filosofia di Platone, la musica di Puccini, la storia di Marc Bloch, l’Odissea con Irene Papas, I Promessi Sposi di Sandro Bolchi, Le inchieste del commissario Maigret con Gino Cervi e …il calcio degli uomini come Gigi Riva e Giacinto Facchetti. Resta il ricordo di un ragazzino di 14 anni che si sveglia una notte e quasi per caso vede le immagini in bianco e nero di un elegante calciatore in maglia bianca e calzoncini neri con un braccio appeso al collo, di un grappolo di uomini in maglia azzurra che si abbracciano e piangono. Piangono come bambini. Hanno appena scritto una pagina di storia. Qualche giorno dopo pagheranno quello sforzo tremendo soccombendo nel secondo tempo della finale mondiale contro il Brasile più forte di tutti i tempi. Ma siccome abbiamo già detto che i migliori non vincono il mondiale mi piace pensare che forse eravamo più forti noi. E poi è più affascinante il ricordo di quella battaglia con i bianchi tedeschi piuttosto che vincere un banale mondiale in più. Alla memoria del maestro Gianni Brera, tifoso del Genoa.
Nicolò Scialfa, sampdoriano.
J.V.