Rivoluzione francese. Prima parte
Il significato della rivoluzione francese e il suo rapporto con l’Ancien régime
Quando si parla di rivoluzione francese il pensiero corre immediatamente all’ancien régime inteso come esatto contrario, come passato nefasto contro un radioso avvenire. La rivoluzione assume un significato positivo, il bene contro il male, linea di divisione morale e politica tra due epoche. Rivoluzione è termine astronomico e significa ritorno al punto di partenza; quando nel seicento Hobbes parla del ritorno degli Stuart sul trono inglese usa il termine “rivoluzione”, quindi nel passato questa parola ha un significato opposto a quello che gli diamo noi e cioè quello di sovversione totale dell’esistente, di capovolgimento. Il significato contemporaneo é stato coniato con la rivoluzione francese: rovesciamento dell’ancien régime, libertà e uguaglianza contro servitù e differenze di ceto. Possiamo dire che con la rivoluzione nasce la Francia contemporanea, con essa si passa dal mondo del privilegio a quello dell’uguaglianza giuridica. L’ancien régime è quindi ad un tempo stato dispotico e società di privilegi: l’assolutismo regale viene avvertito come dispotico, ma in realtà esso è il risultato di un lungo processo iniziato nel Medioevo. Nel corso dei secoli i re di Francia avevano unito i territori conquistati dai loro avi con gli strumenti dell’imposta permanente e della guerra con lo “straniero”; per riuscire in questo disegno dovettero sottomettere i poteri locali dei grandi signori, combattere tutte le forze centrifughe e costruire una potente burocrazia di servitori del potere centrale. Luigi XIV, il Gran Re, è il simbolo del trionfo regio: fa costruire Versailles nel luogo meno ricco di acque e vegetazione tra quelli che circondano la capitale proprio perché, nel suo disegno, proprio nel sito più triste per unica volontà del sovrano deve sorgere la casa più bella del mondo; sarà sufficiente il suo volere perché uomini e cose si pieghino di fronte al potere del re. Tutto deve essere in linea col trionfo del re: la musica di Lully, il teatro di Moliére, i giochi d’acqua del parco, l’architettura stessa della splendida dimora. La nobiltà viene addomesticata e sottomessa mediante il rigido cerimoniale di corte; il nobile che venga allontanato dalla luce del sovrano è considerato in disgrazia e sfortunato: Luigi XIV aveva fatto tesoro del triste ricordo infantile della Fronda quando, in una notte terribile, era stato costretto a fuggire da Parigi insieme alla madre Anna e al cardinale Mazzarino, chiuso in una carrozza. La storia dell’apogeo e del tramonto dell’antico regime si potrebbe racchiudere simbolicamente tra due fughe di re dalla capitale: la carrozza che porta fuori da Parigi il giovane Luigi osteggiato dalla Fronda nobiliare e l’enorme berlina affittata da Fersen per portare all’estero Luigi XVI, Maria Antonietta e l’intera famiglia reale. La prima fuga si concluderà col trionfo del Re Sole, la seconda con l’arresto e l’esecuzione del cittadino Luigi Capeto in una livida mattina di gennaio del 1793. Si tratta di comprendere cosa è avvenuto in questo intervallo di tempo, spiegare come si è passati dal trionfo della monarchia all’ingiuria e all’esecuzione capitale dei sovrani. Intanto si deve osservare che la vittoria monarchica del ‘600 è un compromesso: la monarchia francese non è davvero assoluta (sarà molto più assoluto lo stato napoleonico), esa è legata alle leggi fondamentali del regno, le quali non possono essere mutate ad arbitrio del sovrano; inoltre i capetingi hanno costruito la loro fortuna a prezzo di patteggiamenti continui e molteplici con la vecchia società e non sulle sue rovine, per cui i vecchi ceti mantengono legami fortissimi con i sovrani. i Luigi di Francia sono signori dei signori e, nello stesso tempo i padroni dei nuovi uffici di Versailles. Procacciarsi il denaro sufficiente per muovere la secolare guerra agli Asburgo ha costretto i reali francesi a trasformare in denaro i privilegi e le libertà della società di antico regime: il privilegio è il diritto inviolabile del gruppo in rapporto al potere centrale: esenzione fiscale di una comunità, immunità di una città. Le origini del privilegio sono consacrate dalla tradizione e il re, che non può e non deve andare contro la tradizione, mercanteggia invece di distruggere; addirittura vende anche una parte del potere pubblico ai privati sotto forma di “uffici”, a partire dal tempo del grande Enrico IV e, soprattutto durante la spaventosa Guerra dei trent’anni. Il re riceve denaro ma crea così una casta di uomini che possiedono pienamente, in modo indipendente, il loro ufficio; non dobbiamo stupirci della Fronda parlamentare del 1648 attuata proprio dai più importanti tra questi uomini. Luigi XIV, costruendo Versailles controlla la nobiltà, ma non può neppure lui andare contro la parola dei suoi predecessori e quindi, nella sostanza non può distruggere il privilegio nobiliare. La rivoluzione scoppia a causa di una rivolta nobiliare e cosa vogliono i signori? semplicemente non pagare le tasse, cioé il mantenimento del loro privilegio! Ecco perché la monarchia assoluta altro non è se non un compromesso tra la formazione di uno stato moderno e la sussistenza di una società feudale: l’ossimoro non può durare a lungo. Altra contraddizione della monarchia è la sua cronica incapacità di saldare gli interessi delle classi dirigenti del regno; al contrario essa mantiene la divisione in ordini del corpus sociale mentre unifica il mercato e razionalizza gli scambi. La nobiltà francese intanto si irrigidisce sul privilegio proprio perché perde le sue funzioni: più si sale nella scala sociale grazie al denaro e più la nobiltà si arrocca sul sangue. Come dice Furet, l’antico regime è troppo arcaico per ciò che ha di moderno nel suo corpo e troppo moderno per ciò che ha in sè di arcaico. Dopo la morte del Gran Re stato e società diventano incompatibili; i problemi strutturali della società francese rendono ingovernabile il paese sul piano economico e fiscale al di là dei demeriti dei Reggenti o degli ultimi due Luigi; Luigi XIV era appena spirato che il Reggente Filippo d’Orléans, suo nipote, offrì ai Parlamenti l’occasione di vendicarsi degli affronti subiti: l’autorità venne messa in discussione e non bastò l’intelligenza di Filippo a bloccare la cupidigia dell’alto clero e della nobiltà desiderosa di rivincita contro l’assolutismo e completamente chiusa nella difesa del proprio privilegio di sangue. Lo stesso Reggente era obbligato a vescovi e grandi nobili in quanto questi avevano chiuso un occhio sulla cassazione del testamento del Gran Re operata dal nipote. Con Luigi XV, tutelato prima da Filippo e poi dal Fleury, il governo era appannaggio delle cricche di corte e, malgrado la nazione si arricchisse, aumentavano le sperequazioni sociali e il malcontento. Nel 1770 si celebra il matrimonio tra il buon nipote di Luigi XV, un giovane dallo sguardo bovino che si trova delfino all’improvviso per la morte del fratello, e l’arciduchessa austriaca Maria Antonietta, cresciuta allo Schonbrunn e appena quindicenne; quattro anni dopo questo giovane buono e assai versato per la caccia e la bambina austriaca, assai intelligente ma incolta e viziata, divengono reali di Francia: il peso tremendo della storia non poteva gravare su spalle meno forti. Luigi XVI si appoggia alla moglie e al vecchio cortigiano Maurepas; entrambi gli sono affezionati ma non vanno d’accordo tra loro e il re cede ora all’uno ora all’altro scontendandoli entrambi e inaugurando così una lunga carriera di incertezze.
Il Settecento è un secolo di relativa prosperità: la Francia passa da 20 milioni di abitanti a 27 milioni; malgrado non si registri lo sviluppo industriale dell’Inghilterra, il paese si modernizza. Il grande operatore del mutamento è lo Stato monarchico, laboratorio permanente della riforma illuminata; è che esso resta legato al compromesso sociale elaborato nel ‘600 e al paradosso che lo vede tanto più rispettoso della società della disuguaglianza e del privilegio quanto più la erode con i suoi atti di governo. Denaro e merito ormai si urtano alla nascita: la vecchia nobiltà si vede scalzata dalla nuova ed è risentita, la nuova nobiltà, non appena diventa tale, vuole chiudere la porta della promozione sociale; una società in espansione come quella francese del ‘700 aveva bisogno di meccanismi meno selettivi, più larghi e diffusi. I capetingi si alienano la “loro” nobiltà senza riuscire a costruire una effettiva classe dirigente. Per ironia della sorte la nobiltà francese non è mai stata brillante e splendida come nel secolo dei lumi; il suo status e il modello divita verranno imitati nei secoli a venire dalle future classi dirigenti, ma essa ha perduto la sua ragion d’essere e non riesce a darsi un indirizzo politico preciso come classe di governo. La scomparsa del Gran Re lascia sul terreno almeno tre tipi di nobiltà che hanno tre atteggiamenti diversi di fronte alla modernizzazione dello stato: nobiltà alla polacca ostile quindi allo stato, nostalgica e tendente ad idealizzare un passato che ormai non può comunque tornare; nobiltà alla prussiana che tenta di sfruttare a proprio vantaggio la modernizzazione dello stato, di impadronirsi delle cariche militari e di trovare la propria ragion d’essere nel servizio; nobiltà all’inglese che rivendica una monarchia parlamentare ed è quindi fondamentalmente antiassolutista. Delle tre soluzioni possibili, non se ne realizza nessuna dal momento che la prima era improponibile, la seconda si sarebbe dimostrata troppo oligarchica contrastando così gli interessi dei gruppi in espansione e la terza non verrà seriamente presa in considerazione almeno sino alla vigilia rivoluzionaria. Dal canto suo anche la nobiltà sbagliò a non volersi trasformare da casta privilegiata in classe di governo, una sorta di monarchia dei proprietari. Anche di fronte al problema fiscale la nobiltà non sa fare altro che arroccarsi in una sterile opposizione a qualsiasi cambiamento; a sua volta la monarchia, non avendo saputo integrare stato e società dirigente, oscilla tra dispotismo e resa totale alle forze emergenti del paese. Convinto della probità del fisiocratico Turgot, Luigi XVI lo chiama alle finanze ma le riforme non decollano per l’ostilità degli ordini privilegiati; sconsolato il re è costretto a licenziare l’austero ministro e per tutta la vita, che sarà un lungo martirio, come in questo caso, egli intravvederà il bene e lo vorrà sinceramente ma non avrà la forza per realizzarlo. Cedendo ancora una volta all’opinione pubblica e alla necessità delle riforme, nel 1777 chiama alle finanze Necker, banchiere ginevrino arricchitosi con speculazioni finanziarie, uomo integro ma vanitoso e troppo desideroso di lusinghe; comunque Necker ristabilisce l’ordine finanziario e trova i mezzi per sostenere la guerra americana contro l’odiata Inghilterra ma nel momento in cui vuole dare avvio alle riforme trova nei ceti privilegiati un osso non meno duro di quello trovato da Turgot: la corte, il clero e i Parlamenti lo costringono alle dimissioni. Il re vedeva crescere gli abusi e ne soffriva, i nobili migliori applaudivano alla rivoluzione americana e si piccavano di ssere illuministi ma non volevano che venisse toccato il loro privilegio, parlavano del bene pubblico ma di fatto non lo volevano. Un intrigo porta alle finanze il signore di Calonne, arguto, brillante e soprattutto voglioso di non scontentare nessuno; ma anche per lui giunge il momento della verità e a questo punto non stupisce che il meccanismo rivoluzionario venga messo in moto dalla stessa nobiltà, quando il 22 febbraio dell’87 convoca un’assemblea di notabili per chiedergli aiuti finanziari e così, senza rendersene conto, dà il via alla contestazione nobiliare; una falla si è aperta nel sistema secolare dell’ancien régime e le masse popolari vi si gettano dentro ingigantendo le dimensioni della questione. Come si era arrivati alla crisi fiscale dello stato è facile capirlo dal momento che i nobili, grazie al privilegio, scaricavano tutti gli oneri fiscali sul terzo stato e su milioni di contadini in genere; nessun controllore generale delle finanze sotto Luigi XV e Luigi XVI era riuscito, o aveva voluto, affrontare il problema. Lo stesso Calonne, controllore generale dal 1783, aveva rinviato la questione sino a quando, e siamo nel 1787, essa diviene improrogabile: a causa della crisi economica e delle spese affrontate dal paese per sostenere la guerra americana, egli è costretto a chiedere il denaro a chi lo possiede. L’assemblea dei notabili è formata da nobili e vescovi chiamati ad assolvere un compito troppo grande. Senza rendersene conto Calonne ha innescato un meccanismo di consultazione che mette a nudo la debolezza del sistema e della monarchia in particolare. Ai notabili viene chiesto di votare la soppressione dei loro guadagni; francamente è troppo! Un rigurgito di antiassolutismo colpisce la città: il controllore generale diviene il simbolo dell’assolutismo e dello spreco finanziario; i 113 milioni di livres di disavanzo vengono rimproverati alla sua gestione. Calonne ha il torto di rigettare sui suoi predecessori, e in particolare su Necker, la responsabilità delle condizioni del Tesoro; Necker reagisce e viene esiliato, l’opposizione diviene ancora più feroce ma Calonne non demorde e ottiene la destituzione del guardasigilli Miroménil, suo nemico e cospiratore. Il successo del ministro dura soltanto due giorni perché il re, che lo ha in simpatia, gli ha promesso più di quanto possa mantenere: in aprile il debole Luigi XVI, spinto dai nobili e dalla piazza, malconsigliato dalla povera e sciagurata Maria Antonietta, sostituisce Calonne con uno dei più accesi notabili, appartenente alla cerchia della regina, Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa. Ormai è provato dagli storici che le spese della corte non furono la causa precipua della crisi fiscale, ma certo le pazze spese di Toinette e della sua cricca divoratrice e dissipatrice non facevano buona pubblicità alla monarchia: Loménie de Brienne almeno non avrebbe più annoiato la regina cercando di mettere freno alla spesa, anzi! anch’egli guadagnava grazie ai favori della sciagurata che, non passerà molto tempo, pagherà per tutti di fronte al paese; la polemica rivoluzionaria vedrà in lei un facile ed enorme bersaglio e sulle sue sole e fragili spalle graverà, almeno sino al 1791, la critica malevola degli oppositori di ogni risma. Comunque anche per Loménie il problema era il solito: reperire il denaro. Ovviamente non trova rimedi diversi da quelli dei suoi predecessori e così riconvoca i notabili, i quali non fanno altro che appellarsi a ben altra e più importante assemblea: gli Stati Generali: nel corso di una seduta, nella quale i consiglieri parlamentari denunciavano polemicamente gli sprechi della corte, si chiesero degli états (prospetti) delle spese e uno dei presenti, giocando sulla parola, gridò: <<Ce ne sont pas des états, mais des Etats-Généraux qu’il nous faut!>> suscitando lo stupore dei presenti; da lì a poco gli Stati Generali vennero invocati a gran voce.
La convocazione degli Stati nasce dal progetto nobiliare di riprendere tutto il controllo dello stato francese in funzione antiassolutista; tutto il secolo confluiva verso l’antiassolutismo: borghesi, aristocratici, intellettuali, riformisti e conservatori si schierano contro Luigi XVI che non ha saputo governare. Certo è facile attribuire tutte le responsabilità ad un uomo che non sa difendersi e che per sua disgrazia e pure malconsigliato. Come tutti i deboli Luigi assume atteggiamenti tirannici nei momenti critici, salvo poi effettuare clamorosi dietrofront quando la situazione gli sfugge di mano; il 20 settembre 1787 ha luogo una seduta reale che ha il sapore di un “letto di giustizia” non dichiarato, nella quale il re presenta un editto che riguarda la contrazione del prestito graduale di 440 milioni che la nobiltà ha promesso al Brienne e promette la convocazione degli Stati Generali entro cinque anni; i volti sono cupi e regna il silenzio, quando il duca d’Orléans si alza e con voce rotta dall’emozione chiede al re se la seduta è una libera consultazione o un letto di giustizia. Il re risponde che si tratta di una seduta reale dopodiché il duca viene esiliato a Villers-Cotterets e gli Stati Generali sono rimandati a cinque anni dopo. Il duca, incapace di sopportare una pena così lieve, privo della dignità che un grande nobile dovrebbe avere in simili momenti, chiede persino l’aiuto della regina, sua nemica personale, aiuto che venne accordato. Luigi non è sovrano peggiore di altri, semplicemente non è il più adatto ad affrontare una situazione così drammatica; in un altro momento storico avrebbe governato senza infamia e senza lode e nessuno gli avrebbe rimproverato le partite di caccia o il tempo passato a divorare polli allo spiedo e a tracannare ottimo Borgogna, ma in quel momento occorreva un sovrano dal carattere fermo e dal temperamento forte come quelli di un Enrico IV o di un Luigi XIV. Per colmo di sventura la sua bella e inappagata moglie si rese conto del disastro e cercò di fronteggiarlo quando ormai era troppo tardi, contribuendo con la sua tragica sorte e il suo fiero comportamento a rendere ancora più drammatica la fine della monarchia. Nel 1788 l’opinione pubblica deve scegliere tra una monarchia dal prestigio offuscato e la grande parola degli Stati generali: non avrà esitazioni! La provincia urbana affianca il Parlamento di Parigi nella lotta per le libertà, parola della quale ancora nessuno valuta appieno la tremenda carica esplosiva. A Grenoble il Parlamento ribelle viene cacciato in esilio dal comandante della provincia, duca di Clermont-Tonnerre: il 7 giugno 1788, giorno della partenza dei parlamentari, la popolazione lapida i soldati a colpi di tegole scagliate dai tetti; il duca non può che arrendersi alla inaudita violenza dei rivoltosi e reinsedia il Parlamento al suo posto.
Gli avvocati Mounier e Barnave capeggiano un neonato Comitato centrale, vera e propria istituzione rivoluzionaria, che alla fine del mese di luglio convoca gli stati provinciali. In un grande castello si riuniscono i tre ordini e le ambizioni della borghesia si intuiscono facilmente quando il terzo stato chiede che i tre ordini della provincia concedano le imposte solo quando i loro rappresentanti lo avranno stabilito negli Stati generali del regno. Il re segue la corrente, cosa che farà per tutto il corso degli eventi rivoluzionari, e l’8 agosto convoca gli Stati generali per il 1° maggio 1789; il 24 Brienne viene destituito e ritorna l’uomo della provvidenza: Necker.
Continua.
J.V.