Sartre
Sartre
”Sartre detestava le routine e le gerarchie, le carriere, i focolari, i diritti e i doveri, tutto il serio della vita. Non si adattava all’idea di fare un mestiere, di avere dei colleghi, dei superiori, delle regole da osservare e da imporre; non sarebbe mai diventato un padre di famiglia e nemmeno un uomo sposato.”
(Simone de Beauvoir)
Parigi 1905, borghesia intellettuale. Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre perde il padre, un militare, a soli quindici mesi. Sua madre, Anne-Marie Schweitzer è cugina di Albert Schweitzer, famoso missionario protestante. Allevato dal nonno Charles Schweitzer, letterato ateo di tendenze politiche radicali. Bambino antitetico ad Emilio, cresce in mezzo ai libri. I libri sono la sua realtà. “Poulou“ vive un’infanzia felice, sempre al centro delle attenzioni familiari, coccolato e gratificato. Ne viene fuori un narcisista egocentrico con tratti asociali. Oggi diremmo che è affetto da sindrome di Asperger . Poi la madre si risposa con un ingegnere della Marina, Joseph Mancy, e iniziano i guai. Poulou odia il patrigno e lo odierà sempre. Trasferimento a La Rochelle. Il ragazzino strabico, piccolo, assai brutto, cieco da un occhio, viene assai maltrattato dai coetanei (oggi si direbbe bullizzato). Per sua fortuna dopo tre anni di tormenti viene riportato a Parigi, al liceo Henri IV, dove aveva studiato prima del trasferimento a La Rochelle. Ritrova Paul Nizan, amico per la vita. Poi filosofia alla École Normale Supérieure, insegnamento nei licei di Le Havre, di Laon e infine di Parigi. Dal ‘29 Simone De Beauvoir, detta il Castoro, diviene la sua inseparabile compagna di vita e pettegola impenitente nel raccontare al mondo ogni dettaglio. Due sopravvalutati che messi assieme non valgono un decimo di Albert Camus. Poi Raymond Aron lo introduce alla fenomenologia e Poulou è assai contento. Finalmente può superare l’opposizione tra idealismo e realismo e affermare la sovranità della coscienza. Va in Germania a studiare Husserl e Heidegger e ne trae un certo giovamento. Comprende che la coscienza non esiste al di fuori degli atti intenzionali che concretamente compie, è un “esplodere verso”, perde l’opacità e si fa trasparente. Insomma l’odiato spiritualismo bergsoniano è superato. Proust è morto. Viva la fenomenologia! Scrive belle cose sulla trascendenza dell’ego e riflette assai su Cartesio. L’Io, il “me” personale è un prodotto della riflessione, un oggetto di coscienza per cui non esiste l’interiorità rifugio agostiniana-cartesiana, essenza della filosofia francese.
Poi legge Jaspers e il bravo medico tedesco lo allontana ancora di più da quanto studiato in passato e, per fortuna, dal Positivismo. L’immaginazione è coscienza irrealizzata che intenziona il suo oggetto come assente. Per immaginare la persona amata, lontana e di cui ho nostalgia, devo negare il mondo nel quale lei è assente. Immaginazione come possibilità di nientificare il mondo nell’atto stesso in cui essa lo pone come totalità. Ecco, finalmente, la libertà della coscienza. Essa non esiste “in mezzo al mondo” come cosa ma come possibilità di immaginare, di essere libera. Non è una libertà arbitraria ma condizionata comunque dall’essere-nel-mondo. Elaborazione di importanti categorie (coscienza, nulla, situazione, libertà), che rappresentano lo zoccolo duro del romanzo La nausea e, soprattutto, della sua opera più importante, L’essere e il nulla. E qui Sartre non scherza, non gigioneggia, non fa il narciso. Qui è serio e va letto con attenzione. La nausea è il reificarsi della coscienza, il suo lasciarsi inghiottire dalla fatticità. L’uomo è schiacciato nel mondo, si lascia vivere, scade al livello dell’insetto, è una passione inutile. Esiste la radicale opposizione tra l’essere dell’uomo e l’essere delle cose, tra libertà e inerzia. Sartre risale all’Essere e ne descrive le strutture portanti, costruisce un’ontologia che supera idealismo e realismo. Qui gli è di grande aiuto la lettura di Hegel fatta da Kojève. L’essere in sè (il carattere delle cose) è autosufficiente di fronte alla coscienza “l’essere è isolato nel suo essere e non ha alcun rapporto con ciò che non è lui… È piena positività. Non conosce dunque l’alterità”. Sembra Parmenide nella sua radicale impostazione. A questo essere è inessenziale tanto l’uomo quanto Dio. L’essere è e non può non essere. Tanto basta. Essere per sè è invece l’essere della coscienza (l’essere umano). In quanto presenza a sè, la coscienza di distingue da sè ed è soltanto in quanto si nega hegeliananente, oltrepassando il proprio essere già. È obbligata ad “esistere solo sotto forma di altrove in rapporto a sè”. Dalla contrapposizione tra il terribile essere in sè e il fragile per sè, scaturisce il potere nullificante della coscienza, si apre una fessura nell’essere dove esiste il nulla, la coscienza, per cui “l’uomo è il proprio nulla… l’essere per cui il nulla viene al mondo”. La coscienza è l’unica responsabile dei significati delle cose. Ecco la libertà. Ogni atto umano è un agire in situazione condizionante ma la libertà dell’uomo è assoluta ed incondizionata. Noi siamo, fichtianamente, condannati alla durissima libertà, cioè all’angoscia, all’incertezza del possibile. Non esistono valori assoluti ma valori che si originano dal proprio pro-gettarsi. Non esistono tranquillanti e camomille. La linea è Kierkegaard-Heidegger. L’uomo, terrorizzato, tenta di fuggire da sè, tenta di abdicare alla responsabilità, si comporta in malafede, vive nella menzogna, quella vera, quella detta non agli altri ma a se stessi. Da qui l’infelicità umana. Non esiste conciliazione hegeliana, non possiamo superare la nostra infelicità. Il per-sè procede verso un trascendente che è se stesso nel futuro e non può fermarsi “corriamo verso noi stessi e, per ciò stesso, siamo l’essere che non può raggiungersi”. Siamo come l’asino che tira il carretto e tenta di prendere la carota. L’uomo è un Dio fallito. L’uomo è quello di Kafka. Gli altri sono il nostro Inferno, la nostra vergogna. Ritorna il mito di Medusa. Guardo l’altro con orgoglio e combatto per affermare la mia libertà ma le due coscienze restano in conflitto irriducibile e si negano a vicenda. I nostri tentativi amorosi, sessuali, l’odio, il desiderio… tutto lavora per l’annullamento dell’altro. L’Essere e il nulla viene pubblicato nel ‘43. Il giovane Sartre che in Germania nel ‘34 quasi non si accorgeva di Hitler, dopo l’esperienza del campo di concentramento dal quale fugge in modo rocambolesco, ora consapevole e più maturo entra a far parte della Resistenza francese nella formazione Combat, dove milita anche Albert Camus. La sofferenza della prigionia gli ha insegnato la solidarietà. Assieme al Castoro e a Merleau-Ponty fonda la rivista Les Temps Modernes, dove elabora la figura dell’intellettuale impegnato, che si sporca le mani. Scrive A porte chiuse, Le mosche e molti saggi. Ora è l’intellettuale più importante di Francia, odiato dai conservatori e amato dai ribelli. Rapporto tormentato col partito comunista francese che si sfilaccia completamente dopo i fatti d’Ungheria e la guerra d’Algeria. Condanna l’umanesimo occidentale e si schiera con i paesi del terzo mondo. Il suo nichilismo si trasforma in esistenzialismo marxisteggiante. Tenta la costruzione di un’antropologia marxista-esistenziale spruzzata di psicoanalisi. Rifiuta il Nobel nel’64, diviene il maestro del Maggio francese. L’immaginazione al potere! Poi i carri armati a Praga lo allontanano definitivamente dal partito comunista francese. Nei primi anni settanta scrive un monumentale saggio, stupendo, su Flaubert, L’idiota di famiglia, dove ricostruisce il legame individuo-storia e vede se stesso nel bambino escluso Flaubert. Poi la decadenza fisica e la cecità totale… la morte il 15 aprile 1980.
A parte L’Essere e il nulla e pur rispettandone la grandezza, non mi ha affascinato. Limiti miei. In fondo è un illuminista e quindi lo sento distante, freddo, cinico. Mi pare un Voltaire del novecento, abile polemista, pensatore di alto livello ma assai lontano dagli Spinoza e dai Camus. Attorno a lui e al Castoro si è costruita una stucchevole moda, un atteggiamento pernicioso, deleterio e vuoto. Le posizioni politiche di Sartre oggi franano sotto i colpi di una dura realtà che in fondo non ha mai veramente compreso. Mentre Albert vive la vita vera e difficile in Algeria, Poulou cresce in un mondo libresco e ovattato. Comunque gli riconosco coraggio, anticonformismo, pensiero… come Voltaire. Sartre mi è soltanto un po’ meno antipatico. Commette errori gravi, dalla simpatia per Stalin, Mao e Castro, sino al silenzio sui crimini del suo ex allievo Saloth Sar, meglio noto come Pol Pot. Considero risibili e bigotte le critiche alla sua condotta sessuale, mentre ritengo deprecabile la sua riottosità al sapone. Sartre va criticato per questioni più serie. Comunque preferisco lui alla peste strutturalista dei Lacan e Levi-Strauss che ammorberà da lì a poco le nostre esistenze. E poi sono cresciuto con i suoi libri e le sue azioni, non l’ho mai amato ma… ce ne fossero.
“L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.”
J.V.