Sessantotto
Sessantotto
”Tornate a casa! Tanto diventerete tutti notai!”
(Eugène Ionesco)
Un sogno ad occhi aperti? Una rivoluzione? Un fallimento?
Un evento attorno al quale ruota un’epoca con vari protagonisti. Si mescolano non violenza e violenza estrema, idealità e opportunismo, palingenesi immaginarie e adesioni folli al maoismo. Si vuole tutto e il contrario di tutto. André Glucksmann parla di “cascata d’impertinenza, di rabbia ironica, di fraternità erudita che, cinquant’anni fa, guidarono le barricate entusiaste, gli anfiteatri in rivolta e i giorni di follia in cui Parigi piombò in un’atmosfera flaubertiana di educazione sentimentale“. Poi ricorda alle femministe che “Catherine Deneuve, con i suoi film, ha allentato il giogo delle donne più di quanto esse non riusciranno a fare con i loro dibattiti collerici”.
Secondo Hannah Arendt il ‘68 nasce dalla «crisi della politica», mette “a nudo la vulnerabilità dell’intero sistema politico, rapidamente disintegratosi davanti agli occhi attoniti dei giovani ribelli”. Mentre questi vogliono soltanto ”sfidare il sistema universitario fossilizzato” in realtà ”cadde il sistema del potere governativo, assieme a quello delle imponenti burocrazie di partito”, si verifica insomma ciò che i marxisti avrebbero chiamato una ”situazione rivoluzionaria”. Ma fu una rivoluzione? Secondo Arendt manca un requisito fondamentale “un gruppo di veri rivoluzionari. Proprio quello che agli studenti della sinistra piacerebbe moltissimo essere ma che non sono affatto”. Apprezza lo spirito della contestazione ma critica aspramente il “ribellismo esistenziale” senza sbocchi se non la ricerca di continue nuove esperienze, droghe varie, illusorie comunità di eguali, teorica non violenza, confuso libero amore, in un pestifero cocktail di bene e di male foriero di danni irreversibili e giunge quindi al giudizio senza appello “l’ottusità analitica (del) movimento è sorprendente e deprimente tanto quanto è gradita la sua gioia nell’azione». Infatti ciò che si presenta come rivolta ideale e comunismo libertario, si trasforma in grande inganno confezionato da ottuse dottrine maoiste e vetero-marxiste. Un evento che nasce come una risata si trasforma in squallida farsa. Un colossale miraggio collettivo, dove si scambia per lotta in nome dell’emancipazione comunista quella che, in realtà, è una vicenda interna di ammodernamento del capitalismo. Il capitalismo fordista di destra si trasforma in società a consumo illimitato di sinistra. Tutto è possibile nel senso che tutto si può comprare. Movimento funzionale al capitale ma contrario all‘etica borghese del limite e quindi contro l’autorità, contro il padre, contro tutto ciò che agisce da solido e sensato freno. Infatti secondo Mario Perniola gli ideali del ’68 vengono realizzati da uno che sessantottino non è mai stato: Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo fa propri gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, e il suo sfacciato neoliberismo altro non è che l’esito finale di quella frattura. Tutto il potere non all’immaginazione, ma all’intrattenimento.
Ancora più duro Michel Houellebecq che, nel romanzo “Le particelle elementari”, descrive il ’68 come l’anno della catastrofe, un anno che lascia solo miseria, individualismo e violenza. Ovviamente viene bastonato dalla cultura democratica, fraterna ed egualitaria francese.
Che il Sessantotto fosse il transito dal capitalismo moderno borghese al capitalismo postmoderno e postborghese a consumo illimitato e a mercificazione smisurata se ne accorse subito Pasolini. Vietato vietare, godiamo illimitatamente, i motti antiborghesi del Sessantotto, pienamente realizzati nella società capitalistica a libero costume e a libero consumo illimitati. Un’emancipazione non DAL ma DEL capitale che tutto trasforma in merce dopo aver abbattuto ogni limite. Altro che sol dell’avvenire. Dal Sessantotto proviene la società finanziarizzata in cui tutto (uteri e bambini compresi) diviene merce disponibile. Una generazione di avvelenatori di pozzi.
Pasolini coglie la costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel ’45 il poeta Umberto Saba: “gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione”.
Pasolini comprende che la partita viene persa dai padri dei sessantottini negli anni cinquanta quando avevano accettato la sub-cultura americana, conquistati dall’ideologia del consumo “nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi”. Quindi i figli sono in ritardo. La loro non è una rivoluzione ma soltanto l’ulteriore fase di sviluppo del capitale paludata da un fittizio avanzamento dei diritti civili che maschera la durissima realtà del capitale spietato e senza cuore che affama miliardi di persone per garantire il consumo illimitato al mondo americano e ai suoi vassalli. Però sia chiaro: non ci sono figli innocenti! La colpa accomuna padri e figli borghesi. Col Sessantotto assistiamo ad una mutazione antropologica, ad un genocidio culturale, ad una omologazione culturale. Tutte cose delle quali non ci siamo più liberati. Sia sufficiente vedere la distruzione della scuola e delle università, la sciatteria culturale, il pressappochismo linguistico, l’analfabetismo studentesco.
Il Sessantotto è l’assurdo provincialismo del presente, per citare Eliot, che calpesta la storia, il pensiero, la letteratura di ogni tempo, presupponendo presuntuosamente una superiorità in nome del progressismo dogmatico. Ogni passato viene condannato come arretrato. Nasce il primato del presentismo, dell’oggi. Nascono le divinità contemporanee: Impazienza, Rottamazione, Giovanilismo, Presunzione, Meritofobia, Finto egualitarismo.
Nel ‘68 avevo dodici anni. Ho vissuto con angoscia il Settantasette. Ho avuto la fortuna di incontrare buoni maestri all’università nella seconda metà degli anni Settanta. Grazie a Francesco Cataluccio, Claudio Costantini, Massimo Quaini, Geo Pistarino, Raimondo Luraghi e altri ho imparato che lo studio esige rigore, costanza, profondità. Da figlio del sud arrivato a Genova nel 1960 ho sempre visto nella scuola l’unica concreta possibilità di autentica democrazia. Se la scuola non funziona non esiste possibilità democratica. Oggi la scuola è distrutta. Non è responsabilità unica del Sessantotto ma i figli borghesi di quella stagione hanno fornito un bel contributo in termini di lassismo, deresponsabilizzazione, faciloneria. Detesto i cialtroni.
1975, un liceo genovese. Ero un diciottenne pieno di ideali e quindi, come dice Cioran, potenzialmente pericoloso per la manifesta buonafede e l’entusiasmo. Polemizzavo con un rampollo alto borghese più grande di me perché pluriripetente, pelandrone agitatore di folle con Ducati fiammante da ammaliatore di pulzelle in attesa del principe azzurro (in effetti il giovinastro era assai piacente) e megafono bianco d’ordinanza. Interviene nella disputa un professore anziano, esperto e scafato, vecchio comunista onesto e tutto d’un pezzo. A me dice bonariamente di star zitto, poi affronta di petto il boriosetto e gli dice più o meno (cito a memoria dopo molti anni) “smettila di rompere i coglioni. Lui (sarei io) troverà il suo posto nel mondo con i suoi mezzi, tu dirigerai l’azienda di tuo padre. Va tutto bene… torna ad incantare le masse col tuo Ce n’est qu’un debut continuons le combat e levati dal cazzo”. Quel giorno ho imparato molto sul comportamento umano e quel professore autentico e colto quanto umano e genuino l’ho preso a modello. Mi ha insegnato un’altra cosa davanti ad un bicchiere di bianco fresco “Vedi, l’applicazione reale del comunismo non riesce… Stalin, Mao, Budapest, Praga… è un casino. Ma tu devi vedere nel comunismo due cose: le tue origini umili e la volontà di combattere il potere ipocrita della borghesia benpensante. E questo è relativamente facile. Più complicato è stare attenti agli amici, ai compagni. In genere saranno invidiosi e carogne e si comporteranno male, soprattutto quelli che oggi sono comunisti per moda. I peggiori tra loro vinceranno, i meno peggio diventeranno capi delle aziende paterne, i pessimi saranno i grandi moralisti, depositari della verità. Tra pochi anni la sinistra italiana perderà i contatti col popolo, diventerà la forza politica dei diritti borghesi, non si occuperà più delle periferie e degli sfigati. Vincerà il politicamente corretto, si confonderanno le spesso vuote buone maniere con la genuina buona educazione e saranno guai. Perderemo perché ci arrogheremo la superiorità morale e questo in politica è un peccato mortale. Alla lunga ci farà a pezzi quella massa di diseredati che difendiamo soltanto a parole”. Cassandra al suo confronto era una dilettante.
J.V.