Tito
“Amor ac deliciae generis umani”. Così lo definisce Svetonio. Il regno di Tito è breve, dal 79 all’81. Cassio Dione sostiene che se avesse regnato più a lungo non sarebbe stato giudicato così favorevolmente. Siccome la storia si fa anche con i se occorre riflettere su questa affermazione di carattere politologico. È possibile per un imperatore non sacrificare le vite altrui, non esercitare il potere anche in modo crudele, non scontentare nessuno? Ovviamente no. Gli imperatori romani raramente muoiono nel loro letto; i due terzi muoiono in guerra, avvelenati, assassinati. In ogni caso governare senza crudeltà è molto difficile.
Tito nasce nel 39. Compagno di studi e giochi di Britannico, il figlio di Claudio, si trova con lui quando lo avvelenano. Egli stesso si ammala per aver bevuto lo stesso vino. Tribuno militare in Germania e Britannia, nel 60 torna a Roma come questore. Nel 67 segue il padre Vespasiano in Giudea. La sua fama è pessima. Criticato perché sostiene la dura politica fiscale del padre, ritenuto crudele perché elimina gli oppositori del padre, dissoluto perché si intrattiene sino a notte tarda con amici conviviali e lussurioso per il suo rapporto con la stupenda Berenice di Cilicia.
Alla morte del padre smentisce tutti i detrattori: allontana i compagni di bevute, rimanda Berenice in Oriente, conferma cariche e privilegi ai Senatori, organizza giochi per il popolo e non emette sentenze di morte. Di eccezionale bellezza, dotato di una voce dal timbro suadente, coltissimo, grande guerriero. Nei tre anni di regno acquista una popolarità unanime. Popolo e Senato sono con lui. Grazie alla guerra giudaica e alla conquista di a Gerusalemme merita il trionfo. La Giudea è una provincia irrequieta sin dai tempi di Pompeo. La situazione viene esasperata da Caligola che pretende di collocare la propria statua, espressione di divinità, dentro il tempio dì Gerusalemme. Provocazione estrema per una religione monoteista. Il malcontento esplode nel 66. Nerone invia Vespasiano a sedare la rivolta violentissima anche perché gravida di attese messianiche. Tito combatte assieme al padre e dal 69, anno dell’ascesa al trono di Vespasiano, resta unico comandante in Giudea. Conduce una guerra crudele, spietata, ricca di atti di coraggio e di eroismo. Assedi, stupri, atti di ferocia indicibile caratterizzano questi anni. Yosef ben Matityahu, Giuseppe Flavio di Mattia, un combattente giudeo, scrive la Guerra giudaica. Nel 66 Giuseppe è governatore militare delle forze ribelli in Galilea. Nel corso dell’assedio di Iotapata, per non cadere prigionieri dei romani i sopravvissuti si uccidono tra loro con un complesso stratagemma conosciuto oggi in ambito matematico come il Problema di Giuseppe. Unico sopravvissuto è Giuseppe. Si consegna ai romani e predice a Vespasiano il suo futuro da imperatore.
“«Tu credi, Vespasiano, di aver catturato soltanto un prigioniero, mentre io sono qui per annunciarti un grandioso futuro. Se non avessi avuto l’incarico da Dio, conoscevo bene quale sorte spettava a me in qualità di comandante, secondo la legge dei Giudei: la morte. Tu vorresti inviarmi da Nerone? Per quale motivo? Quanto dureranno ancora Nerone ed i suoi successori, prima di te? Tu, o Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio. Fammi pure legare ancor più forte, ma custodiscimi per te stesso. […] e ti chiedo di essere punito con una prigionia ancor più rigorosa se sto mentendo, davanti a Dio.»
(Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 8.9.400-402)
Diviene amico di Tito e cittadino romano. Grazie a lui abbiamo il resoconto dettagliato della guerra giudaica. Per lui lo storico Pierre Vidal-Naquet conia il sintagma “bon usage de la trahison”. Prototipo dell’apostata della Nazione Giudea. In realtà in questo modo Giuseppe può magnificare la forza d’animo ed il coraggio della sua gente.
La guerra viene vinta dai Romani, Gerusalemme distrutta. Sulle rovine si accampa la X^ Legione. Il bottino enorme viene portato a Roma e serve per costruire il Colosseo. Trionfo di Vespasiano e Tito. Costruzione dell’Arco di Tito. Ebrei deportati. Chi accosta i Romani ai nazisti non comprende la questione. I Romani ammirano gli Ebrei perché hanno una religione antichissima ed essi nutrono il culto dell’antichità (contrastano piuttosto la religione cristiana anche perché moderna e antischiavile). Non tollerano invece il rifiuto giudaico di onorare l’imperatore e il forte senso di appartenenza delle popolazioni. I Romani non sono razzisti. Molti Etiopi (così vengono chiamati i Neri in genere) raggiungono posti di rilievo nell’amministrazione imperiale. Le guerre di conquista delle legioni sono durissime con chiunque, non con gli ebrei in particolare. L’errata valutazione dell’antisemitismo romano nasce con la cinematografia fascista, dove si coniuga il culto della romanità con le sciagurate e idiote leggi razziste del 1938. In realtà nel caso dell’Impero Romano più che di Giudeofobia dobbiamo parlare di Giudeopatia, dovuta anche ad una certa invidia per i ceti benestanti giudei difficilmente assimilabili. Una sofferenza da contatto dovuta al contrasto tra maggioranza politeista e minoranza monoteista, gelosa della propria antichissima religione. Gli ebrei vengono stroncati perché ribelli, non perché ebrei. Completamente diverso l’antisemitismo nazista che persegue l’eliminazione fisica di ogni ebreo.
Nel 79 Tito sale al trono, completa la costruzione del Colosseo, costruisce terme, si comporta da buon padre affettuoso – parole di Svetonio – con le popolazioni colpite dalla spaventosa eruzione del Vesuvio che distrugge Pompei ed Ercolano. Racine, nel Seicento, scrive la tragedia Berenice, dove ricorda la dolorosa scelta dei due amanti dovuta alla ragion di stato. Il Senato era preoccupato da una novella Cleopatra.
Tito muore nell’81 con maggior danno per l’umanità che per se stesso. Se fosse vissuto più a lungo avrebbe probabilmente conquistato altri territori. Sarà questo il compito di Traiano.
J.V.