Trent’anni son passati… ma quello fu il giorno decisivo

Trent’anni son passati… ma quello fu il giorno decisivo


Il 5 maggio, morte dell’imperatore, un giorno che non mi piaceva… sino al 1991. Quel pomeriggio la mia amatissima Sampdoria vince virtualmente il campionato. Ma procediamo con ordine. Una sera di fine aprile mia moglie ed io abbiamo ospiti a cena una coppia di amici calcisticamente agnostici per cui la gradevole discussione verte su altri argomenti. All’improvviso il marito mi dice che gli hanno regalato un biglietto di tribuna centrale per Inter-Sampdoria del 5 maggio. Mi chiede se può interessarmi perché lui non sa che farsene e conoscendo la mia fede sampdoriana…I miei genitori, da buoni siciliani, mi hanno insegnato a rifiutare un dono gradito almeno due volte prima di accettare ma in questa occasione metto da parte le buone maniere e accetto immediatamente, stappo un’altra bottiglia e mi impadronisco del prezioso omaggio che il benefattore teneva nel portafogli. Lo considero un segno del destino. Il Dio del calcio vuole che io sia presente nel suo tempio per la consacrazione della fanciulla blucerchiata. Per alcuni giorni sono assalito da attacchi di gioia misti a timore e tremore. Con l’Inter sarà durissima, lo so. Sento che siamo di fronte al vero ostacolo, sento che un momento storico sta per giungere.Domenica mattina presto prendo un treno per Milano. Mi vesto con ricercata cura, giacca e cravatta, impermeabile blu. Voglio star da solo. Voglio che quella giornata sia soltanto mia. Arrivo alla stazione centrale a metà mattina. Non ho fame. Vago per Milano, incontro migliaia di fedeli sampdoriani arrivati coi treni speciali. Il povero Enrico Giannubilo, presidente del Lumiére con una enorme bandiera mi invita ad andare allo stadio con loro. Declino l’offerta malvolentieri. Sento che devo restare da solo. Questo vuole da me il Dio del calcio. Alle due arrivo a San Siro. Un gentile addetto viene a prendermi all’entrata e mi accompagna al mio posto. La vista è stupenda, sembra di essere in campo. Lo stadio si riempie, uno spettacolo. Fumo il toscano in continuazione. Sono già stato altre volte al Meazza ma oggi è diverso, magico, irreale. Sono in mezzo alla buona borghesia milanese. Sto zitto, mi sento un corpo estraneo, temo per il mio accento genovese, palese prova di estraneità al gruppo. Poi inizia il rito. La voce dello speaker fortissima e chiara: Sampdoria: Pagliuca, Mannini, Invernizzi, Pari, Vierchowod, Pellegrini, Lombardo, Cerezo, Vialli, Mancini, Dossena. Allenatore: Signor Boskov. Inter: Zenga, Bergomi, Brehme, Stringara, Ferri, Paganin, Bianchi, Berti, Klinsmann, Matthaeus, Serena. Allenatore: Signor Trapattoni.Sento i colpi dei calci al pallone, fortissimi. Sento soltanto quelli e non il clamore del pubblico. Sono lì ma so di essere invisibile come se avessi al dito l’anello di Gige. Pagliuca si supera, para tutto, l’Inter attacca ad ondate, spara da ogni posizione. La città assediata resiste, non cede un metro. Klinsmann segna. Annullato. Fuorigioco, proteste, parapiglia. Matthaeus continua a sparare ma Pagliuca è insuperabile, il migliore in campo. Poi il provocatore Berti, Mancio e Bergomi espulsi. All’improvviso Vialli ruba palla a Stringara, la consegna a Dossena… gol. Riesco a restare seduto, immobile, il cuore mi scoppia ma resto impassibile e ascolto gli insulti contro di noi dei buoni e compiti borghesi che si lasciano andare a comportamenti verbali da angiporto. La corazzata Inter attacca a testa bassa, Cerezo stende il solito Berti. Rigore. In uno stadio muto l’eroe greco Matthaeus va sul dischetto. Fino a quel momento dagli 11 metri non ha mai sbagliato. Il tiro è violentissimo ma Pagliuca para e uccide settantamila interisti. Li ho tutti in piedi, strepitanti attorno a me. Delusi, increduli, deboli. Capiscono che è finita, capiscono che non passeranno mai. E invece non è finita. Mannini lancia Vialli che aggancia il pallone, scherza Zenga, deposita in rete e va a fare il saltimbanco sotto la curva. Ora non riesco più a controllarmi. Mi alzo, urlo la mia gioia, mi brucio la copertura. Mi guardano male. Un milanese elegantissimo mi scruta con malcelato disprezzo e dice a voce alta: questi non hanno mai vinto niente. Pensa di offendermi e non si aspetta la replica. Lo guardo fisso negli occhi e gli dico: “Lei ha ragione gentile signore e allora mi permetta di esultare. Aspetto da sempre questo momento”. Mi guarda con sussiego spagnolesco. Altri sono inviperiti. Decido di fare come l’Avvocato e me ne vado lentamente. Esco dallo stadio e mi dirigo alla metro. Non aspetto, so che vinceremo. Così sarà. 


Due settimane dopo regoliamo il Lecce tre a zero. Scudetto. Mancio guarda dalla tribuna. Sono in gradinata sud assieme ai miei studenti. Un anno dopo a Wembley perderemo la grande occasione. L’amore resta ma il presente lo circonda di triste nebbia.


Dedicato a Bruno Mugnai.
J.V.

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