UN APPASSIONATO RINGRAZIAMENTO

UN APPASSIONATO RINGRAZIAMENTO

“Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me

non dico che fosse come la mia ombra

mi stava accanto anche nel buio

non dico che fosse come le mie mani e i miei piedi

quando si dorme si perdono le mani e i piedi

io non perdevo la nostalgia nemmeno durante il sonno

durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me

non dico che fosse fame o sete o desiderio

del fresco nell’afa o del caldo nel gelo

era qualcosa che non può giungere a sazietà

non era gioia o tristezza non era legata

alle città alle nuvole alle canzoni ai ricordi

era in me e fuori di me.

Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me

e del viaggio non mi resta nulla se non quella nostalgia.”

(Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me, Nazim Hikmet)

Oggi è il mio primo giorno da pensionato. Provo tristezza. Avrei voluto continuare ma occorre rassegnarsi. Mi sento spaesato… eppure so benissimo che mi attendono molti libri ed altre importanti esperienze e poi, come dice Jean Cocteau “Si può nascere vecchi, come si può morire giovani.” Ed io mi sento giovane nello spirito, pieno di cicatrici ma giovane. E questa è la tragedia della vecchiaia, sentirsi ancora giovani. Oscar Wilde lo aveva capito benissimo. Un tempo, quando la concezione del tempo era ciclica chi aveva visto di più sapeva di più. Conoscere equivaleva a ricordare tanto che Platone elogia i vecchi come i più ricchi di conoscenza. Con la modernità e la visione progressiva del tempo la vecchiaia diviene inadeguata e malvista. Si crea una frattura tra l’io e il proprio corpo. Il vecchio in Occidente ormai vive peggio per ragioni culturali. È considerato improduttivo, insignificante e spesso viene privato della parola o addirittura abbandonato. Nessuno vuole identificarsi con un vecchio, col suo bisogno d’amore che lo allontana dalla morte. Non esiste pietas per lui. Alcuni tentano di restare giovani con la grottesca e ridicola chirurgia estetica che, a mio parere, andrebbe vietata perché aggiunge il ridicolo al tragico e quando il tragico diviene ridicolo nulla ha più senso. Dobbiamo capire che non si invecchia soltanto per morire. La vecchiaia è il tempo della comprensione. Le nostre rughe, come le nostre cicatrici, esprimono ciò che è accaduto. Può essere la stagione dell’amore più intenso, profondo, titanico perché lotta contro la morte, contro il cinismo, contro la rinuncia a stupirsi e meravigliarsi. La vecchiaia è l’ultimo mestiere che dobbiamo inventarci nella vita e non deve essere il mestiere di morire ma la forma più alta e consapevole di vita. Dobbiamo rifuggire dalla giovinezza interiore, un luogo malfamato, e accettare la “sacra carne del vecchio” che si contrappone a quella del giovane, mera res extensa buona per la riproduzione. In fin dei conti amare una persona significa voler invecchiare assieme a lei. Purtroppo il nostro non è un mondo per vecchi. Il nostro è l’umanesimo della fragilità dove il potere non ha bisogno del vecchio perché non può dominarlo. Un mondo che rinuncia alla saggezza del vecchio e corre in modo arrogante verso l’abisso. Velocità contrapposta a saggia lentezza. L’Homo Stupidus Stupidus non è in grado di superare l’antinomia del reale e fugge invece di proiettarsi verso l’alto e quindi verso l’altro, ascoltandolo. Soltanto così si può affrontare il Mistero. Quel Mistero che affronta Abramo quando Dio gli chiede assurdamente di sacrificare suo figlio Isacco. Ma Dio parla anche quando tace. Abramo lo sa e supera il dilemma. Torna a casa col figlio e finalmente può utilizzare il tempo che gli è rimasto. I vecchi saggi sanno come utilizzare il tempo. Lettura, pensiero, ascolto della musica, incontro con persone amiche. Tolstoj ci ricorda che la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possono capitare ad un uomo, dove saper invecchiare significa trovare un accordo tra il tuo volto vecchio e il cuore giovane. Saper invecchiare è il capolavoro della saggezza, il compito più difficile della nostra esistenza. Dobbiamo diventare un tramonto che tutti si fermano a guardare. Anche da anziani, o forse soprattutto, si possono realizzare grandi cose. Pensiamo a Tiziano, Michelangelo, Picasso per citare i primi che vengono in mente.

Occorre coraggio, ottimismo pedagogico, forza interiore, volontà di aiutare i giovani che spesso, al di là delle apparenze, sono più fragili, dei vecchi. Il mio mestiere consiste proprio in questo: aiutare i giovani. Chissà se sono riuscito? A volte forse sì, altre magari no. Sicuramente il dolore provato nel corso della vita mi ha aiutato a comprendere il dolore degli altri perché il dolore è quanto di più proprio, individuale e intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini, ma nello stesso tempo non è un’esperienza così immediata e diretta come a prima vista potrebbe sembrare. Nessun uomo potrebbe vivere la sofferenza e sopravvivere ad essa, se non riuscisse ad attribuirvi un senso. Esistono quindi scenari di senso entro i quali il dolore viene giustificato e compreso. Tragedia e redenzione costituiscono le due grandi scene entro cui l’occidente ha sperimentato il dolore. Come scrive T. S. Eliot “La gente cambia, e sorride: ma la sofferenza resta.” E i giovani soffrono per svariati motivi. Occorre spiegare loro che il dolore è veicolo di conoscenza non per astrazione, è experimentum crucis, sottopone a prova chi lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza. Il dolore è vita che si riduce e il suo rischio più alto è la morte. Un muro di silenzio si alza tra coloro che soffrono e coloro che non soffrono e che comunque separa. Al di là di ogni sentimento di umana pietà. “Ntender no la può chi no la prova” (Dante, La Vita nuova, CAP. XXVI, v. 11). L’amore, anche quando tace, parla. Al contrario, il dolore resta muto perché la sofferenza inibisce l’espressione e quando non la inibisce la deforma. L’amore genera il discorso e si autorigenera, si distacca dalla fruizione immediata dell’oggetto e tende all’assoluto. Al contrario nel dolore il peso dell’ostacolo è più forte dello sforzo tanto che la tensione rischia di spezzarsi. Ogni dolore individuale invia ad una cosmologia del dolore, dove il parlare non ha pretesa di comunicazione; ecco perché per comprendere l’esperienza del dolore, ammesso che sia possibile, bisogna prima intuire il dolore del mondo, guardare il volto del sofferente che dissimula ma si tradisce, vuole trasmettere forza ma trasmette sofferenza, diviene una maschera. Il dolore si tradisce (dal latino tradere, porgere) e lascia intravedere, lascia vedere restando nascosto. I tratti del volto si alterano e l’atteggiamento del soggetto diviene ambiguo. Il sofferente non vuole commiserazione ma comprensione in modo che la sofferenza possa farsi linguaggio non banale che interpreti la gamma di moti dell’anima che vanno dal muto silenzio allo strazio. A volte, è il mio caso, si reagisce persino con ironia e sarcasmo, con anelito di giustizia e costruzione di un’esistenza migliore, di presa di coscienza della propria essenza individuale, perché nessuno è sostituibile nel proprio dolore così come non lo è nella propria morte. Ecco perché veder soffrire, o peggio morire i figli, è insopportabile: non possiamo sostituirci a loro. Inoltre il nostro io non esiste come soggetto monolitico ma è il rapportarsi di un rapporto, una rete polimorfa tale che l’individuo storico perisce prima di comprendersi. In questo senso il Dolore e la Vecchiaia sono anticipazioni di Morte. Il Dolore non è un’esperienza che si sceglie, esso viene inflitto e come tale deve essere sopportato e, a certe condizioni, accettato. Da qui la Pazienza, la virtù per eccellenza, come capacità di saper sopportare. Il Dolore offre una diversa orientazione all’interno dell’esistenza, ci sospende nel Nulla, ci rammenta costantemente la precarietà esistenziale e in quanto tale il Dolore è Angoscia che, come scrive Heidegger, rende l’individuo estraneo alla chiacchiera e quindi separa dalla moltitudine. “Ma se io parlo, il mio dolore non si lenisce e, se faccio, non se ne va da me. (Giobbe, 16, 6). Il Dolore rende soli ed è repellente, crea timori per il possibile sopravvento dell’odio. Il Dolore ci avvicina alla prima notte di quiete e al pericolo di radicale perdita del sé, consapevolezza della radicale crudeltà dell’esistenza.

I buoni Maestri sono indispensabili. Non si tratta di cercare l’insegnante perfetto; ricordiamo che la perfezione è il punto di coincidenza tra quel che possiamo fare, quel che vogliamo fare e quel che dobbiamo fare. Il magistero è fallibile: gelosia, vanità, falsità e tradimento si intromettono inevitabilmente. Educare l’anima significa insegnarle a trasformare in ammirazione la sua invidia. Ricordo che l’ipocrisia non è lo strumento dell’ipocrita ma la sua prigione. Oggi necessitano parole sobrie e carismatiche e invece regna la babele linguistica dei barbari, alla lettera aristotelicamente, coloro che balbettano. Il debole ha bisogno di chiasso, chiacchiera, esistenza inautentica.

Vorrei che fossimo tutti consapevoli che il disagio terribile dei nostri ragazzi non è psicologico, ma culturale. Occorre quindi agire sulla cultura collettiva e non sul disagio individuale, perché la sofferenza non è la causa, ma l’effetto dell’implosione di cui i giovani, parcheggiati in scuole e università, sono vittime. Ai giovani l’esistenza non appare priva di senso perché intrisa di sofferenza, bensì appare insopportabile perché priva di senso. I buoni maestri riescono a suscitare la curiosità del sé e a far comprendere che non è essenziale la ricerca di senso, come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma è importante l’accettazione del sé, della propria virtù, delle proprie capacità, del proprio daìmon. In questo modo si approda alla felicità che in greco si dice eu-daimonìa. Un buon maestro allontana dai giovani il rifiuto del futuro e il fascino diabolico delle passioni tristi. Il maestro ha come tensione della propria vita la cura dei giovani. A salvare un ragazzo basta l’incontro di un maestro carismatico. Il disinteresse emotivo del cattivo insegnante viene trasmesso al ragazzo e lo uccide. I nostri giovani sopravvivono male nella terra di nessuno dove la famiglia non svolge alcuna funzione e la scuola annoia. I docenti non devono interrompere la comunicazione con i giovani, qualsiasi tipo di comunicazione, altrimenti li perdono. Non possono essere neutri perché l’uomo chiama neutro ciò che vuole imporre senza confessarne i motivi. Occorre riflettere, prima di abbandonare i giovani, su quanta educazione emotiva si è loro dispensata, perché essi intuiscono che l’intelligenza e l’apprendimento non funzionano se non vengono nutriti dal cuore. L’intelligenza senza cuore è l’origine del male. Il cuore non è il languido oppositore della ragione, come sosteneva l’arido Cartesio, bensì la forza della ragione, il suo alimento. Insomma i docenti dovrebbero essere spinoziani e non cartesiani, dovrebbero riportare all’unità ragione e sentimento. L’anima è il compito dell’uomo. Il vero aristocratico è colui che ha una vita interiore, indipendentemente dalla sua origine, dal rango o dal patrimonio.

Oggi, dopo anni di sofferenze e di riflessioni sulla grandezza e bellezza del lavoro scolastico, mi sento di invitare tutti ad aver fiducia nella Scuola. Essa è l’unica salvezza per i nostri figli. Ragazzi, per favore, non pensate che la vostra tristezza sia l’unica al mondo. La vita è dura e spesso triste ma vale la pena di essere vissuta perché potete attingere ai tesori della storia e della scienza, della filosofia e della matematica. Esistono buoni maestri, tanti. Lavorano silenziosamente e non sono famosi perché i mezzi di comunicazione, tranne rare eccezioni, parlano soltanto del Male e quasi mai del Bene. Una foresta che cresce non causa il rumore di un albero che cade. Abbiate fiducia nei vostri insegnanti, sono la vostra salvezza. Per aspera ad astra.

Chi opera bene in genere sta zitto. Coloro che combatterono davvero tra il ‘43 e il ‘45 ne parlano poco e niente. I migliori tacciono e i peggiori straparlano. Esiste un pudore dei buoni contrapposto alla volgarità di coloro che starnazzano la propria “onestà”. Ho imparato col tempo e con la sofferenza a leggere i silenzi delle persone buone. Non sono molte ma le riconosco dai silenzi, dagli sguardi lievemente sofferenti, dalla capacità di comprendere, dall’assenza di volgarità. Non si “indignano” ma comprendono, non urlano ma parlano poco e sommessamente. Soprattutto non vogliono avere ragione… Mai! Il Bene provoca un assordante Silenzio. I buoni sono come gli angeli necessari. Alla domanda se esistono gli angeli non occorrerebbe rispondere dal momento che è mal posta. Comunque gli angeli esistono e sono necessari. Da sempre so con evidente certezza che un angelo mi accompagna e vigila su di me. Da bambino era sopra la mia testa, adesso è dentro di me e mi dice con chiarezza ciò che devo fare. Wim Wenders lo ha compreso e filmato molti anni fa. Sentiamo la presenza degli angeli ogni volta che creano amore nei nostri cuori, illuminano la nostra mente, conversano con la nostra anima mentre dormiamo. Spesso vengono a visitarci ma li riconosciamo soltanto quando se ne sono andati e restiamo soli coi nostri demoni. Gli angeli si muovono con leggerezza, non costringono e non impongono, soffiano suggerimenti, combattono coi nostri demoni, ci accompagnano davanti al volto di Dio dopo la Morte. Certo ci sentiremo soli nel momento del passaggio ma non lo saremo perché l’Angelo schiuderà le porte della prigione. No, non siamo soli. Lo scrive benissimo sempre la poetessa “Non posso essere sola, mi viene a visitare una schiera di ospiti, non sono registrati, non usano la chiave, non han né vesti, né nomi, né climi, né almanacchi, proprio come gli gnomi, messaggeri interiori ne annunciano l’arrivo, invece la partenza non è annunciata, infatti non sono mai partiti.”

Gli angeli muti camminano con noi, soffrono con noi, lottano a nostra difesa. Quando nevica riesco a scorgerli in lontananza e forse nevica perché, come dice Umberto Saba, stanchi di volare sbattono le ali. Anche le nostre lacrime sono provocate dagli angeli. Essi sono in grado di sciogliere il ghiaccio del nostro cinismo e con il continuo movimento lasciano in vita il nostro amore. Giocano coi bambini e parlano con loro. Bambini e angeli si capiscono perché parlano un linguaggio semplice e perfetto. Crescendo, per una legge arcana, gli uomini perdono il dono dell’ascolto e i loro cuori si induriscono. Soltanto i poeti continuano a parlare con gli angeli e persino col più luminoso tra loro, il più ribelle e dannato, così come i grandi artisti li disegnano o li scolpiscono nel marmo e i musicisti suonano la loro musica che altro non è se non il tentativo di tradurre il silenzio di Dio. Quando ci svegliamo con sollievo e leggerezza abbiamo traccia dell’angelo che ci ha parlato nel sonno. Altre tracce evidenti si trovano nella generosità di vite ordinarie che nascondono angeli camuffati, nel sorriso dei bambini, negli occhi di donne innamorate. Gli angeli curano i nostri ricordi ed evocano nostalgia, bellezza, luoghi perduti, paradisi dove un tempo lontano siamo stati. Gli uomini giusti sono angeli, i vecchi saggi e buoni sono angeli, i buoni maestri sono angeli. Essi sono l’immagine di Dio, lo specchio puro, la luce eterna. Ci indicano la strada e ci ricordano che siamo eterni, padroni del nostro destino, re di meravigliosi castelli. Ogni giorno attorno a noi si manifestano la presenza degli angeli e la testimonianza di Dio. Dobbiamo soltanto vedere e ascoltare. In fin dei conti possiamo essere scimmie evolute o angeli caduti ad un tempo. Non cambia molto. E a coloro che cinicamente sorrideranno con malcelato disprezzo di quanto scrivo dall’alto del loro cinismo “intelligente e scientifico”, rispondo con poche e sobrie parole “credete nella follia della Techne contemporanea e non volete credere alla presenza dell’angelo?”

Gli angeli esistono e sono fuori e dentro di noi. In alcune epoche storiche arretrano a causa della nostra durezza cinica e stolta e allora giunge l’angelo della Storia. “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui.” Così scrive Walter Benjamin e così è oggi a causa della nostra folle credulità tecnologica, della nostra durezza e del mancato ascolto delle voci angeliche.

Anche Lucifero è un angelo, il più luminoso, il ribelle annoiato, ma non vincerà sino a quando esisterà un atomo di bontà nel mondo e sino a quando esisterà la meraviglia, vera vincitrice della noia. La Scuola è meravigliosa. Quando i ragazzi si annoiano a scuola vince l’angelo ribelle e il mondo si autodistrugge. La nostra opera consiste nel suscitare continua meraviglia in chi ci ascolta. Ecco il trionfo di Dio cantato dagli angeli tramite Bach e Mozart e descritto da Dante e Milton, raffigurato da Michelangelo e Raffaello, immaginato da Pascal e Einstein nella sua infinita bellezza matematica. Tutti i Maestri degni di tale nome sono Angeli Necessari.

Questo scritto, un collage di riflessioni maturate nel tempo, è dedicato a quanti mi hanno accompagnato nel mio lavoro, con pazienza, umiltà e dedizione. È dedicato agli studenti, agli insegnanti, a tutti coloro che lavorano nella scuola. Sono stato fortunato ad incontrare voi tutti da docente prima e preside poi. Non scrivo alcun nome perché la lista è troppo lunga e non vorrei tralasciare nessuno. Iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso, si è conclusa ieri.

In particolare il mio commosso e sincero ringraziamento a tutte le persone che ho incontrato all’Omnicomprensivo ValleScrivia, sindaci, genitori, ragazzi, tutto il personale, le forze dell’ordine. Siete stati eccezionali e non vi dimenticherò mai. Abbiamo vissuto momenti di gioia e di profondo dolore a causa della morte di studenti e colleghi. Infine un grazie commosso a due donne eccezionali che mi hanno consentito di lavorare con serenità e gioia: la Segretaria e la Vicepreside. Non scrivo i nomi perché conosco la loro bontà e conseguente riservatezza.

Viviamo tempi tristi, nei quali vi è Nostalgia dell’Uomo, una nostalgia contraddetta dalle imprese della Techne e dell’uomo artificiale. Abbiamo perduto un mondo e ci troviamo nella Terra Desolata. In questo spazio ogni uomo è chiamato a combattere la sua guerra e a prepararsi ad una nobile morte.

Ecco perché ogni mattina Vi scrivo, perché tento di superare il dolore, il mio e il Vostro, prepararmi e prepararci all’agonia che esiste immancabilmente dopo la battaglia.

“Resisti, cuore, anche se soffri mali irresistibili: si fa convulsa l’anima dei vili (Teognide, Libro I, V. 1029-1030)

J.V.

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