Visconti
Luchino Visconti
“I corvi vanno a schiere, l’aquila vola sola.”
Luchino Visconti di Modrone, conte di Lonate Pozzolo nasce a Milano il 2 novembre 1906, quartogenito del duca Giuseppe Visconti di Modrone e di Carla Erba, proprietaria della più grande casa farmaceutica italiana. Discendente dell’Innominato manzoniano, pessimo studente ma vorace lettore, ottimo cavallerizzo, buon violoncellista innamorato del melodramma. Il salotto della casa paterna è frequentato, tra gli altri eccellenti, da Arturo Toscanini. Cresce tra Milano e Villa Erba sul lago di Como. Nel 1936 a Parigi conosce Jean Renoir tramite Coco Chanel, sua intima amica, e ne diviene assistente alla regia. L’aristocratico Luchino si avvicina così al comunismo. Breve soggiorno a Hollywood, rientro in Italia a causa della morte dell’amatissima madre nel ‘39. Trasferimento a Roma e frequentazione di gruppi intellettuali antifascisti. I suoi amici sono Pietro Ingrao, Mario Alicata e Giuseppe De Santis, tra gli altri. Gira il neorealista “Ossessione” rifacendosi al romanzo “Il postino suona sempre due volte” di James Cain con i mitici Clara Calamai e Massimo Girotti. Dopo l’8 settembre partecipa alla Resistenza col nome di battaglia Alfredo. Latitante assieme all’attrice Maria Denis, sua compagna del tempo, ospita molti clandestini nella sua villa ”La casa di Luchino divenne in breve tempo la centrale operativa ed il rifugio di tantissimi clandestini…Tutte le finestre venivano tenute rigorosamente sbarrate ed oscurate, in modo che dall’esterno la casa risultasse come disabitata, mentre all’interno era stata trasformata in una specie di dormitorio, mensa e ufficio, i cui occupanti entravano e uscivano rigorosamente di notte.” (Lettera di Uberta Visconti a Martino Contu). Catturato dalla banda Koch viene salvato dalla fucilazione proprio grazie alla Denis. Finita la guerra gira “La terra trema” tratto da “I Malavoglia” di Verga, interamente in dialetto. Poi “Bellissima” con Anna Magnani e Walter Chiari sullo spietato mondo cinematografico.
Poi “Senso“ con Alida Valli e basterebbe far vedere questo film a scuola per spiegare il Risorgimento. Nel ‘56 condanna l’invasione sovietica a Budapest ma non abbandona il partito comunista. L’anno dopo vince il Leone d’argento con “Le notti bianche” ispirato a Dostoevskij, con la stupenda Maria Schell che si muove in un’atmosfera nebbiosa ed eterea. Poi “Rocco e i suoi fratelli” con Delon. Polemiche a non finire, censura, premi. Visconti chiamato Il Conte rosso. Finalmente nel 1963 il sontuoso e monumentale “Il Gattopardo”, raro esempio di gran film tratto da un romanzo immenso e, ancora oggi, non compreso. Ogni volta che sento citare a sproposito alcune frasi famose del romanzo mi coglie una furia omicida. La scena del ballo entra di diritto nella storia del cinema. Scandito dalla musica di Nino Rota il lavoro di Visconti offre quadri e dialoghi di rara suggestione. Don Fabrizio, il principe Salina, è un Bart Lancaster strepitoso affiancato dal nipote Tancredi (un giovanissimo e stupendo Alain Delon), da Angelica, di nome e di fatto (meravigliosa Claudia Cardinale) e da attori di consumata esperienza e bravura quali Paolo Stoppa (Calogero Sedara), Rina Morelli e Serge Reggiani.
Poi il leopardiano incestuoso “Vaghe stelle dell’orsa” sempre con Claudia Cardinale e il bel Jean Sorel. Intanto conosce Helmut Berger destinato a diventare attore simbolo del suo cinema nonché suo compagno di vita. Interessato al dibattito storiografico sul Nazismo, nel ‘69 gira “La caduta degli dei”, storia della famiglia tedesca degli Essenbeck, industriali metallurgici, nel biennio 1933-34, dall’incendio del Reichstag (27 febbraio 1933) alla “notte dei lunghi coltelli” (30 giugno 1934) in cui le SS fecero strage delle SA nella cittadina di Bad Wiessee, sul Tegernsee. Tragedia, alta letteratura, crollo di un mondo, ferro e fuoco, Macbeth di Shakespeare, I demoni di Dostoevskij, Gotterdammerung di Wagner e Thomas Mann. Film di rara potenza, con un cast stellare, asciutto, terribile, con ritmo narrativo che lascia senza fiato. Tradimento, assassinio, incesto, stupro, pedofilia, vizio, lussuria, cupidigia, lotta all’ultimo sangue per il potere… nulla viene risparmiato allo spettatore.
Primo film (1969) della cosiddetta “trilogia tedesca” – seguiranno Morte a Venezia (1971) e Ludwig (1973). Il film è una sinfonia tragica, ricca di temi sommessi e struggenti. Siamo di fronte ad un’opera di rara compattezza stilistica e di eccezionale eleganza. Visconti penetra in profondità il racconto di Mann e descrive la decadenza della società aristocratico-borghese, il conflitto tra arte e realtà materiale, la metafora della “malattia” per indagare la crisi dell’uomo nella modernità. Pur essendo un film raffinato e coltissimo non tocca le mie corde. Le tocca, e molto, invece “Ludwig”, col quale Visconti realizza compiutamente la propria visione decadente, estetizzante e profondamente tragica del mondo e del destino umano. Non esiste più traccia di speranza (Rocco e i suoi fratelli), tutto verrà inghiottito dal ferro e dal fuoco prussiani. Fluvialitá narrativa al sevizio di un ideale estetico, profonda conoscenza della cultura tedesca e dei suoi esiti tragici, senso altissimo del melodramma, culto della bellezza, attori bellissimi guastati dall’incontro con la durezza del mondo. Fine di un’epoca e di ogni utopia artistica. Il film che forse più di ogni altro ha segnato la mia vita nel bene e nel male (avevo sedici anni la prima volta che lo vidi, 1972). Helmut Berger e Romy Schneider sono stupendi e sfortunati, romantici, potenti ed infelici. Una Sissi che possiede una gamma di sfumature che nulla ha a che vedere con la frivola, ma famosa, trilogia. Ludwig è la corruzione ultima dell’eroe romantico e quando cade anche l’ultima illusione, Wagner cinico e meschino, interpretato da un monumentale Trewor Howard, non gli resta che consolare la propria follia nei tristi e meravigliosi castelli abitati soltanto dai suoi fidati servi e occasionali amanti. I colori accesi delle prime scene del film diventano sempre più grigi fino alla sequenza finale -l’annegamento- affogata in un nero piovoso e tragico.
Anche Luchino Visconti, grande intellettuale fin de race, si chiuderà sempre più nella rilettura dei grandi romanzi, perdendo ogni illusione e descrivendo se stesso nel malinconico “Gruppo di famiglia in un interno”, severa e matura riflessione sulla morte. E qui il filo nero che collega il Principe Salina, Aschenbach e Ludwig a Visconti stesso è palese. La bellezza viene sconfitta prima dalla non-vita politica e poi dalla morte. Chi è il professore? Mario Praz?, Visconti stesso? Entrambi? Figura del professore colto, isolato, disincantato. Scontro con la volgarità della modernità. Apparentemente film minore di Visconti ma io non la penso così. A me pare un vero e proprio testamento dell’intellettuale raffinato che comprende sino in fondo l’amarezza esistenziale e prova sincera pena per le anime perdute. Si legge la delusione dell’intellettuale Visconti dovuta al fallimento del suo rapporto con la sinistra, alla deriva delle sue illusioni, alla sconfitta del proletariato e della piccola borghesia intellettuale. Si è compiuto un parricidio senza alternative decenti e con la perdita di ogni relazione tipica nei ruoli familiari tradizionali. Si marcia a grandi passi verso una società borghese sempre più cinica, crudele, volgare e irrispettosa di ogni minima relazione umana… il mondo di oggi, volgare, imbecille, ipocrita e bugiardo, nel quale i buoni e rispettosi sono perseguitati e gli asini ragliano a squarciagola senza rendersi conto di viaggiare a folle velocità verso il baratro. “Gli intellettuali della mia generazione hanno cercato molto un equilibrio tra la politica e la morale: la ricerca dell’impossibile”. Film triste, sottovalutato e nel quale mi riconosco, ad un livello assai più basso, sempre più.
Luchino Visconti muore nella primavera del 1976, dopo aver visto insieme con i suoi più stretti collaboratori il primo montaggio del suo ultimo film “L’innocente”, tratto da D’Annunzio. Le sue ceneri sono conservate dal 2003 sotto una roccia sull’isola d’Ischia. Non potrà realizzare il film che desiderava: “La recherche”.Con lui muore un grande regista teatrale e un vero maestro del cinema.
“C’e uno scrittore, del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente… Racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo. Lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi. Poi tutt’a un tratto sparisce, e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna. In seguito le sue assenze si fanno più rare, e la sua presenza più costante. È la morte.”
J.V.